Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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martedì 23 gennaio 2024

Basilica di S. Apollinare alle Terme Neroniane Alessandrine: il raro monogramma nella Cappella titolata alla Vergine

La volta della Cappella dedicata alla Vergine, detta anche Vergine delle Grazie, della Basilica di S. Apollinare, Cappellania della Pontifica Università della Santa Croce, comprende un raro monogramma mariano, da me rilevato -dopo lunghe ricerche- quale sinora unico in Roma, di cui manca dunque, per quanto minutamente esaminato, un’appropriata interpretazione.


Il Complesso "dell'Apollinare" racchiude gemme artistiche, quali, ad esempio, la statua di S. Francesco Saverio (cui il mio post è, attualmente, il sesto tra i più letti), oltre a delle quasi unicità come il monogramma mariano in argomento.

Il monogramma "dell'Apollinare" confrontato con quello comune 


Prima di illustrare specificatamente tale peculiare “insieme di segni”, occorre soffermarsi sulla “visione” del termine parola-lògos, aspetto essenziale in merito al tema che, in questa sede, viene esposto. Nel Vecchio Testamento, la parola di Dio, è il ripetuto traslato manifestante l’effetto repentino della Sua volontà, perciò non vi è espressa una definita quintessenza della “persona parola”. Tale “sottile sostanza” è affrontata, durante l’età ellenistica, come concetto intellegibile, unito a versanti intessuti dalla filosofia, l’aulica sapienza rivolta all’argomentazione e comprensione di tutte le essenze avvertibili o intrinseche alle idee, queste realtà eterne, atemporali ed eteree, delle quali il mondo sensibile è una -spesso sfuocata-immagine.  

Il lògos, cui l’etimo include soprattutto il significato “parola, ragione” come attesta Eraclito, ripresa successivamente da altri pensieri filosofici greci. Essi individuano in “lògos” la divina ragione che, permeando il mondo, vi diffonde la sua sostanza, lo vivifica e lo sospinge verso il suo compiuto disegno 

Nel successivo complesso sapienziale greco-ebraico, si definisce la sapienza divina “lògos”, che, in Filone di Alessandria, acquista una ben definita personalità come prima potenza -nello spazio e nel tempo- palesata da Dio, con potere mediatore tra il Creatore stesso e la realtà molteplice, espressa nel e dal mondo. Il lògos perciò appare il custode e il propagatore della composita idea, intesa quale aspetto, forma della plurima creazione, forza senziente che colma la voragine interminata disgiungente Dio e il mondo. Esso però rimane “immagine teorica” di Dio, percepita dunque come primo principio della realtà sensibile, energia fondamentale la quale sostiene tutti gli elementi, la “via filosofica” che consente, all’umanità, di elevarsi giungendo alla contemplazione interiore di Dio: argomenti di sapore quasi dottrinale circa il lògos figurato come luce e vita.

Nella visione propria del Vangelo, il lògos è, secondo quanto afferma Giovanni, l’incarnato Verbo di Dio (Verbum Dei), Cristo, la Parola tangibile di Dio, Sua perfetta immagine. Viene enunciata quindi la natura del lògos nell’eterna azione divina, concreta persona per mezzo della quale si esplica la redenzione umana.  Nel principio era la Parola (il Verbo di Dio) e la Parola era Dio. Essa era nel principio con Dio. Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei; e senza di lei neppure una delle cose fatte è stata fatta. In lei era la vita…” (Giovanni cap.1, vers.1-4). Ancora “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui (il Verbo di Dio) …” (vers. 9 e 10), “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi …” (vers. 14).

Quantomeno un accenno richiede l’elaborato approfondimento, avvenuto nel primo Cristianesimo, contemporaneamente alle questioni cristologiche e trinitarie, con la rilettura di definizioni formulate dal pensiero filosofico greco e lo sviluppo di una cristiana conoscenza. Infatti, questa è rivelata da ciò che deriva da Dio, non riducendone perciò le connotazioni a un riecheggiamento di concetti già elaborati ma risaltandone il nuovo divenire svelato, quindi non eternamente immobile. A tal fine si possono citare, tra gli altri, Giustino, Ireneo di Lione, Clemente Alessandrino e Agostino; in particolare quest’ultimo rileva l’acuta attinenza tra alcuni tratti della letteratura filosofica greca e, per l’appunto, la verità cristiana rivelata nella completezza, che evidenzia l’essenza reale del Verbum Dei.

