mercoledì 25 giugno 2025

Una ragionata ipotesi circa l’autore della Deposizione di Cristo nel sepolcro in S. Maria dei Sette Dolori

Il nascosto antico complesso di S. Maria dei Sette Dolori, cui il convento è oggi trasformato in un raffinato hotel, custodisce gemme artistiche sospingenti ad acuto apprezzamento.

Di un aspetto, inerente a tale testimonianza di estri, ne ho illustrato in “Marco Benefial: la ponderata passionalità della Vergine Addolorata con angeli con strumenti della passione e il Volto Santo di Cristo, scena dipinta per la chiesa di S. Maria dei Sette Dolori” (post del 31 agosto 2022), al quale rimando.

Un enigma sembra svolgersi, nella su citata chiesa, circa l’autore del dipinto Deposizione di Cristo nel sepolcro dell’altare maggiore, esaminando storici testi, ove sono indicati “nomi” avvinti alla foschia. In Roma antica e moderna, o sia Nuova descrizionetomo primoA Spese di Niccola Roisecco Mercante Libraro, e Stampatore in Piazza Navona 1765, è citato un “Cicognini veneziano” (pag. 157), confondendo, per come appare, tale “misterioso” pittore col drammaturgo fiorentino, Giacinto Andrea Cicognini, morto a Venezia intorno al 1651). In Nuova Descrizione di Roma Antica e Modernaedizione quarta1793Stamperia di Salvator Baldassarri Alla Catena della Sapienza è indicato “Cicogni” (pag. 34). Seguono: Guida metodica di Roma e i suoi contorniDal Marchese Giuseppe Melchiorri …  1840, citato nuovamente “Cicognini veneziano” (pag. 383); Chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Seconda Edizione 1891, Mariano Armellini …  indicato “Cicognani” (pag. 663). La mia indagine ha compreso altresì equivalenti scritti, compresi tra la fine del Seicento e il secondo decennio dell’Ottocento, nei quali il complesso di S. Maria dei Sette Dolori non è compreso, oppure la tela in argomento non è menzionata. Per completezza d’informazione accenno che, in tempi moderni, tale “Cicognani” è riportato nella Guida alle Chiese di Roma (1999), dell’autorevole religioso benedettino Giustino Farnedi, scomparso nel 2023.

Pittore dunque che si manifesta sconosciuto e dal “declinato” cognome, cui la tela troneggiante sull’altare maggiore, della chiesa trasteverina, appare abbrancata dal silente obblio che -quale impressione- non permette di scorgerne la mano.

Non può sfuggire, all’osservatore, quanto la tela sia una copia della “Deposizione” del Pordenone (Giovanni Antonio De Sacchis; 1484, circa-1539), pittura a tempera realizzata intorno al 1529/1530 per la chiesa dell'Annunziata di Cortemaggiore (Piacenza). Permarrebbe quindi misterioso l’artista che, in pieno XVII sec., -lasso temporale riguardante l’edificio romano- ne abbia eseguito una “trascrizione pittorica”.

Sono risalito al bolognese Carlo Cignani (1628-1726), il pittore dalla nobile visione prospettica, dalla grazia pregna di levità infusa negli atteggiamenti dei personaggi, dalla resa di scene palesemente pregne di intensa luminosità, dai vibranti incarnati, che pur nella monumentalità e nella drammaticità esprime un soffice efficace e controllato sentire. Il “Cicognini”, il “Cicogni”, il “Cicognani” perciò appaiono identificabili propriamente col Cignani, potendosi reputare, questi cognomi, come diversificata alterazione di quello reale. Ad oggi, per quanto pubblicato in ambito di storia dell’arte, al pittore bolognese non è attribuita questa “replica”, né la si cita riferendola ad altro artista.

Tale mia ipotesi appare suffragata da un “nesso storico”.

L’ edificazione del convento, di S. Maria dei Sette Dolori (1643-1667 e “propaggine” sino al 1676), è voluta dalla duchessa Camilla Virginia Savelli, moglie del duca di Latera (Viterbo), Pietro Francesco Farnese. Benché quest’ultimo appartenga a un ramo secondario di tale famiglia, è razionalmente sostenibile che intercorrano rapporti tra lui e membri degli influenti Farnese, come quelli che governano il Ducato di Parma e Piacenza -istituito dal pontefice Paolo III (1545) - e che terranno sino al 1731. Invero, il dipinto del Pordenone è posto, come detto, nella chiesa dell’Annunziata di Cortemaggiore sita proprio nel territorio piacentino.  È ragionevole perciò supporre che, la su detta opera, sia stata vista in loco dalla nobildonna, ivi presente quale coniuge di un Farnese, suscitandole viva ammirazione, tanto da volerne, successivamente, una copia quale pala d’altare maggiore della chiesa di S. Maria dei Sette Dolori.

