Il
nascosto antico complesso di S. Maria dei Sette Dolori, cui il convento è oggi
trasformato in un raffinato hotel, custodisce gemme artistiche
sospingenti ad acuto apprezzamento.
Di
un aspetto, inerente a tale testimonianza di estri, ne ho illustrato in “Marco
Benefial: la ponderata passionalità della Vergine Addolorata con angeli con
strumenti della passione e il Volto Santo di Cristo, scena dipinta per la
chiesa di S. Maria dei Sette Dolori” (post del 31 agosto 2022), al quale
rimando.
Un
enigma sembra svolgersi, nella su citata chiesa, circa l’autore del dipinto Deposizione
di Cristo nel sepolcro dell’altare maggiore, esaminando storici testi, ove sono
indicati “nomi” avvinti alla foschia. In Roma antica e moderna, o sia Nuova
descrizione … tomo primo … A Spese di Niccola Roisecco Mercante
Libraro, e Stampatore in Piazza Navona 1765, è citato un “Cicognini
veneziano” (pag. 157), confondendo, per come
appare, tale “misterioso” pittore col drammaturgo fiorentino, Giacinto Andrea
Cicognini, morto a Venezia intorno al 1651). In Nuova Descrizione di
Roma Antica e Moderna … edizione quarta … 1793 … Stamperia
di Salvator Baldassarri Alla Catena della Sapienza è indicato “Cicogni”
(pag. 34). Seguono: Guida metodica di Roma e i suoi contorni … Dal
Marchese Giuseppe Melchiorri … 1840,
citato nuovamente “Cicognini veneziano” (pag. 383); Chiese di Roma
dal secolo IV al XIX, Seconda Edizione 1891, Mariano Armellini … indicato “Cicognani” (pag. 663). La
mia indagine ha compreso altresì equivalenti scritti, compresi tra la fine del
Seicento e il secondo decennio dell’Ottocento, nei quali il complesso di S.
Maria dei Sette Dolori non è compreso, oppure la tela in argomento non è
menzionata. Per completezza d’informazione accenno che, in tempi moderni, tale
“Cicognani” è riportato nella Guida alle Chiese di Roma (1999),
dell’autorevole religioso benedettino Giustino Farnedi, scomparso nel 2023.
Pittore
dunque che si manifesta sconosciuto e dal “declinato” cognome, cui la tela
troneggiante sull’altare maggiore, della chiesa trasteverina, appare abbrancata
dal silente obblio che -quale impressione- non permette di scorgerne la mano.
Non
può sfuggire, all’osservatore, quanto la tela sia una copia della “Deposizione”
del Pordenone (Giovanni Antonio De Sacchis; 1484, circa-1539), pittura a
tempera realizzata intorno al 1529/1530 per la chiesa dell'Annunziata di Cortemaggiore
(Piacenza). Permarrebbe quindi misterioso l’artista che, in pieno XVII sec.,
-lasso temporale riguardante l’edificio romano- ne abbia eseguito una
“trascrizione pittorica”.
Sono risalito al bolognese
Carlo Cignani (1628-1726), il pittore dalla nobile visione prospettica, dalla
grazia pregna di levità
infusa negli atteggiamenti dei personaggi, dalla resa di scene palesemente
pregne di intensa luminosità, dai vibranti incarnati, che pur nella
monumentalità e nella drammaticità esprime un soffice efficace e controllato
sentire. Il “Cicognini”, il “Cicogni”, il “Cicognani”
perciò appaiono identificabili propriamente col Cignani, potendosi reputare,
questi cognomi, come diversificata alterazione di quello reale. Ad oggi, per
quanto pubblicato in ambito di storia dell’arte, al pittore bolognese non è
attribuita questa “replica”, né la si cita riferendola ad altro artista.
Tale
mia ipotesi appare suffragata da un “nesso storico”.
L’
edificazione del convento, di S. Maria dei Sette Dolori (1643-1667 e “propaggine”
sino al 1676), è voluta dalla duchessa Camilla Virginia Savelli,
moglie del duca di Latera (Viterbo), Pietro Francesco Farnese. Benché
quest’ultimo appartenga a un ramo secondario di tale famiglia, è razionalmente
sostenibile che intercorrano rapporti tra lui e membri degli influenti Farnese,
come quelli che governano il Ducato di Parma e Piacenza -istituito dal
pontefice Paolo III (1545) - e che terranno sino al 1731. Invero, il dipinto
del Pordenone è posto, come detto, nella chiesa dell’Annunziata di
Cortemaggiore sita proprio nel territorio piacentino. È ragionevole perciò supporre che, la su
detta opera, sia stata vista in loco dalla nobildonna, ivi presente
quale coniuge di un Farnese, suscitandole viva ammirazione, tanto da volerne,
successivamente, una copia quale pala d’altare maggiore della chiesa di S.