Ulteriore aspetto necessariamente da considerare -se non altro in breve-, riguardo l’argomento trattato, attiene al simbolo. “Elemento” -o insieme di “elementi”-  evocante la sostanza di quello che in assoluto esiste, soprattutto circa le entità immateriali. L’arte, nel suo ampissimo percorso temporale -almeno sino alla metà del XVIII sec.-, è pregna di capaci simboli -non considerati meri “vezzi” estetici- come ad esempio esemplifica il granchio, effigiato ai piedi della poetica statua di S. Francesco Saverio -un episodio della sua vita s’intreccia con quel crostaceo-, realizzata da Pierre Legros, detto il Giovane (appellato anche Pierre II Legros) proprio per la “nostra” Basilica.

Quanto finora esposto, come detto all’inizio di questo articolo, è strettamente connesso al portato del monogramma in argomento.

L’ambiente in cui esso è posto scaturisce dalla creatività architettonica di Ferdinando Fuga, che realizza un sacello a pianta rettangolare (aprile del 1742-agosto 1747), ripresa in chiave personale dell’originario vestibolo borrominiano compreso nella trasteverina S. Maria dei Sette Dolori.

L’inconsueto monogramma “dell’Apollinare”, posto com’è in alto, a una vista distratta, sembra non comprendere alcuna particolarità. Un’attenta osservazione però ne manifesta, di quei segni grafici, la peculiare composizione, quasi unica. Proprio il Fuga, forse su suggerimento di un suo stretto collaboratore, deve aver introdotto, in tale ambiente, lo stesso rarissimo monogramma -strettamente connesso al significato cultuale proclamato dall’affresco della Vergine- sito nella sagrestia della chiesa aquilana di San Marco, in gran parte ricostruita dopo il terremoto del 1703. Vicino ad essa sorge l’ex chiesa di S. Agostino (attualmente spazio teatrale), ugualmente quasi distrutta dal medesimo sisma, cui, il Fuga, ne avrebbe disegnato un progetto. Successivamente, nella stessa città dell’Aquila, inizia il lavoro riguardante la chiesa di S. Caterina martire (1747-1752), ove la sua mano si evidenzia. Questi dati storici producono la razionale ipotesi che, l’architetto, debba aver visto il su citato monogramma, per poi riprodurlo nella “nostra” Cappella, considerando che egli, nel 1748, dà pure avvio all’elevazione del nuovo “Palazzo Apollinare” e quindi il monogramma potrebbe essere stato eseguito durante i lavori di tale edificio.

Alzando lo sguardo verso la volta, appare evidente la forma a trigramma, concretando un vivido fonema, l’eminente suono del principio nel quale era la Parola e la Parola era con Dio e la Parola era Dio. Eterna radice della creazione, in quanto il Padre Eterno ha creato il suono e l’universo è nato da esso. Il Verbo si è fatto carne per mezzo di Maria, che l’argomentato simbolo ne attesta l’unione inscindibile con Gesù Cristo, secondo il piano salvifico divino. Miryam in ebraico, Maryam in aramaico, la lingua parlata dal popolo, deriverebbe dall’egiziano Mryt “beneamata, che ha in sé intensa grazia”, oppure, come sembra da aggiornati studi, scaturirebbe da una voce semitica nord-occidentale “rum” “persona elevata”, perciò Miryam significherebbe “eccelsa, elevata”. Già il suo nome la proclama, da ogni visuale, sublime, destinata alla sommità dei cieli.

Il “nostro” monogramma si distingue da quello tradizionale, poiché accentuato da due “S” non coincidenti -però speculari- nell’avvolgere le barrette laterali della “M”, affermando, per l’appunto, l’unione della Vergine al disegno redentivo voluto da Dio, sostanziato attraverso il Cristo. Se tali consonanti enunciano l’aggettivo, riferito a Maria, Santissima Madre di Dio, invero distinguono un ulteriore e più sottile significato. La loro foggia serpentiforme, infatti, rimanda al Vangelo di Giovanni (capitolo 3, vers.14-15:” E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che il Figliol dell’uomo sia innalzato, affinché chiunque crede in lui non perisca ma abbia vita eterna”. Il passo evangelico si riferisce al libro veterotestamentario Numeri (capitolo 21, vers.8-9), passi successivi alla descrizione della punizione divina avvenuta per mezzo di mortali serpenti:” E l’Eterno disse a Mosè: Fatti un serpente ardente e mettilo sopra un'asta; e avverrà che chiunque sarà morso e lo guarderà, scamperà (dalla morte). Mosè allora fece un serpente di rame e lo mise sopra un’asta; e avveniva che, quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di rame, scampava”. Il serpente è in relazione con la terra (vive sia nei luoghi umidi sia nei deserti) e il mondo infero (grembo fertile della Terra; vive anche in ambienti ipogei), che, già creatura negativa, risalendo le superfici diviene diffusore di guarigione e di rinascita altresì spirituale. Raffigurazione quindi dell’opera redentrice sostanziata, nella storia umana, da Cristo Gesù. Invero, Egli avoca a sé l’inconoscibilità, l’imperscrutabilità del suo patire sulla croce, su cui morirà (per risorgere dal sepolcro e sancire la vita eterna a chiunque a Lui si volga), decifrando e dischiudendo il significato dell'antico atto -dal senso profetico- eseguito da Mosè. Il serpente posto sull’incrociato legno si trasforma in efficace simbolo di Cristo, il quale trasfigura il peccato, assumendone il gravoso peso tramite l’Incarnazione, rendendolo sterile -poiché estraneo al suo essere Vero Uomo, Figlio di Dio- quindi simbolo di rinnovamento e di risveglio spirituale, dunque di resurrezione, conseguenza di quell’offrirsi con quell’atroce supplizio mortale.