Un altro elemento, dal carattere oggettivo, sorge a favore dell’ipotesi in argomento.

Il marito della Savelli, Pietro Francesco, è fratello del cardinal legato di Bologna, Gerolamo (Girolamo) Farnese, colui che, in nome del papa, amministra il territorio bolognese dal 1658. Egli vi palesa tratti principeschi per lo stile di vita, per il mecenatismo, per il fattivo interesse verso la realtà finanziaria e politica della città. Nell’ intento di rendere ancor più nobiliare il palazzo legatizio (oggi comunale), affida il lavoro pittorico, attraverso Francesco Albani, all'allievo di quest’ultimo, vale a dire Carlo Cignani, il quale con l'ausilio di Emilio Taruffi -conosciuto nella bottega dell'Albani e poi suo collaboratore- affresca (1659-1660) la sala del Consiglio, attualmente detta Farnese, riscontrando un colmo positivo riscontro.

Il “sodalizio” tra il cardinale Farnese e il Cignani non cessa allorché, il porporato, tornato a Roma (1662, anno coincidente con la morte proprio di Pietro Francesco), lo conduce con sé, assegnandogli l’ornamentazione di una galleria compresa nel Casino Farnese -oggi, i resti sono incorporati nella Villa Aurelia-, situato sul colle Gianicolo, poco fuori porta S. Pancrazio e non molto distante dal convento della Savelli. Il pittore però ne procrastina la realizzazione, sospingendo il cardinale a sostituirlo a favore di Filippo Lauri (Lawers). Sconosciuto è, ad oggi, il motivo di questa mancanza, rammentando nel contempo il rilevante incarico affrontato dal Cignani - coadiuvato dal Taruffi- nel 1663, vale a dire i due ampi affreschi dipinti sulle pareti, che precedono il presbiterio, della basilica S. Andrea della Valle: Il cardinale Bessarione con il reliquiario di S. Andrea (destra); S. Andrea dinanzi al proconsole Egea (sinistra). Come nota aggiungo che, una sua poetica Carità, è custodita in Roma presso la Galleria Corsini, dall’imprecisato anno di esecuzione, riferibile comunque alla seconda metà del Seicento.

L’artista soggiorna nell’Urbe circa tre anni (1662-1665), rilevandosi quindi plausibile che, per mezzo del cardinale Farnese, cognato della Savelli, avvenga l’incontro tra il medesimo pittore e la nobildonna, scaturendone la sua richiesta di dipingere una “replica” della pala del Pordenone, non escludendosi un’esecuzione - marginale- di Emilio Taruffi. Invero, come non supporre che, in virtù di una magnificata e dettagliata presentazione circa le capacità raffigurative dell’artista, mossa dal porporato, la duchessa abbia a sua volta riconosciuto, nel Cignani, il pittore al quale richiedere una fedele e brillante copia della tela del Pordenone.  

Deposizione di Cristo nel sepolcro “replica” perciò di un dipinto eseguito circa centrotrent’anni addietro, echeggiante una volontà, espressa dalla duchessa, volta a riproporre raffigurazioni dal denso connubio col luogo dedicato alla Vergine Addolorata, compartecipe all’azione redentiva. Difatti, la nobildonna vuole, nel convento, una particolare rielaborazione della veneratissima Vergine Odigitria, Colei che indica la via della salvezza (Gesù Cristo bambino), icona del tardo XII sec. /seconda metà del XIII sec., già nell’antica chiesa di Santa Maria in Portico, successivamente posta in S. Maria in Campitelli (1662). Oltre a ciò, “ritornando sulla chiesa”, quale ancóna dell’altare di destra è posta l’Annunciazione, copia -databile con molta probabilità agli anni Sessanta del Seicento- verosimilmente voluta dalla Savelli, dell’affresco (metà del XIII sec.) sito nella Basilica della SS. Annunziata di Firenze, immagine anch’essa oggetto di enorme culto. Si esplicita quindi una precipua costanza, della nobile, dedita a foggiare lustro cultuale al suo complesso delle Oblate Agostiniane.