Maria dei Sette Dolori.
Un
altro elemento, dal carattere oggettivo, sorge a favore dell’ipotesi in
argomento.
Il
marito della Savelli, Pietro Francesco, è fratello del
cardinal legato di Bologna, Gerolamo (Girolamo) Farnese, colui che, in nome del
papa, amministra il territorio bolognese dal 1658. Egli vi palesa tratti principeschi
per lo stile di vita, per il mecenatismo, per il fattivo interesse verso la
realtà finanziaria e politica della città. Nell’ intento di rendere ancor più
nobiliare il palazzo legatizio (oggi comunale), affida il lavoro pittorico, attraverso
Francesco Albani, all'allievo di quest’ultimo, vale a dire Carlo Cignani, il
quale con l'ausilio di Emilio Taruffi -conosciuto nella bottega dell'Albani e
poi suo collaboratore- affresca (1659-1660) la sala del Consiglio, attualmente detta
Farnese, riscontrando un colmo positivo riscontro.
Il
“sodalizio” tra il cardinale Farnese e il Cignani non cessa allorché, il
porporato, tornato a Roma (1662, anno coincidente con la morte proprio di
Pietro Francesco), lo conduce con sé, assegnandogli l’ornamentazione di una
galleria compresa nel Casino Farnese -oggi, i resti sono incorporati nella
Villa Aurelia-, situato sul colle Gianicolo, poco fuori porta S. Pancrazio e
non molto distante dal convento della Savelli. Il pittore però ne procrastina
la realizzazione, sospingendo il cardinale a sostituirlo a favore di Filippo
Lauri (Lawers). Sconosciuto è, ad oggi, il motivo di questa mancanza,
rammentando nel contempo il rilevante incarico affrontato dal Cignani - coadiuvato
dal Taruffi- nel 1663, vale a dire i due ampi affreschi dipinti sulle pareti, che
precedono il presbiterio, della basilica S. Andrea della Valle: Il cardinale
Bessarione con il reliquiario di S. Andrea (destra); S. Andrea dinanzi
al proconsole Egea (sinistra). Come nota aggiungo che, una sua
poetica Carità, è custodita in Roma presso la Galleria Corsini,
dall’imprecisato anno di esecuzione, riferibile comunque alla seconda metà del
Seicento.
L’artista
soggiorna nell’Urbe circa tre anni (1662-1665), rilevandosi quindi
plausibile che, per mezzo del cardinale Farnese, cognato della Savelli, avvenga
l’incontro tra il medesimo pittore e la nobildonna, scaturendone la sua
richiesta di dipingere una “replica” della pala del Pordenone, non escludendosi
un’esecuzione - marginale- di Emilio Taruffi. Invero, come non supporre che, in
virtù di una magnificata e dettagliata presentazione circa le capacità
raffigurative dell’artista, mossa dal porporato, la duchessa abbia a sua volta riconosciuto,
nel Cignani, il pittore al quale richiedere una fedele e brillante copia della
tela del Pordenone.
Deposizione
di Cristo nel sepolcro “replica” perciò di un dipinto
eseguito circa centrotrent’anni addietro, echeggiante una volontà, espressa
dalla duchessa, volta a riproporre raffigurazioni dal denso connubio col luogo
dedicato alla Vergine Addolorata, compartecipe all’azione redentiva. Difatti,
la nobildonna vuole, nel convento, una particolare rielaborazione della
veneratissima Vergine Odigitria, Colei che indica la via della salvezza (Gesù
Cristo bambino), icona del tardo XII sec. /seconda metà del XIII sec., già
nell’antica chiesa di Santa Maria in Portico, successivamente posta in S. Maria
in Campitelli (1662). Oltre a ciò, “ritornando sulla chiesa”, quale ancóna dell’altare di
destra è posta l’Annunciazione, copia
-databile con molta probabilità agli anni Sessanta del Seicento- verosimilmente
voluta dalla Savelli, dell’affresco (metà del XIII sec.) sito nella Basilica
della SS. Annunziata di Firenze, immagine anch’essa oggetto di enorme culto. Si
esplicita quindi una precipua costanza, della nobile, dedita a foggiare lustro
cultuale al suo complesso delle Oblate Agostiniane.