Oltre a ciò, quelle due “S” aprendo e chiudendo, nei versi espressi, il monogramma, sottintendono un’aggiuntiva acuta accezione, riferita al Cristo lògos-verbum: "Ego sum Α et Ω" (“Io sono l'alpha e l'oméga”; Apocalisse cap.1, vers.8), “Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine” (Apocalisse cap. 21, vers.6). Gesù Cristo affermando la sua identità divina, quale Alfa e Omega, definisce sé stesso eterno e perciò uguale a Dio, dunque Egli è Dio. A tal proposito giova rammentare due passi contenuti nel libro di Isaia: “Io sono il primo e l’ultimo” (cap.44, vers. 6), “Io sono il primo e sono pure l’ultimo” (cap.48, vers.12-13): Dio, riferendosi a sé stesso, asserisce la sua interezza, la sua pienezza infinita quale “primo e “ultimo”.  

Al centro della “M” s’interseca la vocale “A”, che mantenendo, volutamente, la relativa barretta orizzontale, a differenza della comune impostazione, forma, con le due linee obblique verticali della stessa “M”, due triangoli equilateri, sovrapposti, dall’implicito valore simbolico trinitario. In effetti, sin dai primi secoli del Cristianesimo ne declama lo svelamento prodotto da Cristo: Padre, Figlio e Spirito Santo. Il vertice glorifica Dio Padre mentre i lati della base inneggiano a Dio Cristo e a Dio Spirito Santo: Dio Uno e Unico, dalla sola sostanza divina, nel quale esistono e agiscono tre uguali persone sebbene distinte. Molte volte le raffigurazioni artistiche mostrano un alone/aureola triangolare intorno e sopra la testa di Dio Padre, immagine della Trinità.

All’interno della “A” si nota, come accennato in precedenza, un altro triangolo, quest’ultimo rovesciato, dunque con l’apice rivolto in basso: l’azione divina sulla terra, l’incarnazione del lògos e l’opera dello Spirito Santo. Geometrico “impianto” che ribadisce l’Unico Dio, attraverso il quale si compie l’armonia del sistema dualistico “cosmico”: “Padre nostro che sei nei cielisia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra”. Il capitolo sesto del Vangelo di Matteo (vers.10-13) riporta la fondamentale preghiera dettata da Cristo, cui altresì echeggiano i due triangoli del monogramma, reale inno teologico.

Cogliendo la valenza simbolica narrata da quell’insieme di segni, nell’animo sorge un intenso sentire in armonia con quanto il templum esplicita: non un’afona sacralità ma una sinfonia sacrale sospingente lo sguardo e il “petto”, sede della sensibilità, verso il cielo, per essere anime viventi in terra.     

Ringrazio il Rev. Dott. don  Manuel Miedes, Rettore della Basilica di Sant'Apollinare, per la gentile autorizzazione circa la pubblicazione delle immagini comprese in questo post

mercoledì 31 agosto 2022

Marco Benefial: la ponderata passionalità della Vergine Addolorata con angeli con strumenti della passione e il Volto Santo di Cristo, scena dipinta per la chiesa di S. Maria dei Sette Dolori

Celato da un alto muro su un pendio del colle Gianicolo, il complesso di S. Maria dei Sette Dolori repentinamente appare, nella sua elaborata e distinta architettonica forma, allorché si oltrepassi l’esterno portale (segue immagine).