Volgiamo ora l’attenzione alla raffigurazione, definendola “dal Pordenone”, giacché esatta copia della pittura di Cortemaggiore, rimandando al mio post “La Pietà, affresco di Perin del Vaga in S. Stefano del Cacco: considerazioni” pubblicato su questo blog il 23 giugno 2018 (attualmente il sesto dei più letti), riguardo all’articolato figurato tema della Deposizione di Cristo.

L’olio su tela, che incorona l’altare maggiore di S. Maria dei Sette Dolori, pur nella resa drammatica del tema, mantiene la levità delle posture e la raffigurazione plausibile dei moti nonché dell’aspetto impressi sulle membra dei personaggi.

Il soggetto richiama, nell’alveo della storia dell’arte, quello espresso da Raffaello attraverso la Deposizione di Cristo compiuta nel 1507 (conservata presso la Galleria Borghese), che, a sua volta, sembra rievocare il Compianto sul Cristo morto del Perugino (1495; Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina), secondo uno schema iconografico all’epoca già molto frequentato, che lo sarà ancor di più successivamente.  Immagine quindi che riprende, attraverso le varie epoche ove l’arte manifesta la sua continua cifra, la figura di Meleagro (figlio di Altea, colei che ne determina la morte), il mitologico personaggio, cui il corpo esamine disteso con un braccio abbandonato e pendulo viene ritratto in una vasta quantità di antichi sarcofagi. Il braccio pendulo, definibile come “appartenente alla morte”, si attesta perciò come elemento caratteristico e, secondo particolari prospettive, “autonomo” di questa reiterata scena, molto vivida in Italia comunque già negli ultimi decenni del Trecento.

Tra i personaggi muliebri, raffigurati nel “nostro” dipinto, rifulge la Maddalena che, sollevando dolcemente l’avambraccio di Cristo morto, con fare contristato delicatamente sfiora con le labbra la mano destra del Salvatore, riecheggiando la posa impressa da Perin del Vaga nella sua Pietà, realizzata intorno al 1519 in S. Stefano del Cacco, la chiesa elevata nello spazio occupato, in epoca romana, dal tempio di Iside e Serapide, l’Iseum Campensi (Campo Marzio). Forse il Pordenone vede l’affresco durante l’esecuzione, o almeno il disegno, considerato che si presume la sua presenza nella “Città Eterna”, sebbene con intervalli, tra l’inizio del 1517 e la fine della primavera del 1519.

Ancora indugiano gli occhi sulla tela “replicata”, dove giochi di luce posati sulle figure aprono la scena a un controllato dinamismo, i personaggi sono ottimamente definiti e accuratamente raffinati, i profili si enunciano tenui, la stesura possiede voce drammatica ma esplicitata in equilibrate forme; l’atmosfera arborea e il manto erboso sprigionano un’atmosferica sensibilità dischiudendo tenui raggi lentamente filtranti; inafferrabile appare il discosto orizzonte del Golgota; una morbidezza governante il chiaroscuro, privo di rigidità, sprigiona loquace delicatezza ottenendo sfumature in moderati rilievi, che accarezzano le forme plasmando sciolte linee quasi smorzando il carico della fisicità attorniante il Messia. Tratti di affettata grazia, immersa in uno spronato pianto, sono esclusi pur nei putti celestiali, posati su minute nubi.   

Il cereo corpo, di Cristo, che possiede carattere michelangiolesco, è fuso con il perfetto equilibrio, attenuante la massa corporea plasticamente colma. Quel corpo ormai privo di vita, è abbracciato da un sentimento di palpabile dolore esternato dalle figure, soprattutto muliebri; nulla però è condotto in plateale drammaticità. La stessa Vergine, tenuemente sostenuta da una pia donna, se pur presa dall’afflizione non cede ad alcun inconsolabile sconforto. Della tenera e vivida posa della Maddalena si è detto in precedenza, atto di soffuso amore, che sembra alleggerire maggiormente quelle esangui membra del Messia, tenuto da Giuseppe di Arimatea; ancor più dietro un meditativo Nicodemo è preso da una composta acuta tristezza, mentre nel lato opposto, S. Giovanni, al cielo innalza la sua sofferenza quale preghiera.    

       

Carlo Cignani (attr.) dal Pordenone (Giovanni Antonio De Sacchis), Deposizione di Cristo nel sepolcro (1662-1665)


      

 


 

particolare


  

Meleagro morente, metà II sec. d.C., frammento di sarcofago; Roma, Palazzo Mattei di Giove

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