Volgiamo
ora l’attenzione alla raffigurazione, definendola “dal Pordenone”, giacché esatta
copia della pittura di Cortemaggiore, rimandando al mio post “La Pietà,
affresco di Perin del Vaga in S. Stefano del Cacco: considerazioni” pubblicato
su questo blog il 23 giugno 2018 (attualmente il sesto dei più letti),
riguardo all’articolato figurato tema della Deposizione
di Cristo.
L’olio
su tela, che incorona l’altare maggiore di S. Maria dei Sette Dolori, pur nella resa drammatica del tema, mantiene la levità
delle posture e la raffigurazione plausibile dei moti nonché dell’aspetto impressi
sulle membra dei personaggi.
Il soggetto richiama, nell’alveo della storia dell’arte,
quello espresso
da Raffaello attraverso la Deposizione di
Cristo compiuta nel 1507 (conservata presso la Galleria Borghese), che, a
sua volta, sembra rievocare il Compianto
sul Cristo morto del Perugino (1495; Firenze, Palazzo Pitti,
Galleria Palatina), secondo uno schema iconografico all’epoca già molto
frequentato, che lo sarà ancor di più successivamente. Immagine
quindi che riprende, attraverso le varie epoche ove l’arte manifesta la sua
continua cifra, la figura di Meleagro (figlio di Altea, colei che ne determina
la morte), il mitologico personaggio, cui il corpo esamine disteso con un
braccio abbandonato e pendulo viene ritratto in una vasta quantità di antichi
sarcofagi. Il braccio pendulo, definibile come “appartenente alla morte”, si
attesta perciò come elemento caratteristico e, secondo particolari prospettive,
“autonomo” di questa reiterata scena, molto vivida in Italia comunque già negli
ultimi decenni del Trecento.
Tra i
personaggi muliebri, raffigurati nel “nostro” dipinto, rifulge la Maddalena che,
sollevando dolcemente l’avambraccio di Cristo morto, con fare contristato
delicatamente sfiora con le labbra la mano destra del Salvatore, riecheggiando
la posa impressa da Perin del Vaga nella sua Pietà, realizzata intorno al 1519 in S. Stefano del Cacco, la
chiesa elevata nello spazio occupato, in epoca romana, dal tempio di Iside e
Serapide, l’Iseum Campensi (Campo Marzio). Forse il Pordenone vede
l’affresco durante l’esecuzione, o almeno il disegno, considerato che si presume
la sua presenza nella “Città Eterna”, sebbene con intervalli, tra l’inizio del
1517 e la fine della primavera del 1519.
Ancora
indugiano gli occhi sulla tela “replicata”, dove giochi di luce posati sulle
figure aprono la scena a un controllato dinamismo, i personaggi sono
ottimamente definiti e accuratamente raffinati, i profili si enunciano tenui,
la stesura possiede voce drammatica ma esplicitata in equilibrate forme; l’atmosfera
arborea e il manto erboso sprigionano un’atmosferica sensibilità dischiudendo
tenui raggi lentamente filtranti; inafferrabile appare il discosto orizzonte del
Golgota; una morbidezza governante il chiaroscuro, privo di rigidità, sprigiona
loquace delicatezza ottenendo sfumature in moderati rilievi, che accarezzano le
forme plasmando sciolte linee quasi smorzando il carico della fisicità attorniante
il Messia. Tratti di affettata grazia, immersa in uno spronato pianto, sono esclusi
pur nei putti celestiali, posati su minute nubi.
Il cereo corpo, di Cristo, che
possiede carattere michelangiolesco, è fuso con il perfetto equilibrio,
attenuante la massa corporea plasticamente colma. Quel corpo
ormai privo di vita, è abbracciato da un sentimento di palpabile dolore esternato
dalle figure, soprattutto muliebri; nulla però è condotto in plateale drammaticità.
La stessa Vergine, tenuemente sostenuta da una pia donna, se pur presa
dall’afflizione non cede ad alcun inconsolabile sconforto. Della tenera e
vivida posa della Maddalena si è detto in precedenza, atto di soffuso amore,
che sembra alleggerire maggiormente quelle esangui membra del Messia, tenuto da
Giuseppe di Arimatea; ancor più dietro un meditativo Nicodemo è preso da una
composta acuta tristezza, mentre nel lato opposto, S. Giovanni, al cielo
innalza la sua sofferenza quale preghiera.
Carlo Cignani (attr.) dal Pordenone (Giovanni Antonio De Sacchis), Deposizione di Cristo nel sepolcro (1662-1665)