Imponente edificazione voluta da Camilla Virginia Savelli, la quale nel 1641 acquista uno spazioso fabbricato rurale, situato accanto a un terreno esteso sulle pendici del Gianicolo, già donatole dalla cugina materna, la francescana Giacinta Marescotti, futura santa (ricordiamo l’altare dedicatole in S. Francesco a Ripa Grande). In tale luogo sorgono dunque la chiesa e il monastero delle oblate agostiniane, secondo il proposito della medesima Savelli. Emerge in lei la volontà di poter concretare la vocazione religiosa femminile, espletandola senza la rigidità della clausura più stretta. Pur inglobando dunque quel senso di spiritualità francescana, incentrata sull’intenso interiore sentire, la pia nobildonna desidera concretare un’esperienza religiosa diversa, adottando perciò la regola, meno “aspra”, delle Oblate Agostiniane. Il termine oblato -dal latino oblatus, da oblatus “offrire”- indica, in generale, coloro che, attraverso la vita monastica, agiscono con “dedizione in servitù” (oblatio) nella donazione completa di se stessi a Dio, consacrandosi a Cristo. Infatti, la fondatrice di questo monastero pone quale scopo, delle “sue Oblate”, una forte azione caritatevole, secondo quanto lei stessa si adopera tra poveri, diseredati, infermi, di Trastevere. Progetta altresì la costruzione di un ospedale attiguo, al costruendo complesso, però una serie di avversi eventi e la maggiore presenza di religiose di nobile origine, la indirizzano, prevalentemente, verso l’educandato, vale a dire l’opera di istruzione per le fanciulle soprattutto povere, accogliendo altresì anche quelle sofferenti per qualche infermità, non contagiosa, “rifiutate” da altri monasteri.  

La volontà, della duchessa Savelli, di enunciare la salda elevatezza della sua opera religiosa, che si propone di accogliere un gran numero di donne, sia votate all’attiva spiritualità, sia bisognose di concreto aiuto, individua, nel Borromini, l’architetto a cui assegnare la realizzazione, architettonica, del superbo complesso di S. Maria dei Sette Dolori (1642). I lavori iniziano nel 1643 proseguendo sino al 1646, con edificazione della parte centrale circa il prospetto (compreso il portale) e quella laterale sinistra. Probabilmente, per i concomitanti incarichi inerenti alle fabbriche dell’Oratorio dei Filippini, di S. Maria in Vallicella (Chiesa Nuova) e di S. Ivo alla Sapienza, l’architetto ticinese non cura, adeguatamente, la direzione dell’opera costruttiva di questo complesso, sino ad abbandonarlo (1646 su citato), benché il progetto sia quasi definito -in disegno- in tutti i suoi particolari. L’edificazione, ad ogni modo, in breve tempo riprende -la chiesa è completata nel 1652- per essere finanziata, successivamente, dal duca Pietro Farnese, marito di donna Camilla, attraverso la vendita di una vasta proprietà terriera (1658). Sarà Francesco Contini a completare i lavori (1658-1667), con palese il richiamo al Borromini, sebbene mancanti dell’ornamentazione esterna, proprio -come si reputa- per carenza finanziaria.

Un ambiente celato mostra l’ingenita raffinatezza, degli spazi interni, dell’articolato edificio, formato dalla chiesa e dall’annesso convento -quest’ultimo oggi trasformato in un rinomato hotel-: la Sala Nobile, “condotta” dalle oblate agostiniane come la stessa chiesa (segue immagine). 


Locale allestito dalla duchessa Savelli, per ricevere, “degnamente”, nobili, prelati e così via; funzione che manterrà nei tempi successivi, come attesta la visita di Pio IX (1857, circa) svoltasi nel complesso, al termine della quale il pontefice a lungo sosta in tale particolare stanza. Essa distendendosi con volta rettangolare a botte e vele laterali, conserva sulle ordinate pareti alcuni dipinti, tra cui il ritratto della fondatrice, Camilla Virginia Savelli, di Carlo Maratta (o Maratti), il cui linguaggio pittorico adorna, della chiesa, la cappella di sinistra con il coevo S. Agostino e il mistero della Ss. Trinità (1655-1656). Quasi prospiciente al ritratto marattiano è posta la tela, Vergine Addolorata con angeli con strumenti della passione e il Volto Santo di Cristo, di Marco Benefial. Pittura originariamente collocata nella chiesa, come testimonia altresì la Nuova Guida Metodica di Roma e suoi contorni, aumentata e corretta dal Marchese Giuseppe Melchiorri, Roma 1840: “Quello (il dipinto, N.d.R.) poi di M.V. addolorata sopra la porta interna è del Cav. Marco Benefial”.

Questa opera plastica espone, però in cadenza raccolta, meditativa, quella immagine ove la Vergine è attraversata, trafitta -altresì in evocante chiave-, dal dolore quale compartecipe della passione di Gesù Cristo. Per interpretarne dunque la sostanza pittorica, occorre perciò volgersi al culto, a cui essa si volge ed esprime.

La devozione alla Vergine Addolorata scaturisce dalla lettura, di alcuni passi, inclusi nel Vangelo di Giovanni (capitolo 19, versi 25-27), in cui è citata la presenza della Vergine ai piedi della Croce. Culto molto diffuso dalla fine del secolo XI, per l’operato di S. Anselmo (dottore della Chiesa; 1033 o 1034–1109), di S. Bernardo (1090-1153) e soprattutto dello sconosciuto -a tutt’oggi- autore del Liber de passio Christi et dolor et planctu Matris eius (Libro della passione di Cristo e anche del dolore e del pianto di colei che ne è la Madre), erroneamente attribuito in passato allo stesso S. Bernardo. Con il Liber inizia una cospicua esposizione letteraria, in diversi paesi europei, incentrata sul Pianto della Vergine. Da ciò deriva il celeberrimo Stabat Mater (Madre che sta ai piedi della Croce), cui già l’inizio ne definisce la tragicità della composizione, attribuita, ormai definitivamente, a Jacopone da Todi (?-1306): Stabat Mater iuxta crucem lacrimòsa dum pendébat Filius. Cuius ànimam geméntem contristàtam et dolèntem pertransívit glàdius … (La Madre addolorata stava in lacrime presso la Croce mentre pendeva il Figlio. E il suo animo gemente, contristato e dolente era trafitto da una spada …). Densa devozione che si effonde tanto da originare la ricorrenza dei Sette Dolori di Maria Santissima ed infatti, nel XV sec., avvengono le prime cerimonie cultuali della Compassione di Maria ai piedi della Croce, celebrazione poi molto divulgata benché priva del distintivo segno d’universalità, sancita dalla Chiesa. Trascorreranno circa quattro secoli, affinché sia proclamata festa liturgica “universale”, quindi in tutta la stessa Chiesa (1814), da Pio VII, soprattutto quale ringraziamento per l’affrancamento suo e dello stato pontificio dal gioco napoleonico. Fissata inizialmente alla terza domenica settembrina, nel 1913 Pio X ne stabilisce la definitiva data al 15 settembre, consacrandola alla Beata Vergine Maria Addolorata.

Il formidabile eco dello Stabat, durante l’avvicendarsi dei secoli, ispira altresì numerosi musicisti che ne realizzano mirabili componimenti; citandone alcuni si avverte la vastità di tale drammatico tema: Giovanni Pierligi da Palestrina, Alessandro Scarlatti, Domenico Scarlatti, Antonio Caldara, Giovanni Battista Pergolesi , Tommaso Traetta, Agostino Steffani, Joseph Haydn, Luigi Boccherini, Giovanni Paisiello, Saverio Mercadante, Gioachino Rossini, Franz Schubert, Franz Listz, Giuseppe Verdi, Francis Poulenc e altri.

Al dolore della Vergine il portentoso edificio, eretto all’inizio del Gianicolo, si dedica, rammemorando i sette che, durante l’esistenza, l’avvinghiano. Quale proemio che li precede, come squarcio di cieli non più trascendenti ma riversati in una realtà tutta umana, si staglia la profezia dell'anziano Simeone sul Bambino Gesù:A te stessa una spada trafiggerà l’anima” (Vangelo di Luca, capitolo 2, verso 35). Questo è il vaticinio rivolto alla Vergine da Simeone, pronunciato a chiusura del cantico con il quale innalza la sua lode al Salvatore (nell’episodio che narra la presentazione del Bambino, da poco tempo nato, al Tempio di Gerusalemme), alla Sua azione futura di giustizia “causa di rovina” per gli empi, “di resurrezione” per la moltitudine, che a Lui si assegna ascoltandone e praticandone gli insegnamenti. Una lettura “tradizionale” consegnerebbe, a Maria, soltanto il suo strazio a venire, che la percuoterà ai bordi della croce, laddove invece, quell’arma appuntita profetizzata, avrà forza di svelare la purezza o la corruzione “di molti cuori” e a causa di tale agire sorgerà il martirio sul Calvario, da cui s’innalzerà la resurrezione di Cristo prima e, dei giusti in Cristo, alla fine dei tempi:Simeone li benedisse e parlò a Maria, sua madre: Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l'anima. (Vangelo di Luca capitolo su citato, versi 34-35). La Vergine quindi -secondo un’interpretazione scevra di una limitante visione-, nel suo dolore acuto per il martirio del Divino Figlio, col trafiggente sofferenza aprirà, per prima, l’anima alla resurrezione del Messia. La Vergine, che condividerà con il Cristo alcuni “aguzzi tratti” percorrenti la Sua vita umana. Da essi la “doglianza” patita nella fuga in Egitto, durante la strage dei bambini ordinata dal re Erode (Vangelo di Matteo capitolo 2, versi 13-22). L’angoscia per la sparizione di Gesù Cristo, dodicenne, ritrovato, dopo tre giorni, nel tempio di Gerusalemme (Vangelo di Luca 2:41-51). Inoltre, l'incontro tra Maria e Gesù Cristo lungo la salita al Calvario, episodio non indicato nel vangelo di Luca, che fa riferimento a “una gran folla di popolo e di donne”, le quali seguono Cristo battendosi il petto con gran lamento, ma la tradizione ne vuole, come razionalmente ipotizzabile, anche la presenza della Vergine. Ella segue il Figlio sino ai piedi della croce su cui viene crocifisso Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa” (Vangelo di Giovanni capitolo 19, versi 25-27). Ancora un’acutissima afflizione, la Vergine accoglie nelle sue braccia Cristo morto, prima che sia sepolto; scena definita Pietà, descrivente un episodio non contenuto nei Vangeli –ma anch’esso oggettivamente plausibile-, vale a dire quel doloroso raccoglimento della Vergine, sul corpo del Figlio morto. Vicenda composta dal sentimento appartenente alla forte devozione e alla salda spiritualità, soprattutto vivida in Italia e in Germania (per tale argomento rimando al mio post del 23 giugno 2018 “La Pietà, affresco di Perin del Vaga in S. Stefano del Cacco: considerazioni”). Infine, Maria assiste al seppellimento di Cristo Gesù; anche questo episodio non è menzionato da nessun Vangelo -ma ragionevolmente verosimile-, desumendosi solo dal testo di Giovanni, in virtù della presenza della Vergine accanto alla croce, sulla quale è inchiodato il Messia.

L’immagine quindi di Maria, attraversata da un vorace patimento, ha dato vita alla voluminosissima mole devozionale e artistica, espressa attraverso rappresentazioni poetiche, musicali, plastiche, versante in cui, come già in precedenza accennato, altresì il Benfial (1684-1764) si cimenta su commissione, però secondo un particolare sentimento.

La sua nascita in Roma -da genitori francesi -, essendo incline alla pittura sin da bambino, lo consegna alla bottega di Bonaventura Lamberti, pittore molto attivo in ambito romano, dall’impronta linearmente “classica”, che interpreta la formidabile lezione soprattutto di Annibale Carracci. Perciò il quattordicenne Benefial dirige il suo imberbe percorso verso lo studio di Raffaello e della scuola bolognese, cui i Carracci sono tra gli apici. Successivamente al 1703 iniziano i primi timidi passi della sua autonoma realizzazione pittorica, seppur in modo graduale e difficoltoso; infatti, solo nel 1716 emerge, nella “Città Eterna”, il suo estro in “divenire” eseguendo il S. Saturnino per la basilica dei Ss. Giovanni e Paolo al Celio. In tale periodo si rivela densa la sintassi marattiana nei suoi lavori, come dimostra anche la tela in S. Maria dei Sette Dolori.

Lavoro eseguito nel 1721 che, seppur pregno del respiro, come detto, soffuso da un verso del Maratta, già però annuncia il suo vivido rappresentare, con peculiare compattezza, l’insieme degli elementi cromatici, stesi in colori scevri di esagerate “iridescenze” che emettono soltanto vacui effetti; al contrario il Benefial combina una pittura delicata, schietta e misurata. Si avvia così la sua cifra stilistica a contraddistinguersi in quegli anni, a Roma, attenta al particolare, senza mai perciò a cedere a divagazioni meramente decorative, a futili orpelli.

In tale dipinto il Volto Santo si mostra decisamente scuro, pressoché nascosto, in una sorta di rossastra macula, mentre la Vergine, nel suo composto e raccolto dolore, è attorniata da angeli, che come un coro tengono, teneramente, tra le mani gli strumenti della Passione; misurato insieme da cui scaturisce però un’originale potente intensità drammatica, un acceso commosso sentimento affettivo, che non tracima in un’artefatta compassione estetica.

L’evidente tendenza classicheggiante -nell’artista viva molto- inizia a non imprigionarsi nel freddo e “corretto” formale disegno accademico. Quel rossastro funebre panno, retto dalle delicate -non languide- figure angeliche, sembra unirsi al manto della Vergine. La ricercata dolcezza, lo studiato amabile aspetto non straripa in una morbidezza descrittiva, al contrario la trama delle suggestioni, sapientemente articolate, ne appalesano la sostanza di pittura governata con padronanza, tra   armoniosi scelti accordi cromatici, rifuggenti da intenti meramente celebrativi.

Tutta la composizione appalesa il ponderato tenore emotivo, nobilmente contegnoso, attraverso una vibrante grazia, la quale poeta la sobrietà, di quell’alato coro, che cinge in levità la Vergine, raffigurata con posa di profonda meditazione, svellente ogni artificiosa tragicità, mostrando, all’osservatore, quanto sia consapevole compartecipe a quel sacrificio messianico, che sul Golgota si è compiuto (segue immagine tratta da Google).

 


 

 

 

     

 

  

 

martedì 26 ottobre 2021

S. Maria in Publicolis: il simbolo cristologico nel suo prospetto

Di questo misconosciuto e quasi appartato spazio cultuale, oggetto di un mio studio, ne ho illustrato il monumento funebre -realizzato da Giovanni Battista Maini- di Antonio Publicola De Santacroce e Girolama Nari, con il post del 3 marzo 2018. Ne riprendo dunque l’introduzione utile al presente articolo.

La chiesa si erge nell’aerea limitrofa all’attuale largo di Torre Argentina e all’odierna via delle Botteghe Oscure, dove il Portico di Minucio si espandeva tutt’intorno a un’enorme piazza, al centro della quale si ergeva un tempio (non identificabile), costruito dal console Marco Minucio Rufo (Porticus Minucia Vetus) nel 110 a.C. (ma secondo alcuni studi tale ambiente sarebbe sorto invece intorno ai templi di largo di Torre Argentina). Dopo il grande incendio dell’80 d.C. che devastò l’intera zona, avvenne un’intensa attività edificatoria, che comprese altresì la costruzione del Porticus Minucia Frumentaria sotto l’imperio di Domiziano (81-96 d.C.), luogo deputato per la distribuzione gratuita del grano a favore del popolo.

La chiesa è menzionata sia nel cosiddetto catalogo Salisburgense, anteriore al 682, antico documento che cita i luoghi di culto della Roma cristiana, sia nel codice della biblioteca del monastero di Einsiedein (Svizzera) del secolo VIII, così come in un codice compilato durante il pontificato di Leone III (795 – 816). Inoltre, nella bolla di Urbano III (1185 – 1186), essa viene indicata quale luogo sussidiario di culto di S. Lorenzo in Damaso, “S. Maria in (o de) Publico”, espressione latina (mettere a disposizione del pubblico) che rimanda, probabilmente, al ricordo dell’antico Porticus Minucia Frumentaria.

Durante il XIII secolo la famiglia Santacroce ottiene, su questo luogo di culto, il giuspatronato, vale a dire il diritto di proteggerla e di mantenerla, dotandola di beni patrimoniali dai quali essa (e soprattutto chi la gestisce) ne trae rendite. Proprio per decisione dei Santacroce che, nel 1465, la chiesa è ampiamente restaurata.  

L’influenza di tale nobile famiglia romana – sin dal 1250 definita nei regesti delle famiglie dell’Urbe come “antiquissima” -, in questa area della Città, è così predominante da vantare la discendenza dal console Publio Valerio Levino (Publicola Valerius Laevinus), che nel 280 a. C. aveva con successo combattuto contro Pirro. Questa forte volontà di nobilitare maggiormente la propria origine, ricongiungendola all’antica Roma quale aulico lignaggio dei Valerii Publicolae, sospinge i Santacroce, intorno alla metà del XVI secolo, ad aggiungere, al loro cognome, l’altro di Publicola ed essendo anche i proprietari del vicino palazzo, imprimono altresì alla chiesa la nuova denominazione, che assume quindi l’appellativo -che permane - in publicolis”. Nel medesimo periodo, Pio IV, nel 1565 crea cardinale di “Sancta Ecclesia Catholica Apostolicae Romana” Prospero Santacroce, mentre Antonio, suo nipote, lo diviene nel 1629 e ancora Marcello, nipote di Antonio, ne è investito nel 1652, cui segue -1699-, in questo alto titolo di prelatura, Andrea il nipote di Marcello.

Nel 1643 ormai fatiscente e preannunciando una tremenda rovina, la chiesa subisce la demolizione per essere riedificata su committenza proprio di Marcello Santacroce -all’epoca ancora non cardinale- che ne affida l’esecuzione a Giovanni Antonio De Rossi.

Le trasformazioni avvenute anche nell’ambito ecclesiastico cittadino, dovuto altresì agli avvenimenti storici succedutesi (Repubblica Romana filofrancese 1798 – 1799; occupazione napoleonica 1809 – 1814), riguardano altresì S. Maria in Publicolis. Infatti, Leone XII, con l’enciclica Super universam del 1° novembre del 1824, compiendo la riforma della struttura delle parrocchie romane, già avviata da Pio VII, abroga nei confronti di questa chiesa la “cura delle anime”, attività religiosa che si esplicava nell’assistenza personale spirituale nelle differenti situazioni della vita pratica, attraverso la confessione, la cura devozionale, i colloqui e gli aiuti materiali. Questo impegno pastorale è perciò attribuito alle vicine parrocchie dei Ss. Biagio e Carlo ai Catinari, di S. Maria in Monticelli e di S. Maria in Campitelli.

Nel 1858 la famiglia Publicola Santacroce consegna la chiesa a S. Gaetano Errico (1791 – 1860), fondatore nel 1833 della Congregazione dei Missionari dei Sacri Cuori, cui lo scopo è imperniato sulla diffusione della devozione dei Sacri Cuori di Gesù e Maria. La Congregazione ancora oggi officia questo fascinoso tempio.

Il prospetto

 La facciata (v. immagine)è compiuta, come accennato, da Giovanni Antonio De Rossi (1616 – 1695) – già affiliato all'Accademia di S. Luca dal 1636-, che nei suoi lavori, pur avendo assimilato il linguaggio del Bernini, rielabora il verso architettonico del Borromini e, in minor misura, del Cortona, ma ne semplifica la complessa articolazione volumica e l’assetto delle superfici espresse in chiave barocca, conformando l’estensione dei suoi compositi progetti sia alle esigenze estetiche della facoltosa committenza, sia alla temperie culturale e artistica a lui contemporanea, innalzandosi a fondamentale collegamento tra l’espressione stilistica dell’ultimo Barocco e i primi vagiti del Settecento.

Il prospetto mostra due ordini: in basso semicolonne ioniche, in alto pilastri tuscanici, questi derivati dal sistema architettonico etrusco, il quale può essere definito una sorta di adattamento dell’ordine dorico. La campata centrale si presenta avanzata con leggero movimento. Nell’ordine inferiore un portale, tra semicolonne ioniche con due nicchie vuote, è sormontato da un timpano arcuato e spezzato; nella sezione superiore, dopo la fascia con l’epigrafe dedicatoria della chiesa e la data di edificazione -“DEI PARA ET VIRGINI IN PUBLICOLIS MDCXLIII” (A DIO SUBORDINATA QUALE TESTIMONE E VERGINE IN PUBBLICOLIS 1643)-, una luce (o finestrone) oblunga, - che però interrompe l’armonia delle linee e affievolisce il moto verticale della struttura – risalta il timpano triangolare tra i pilastri tuscanici e ancor più in alto la composizione è conclusa da un’ampia sezione architettonica curvilinea spezzata -nella medesima forma di quella inferiore- innalzata da mensole. Ai lati estremi si notano due pellicani (v. immagine).

 

Simbolo cristologico del pellicano

 

Nell’Antico Testamento tale animale costituisce un alimento impuro ed è dunque simbolo di desolazione, di abbandono, di solitudine. Infatti, nel Salmo 102 (versetto 6), l’uomo afflitto innalza al Signore il suo gemito:” Sono simile al pellicano nel deserto”. Per la cristianità il passo possiede sostanza profetica, alludendo al Cristo sia nel deserto sia abbandonato dai discepoli nell’Orto degli ulivi, poco prima di essere catturato. Questo simbolo della solitudine di Gesù Cristo è ripercorso da S. Agostino, correlandolo alla nascita del Messia:” si deve comprendere in quella espressione (il pellicano nella solitudine) il Cristo nato dalla Vergine … nato nella solitudine perché Egli solo è nato così”. Similmente S. Idefonso da Toledo (607 - 667) afferma:” Il pellicano di una solitudine senza pari, è naturalmente il Cristo della nascita verginale, messo al mondo da una matrice inviolata, Egli che, generato miracolosamente, è vissuto nella dimora di una verginale solitudine”. Come non citare, a questo proposito, il Fisiologo, testo di un anonimo alessandrino del II secolo, che commenta diffondendo con senso allusivo e riposto i temi dei testi sacri e gli insegnamenti del fiorente Cristianesimo, tramite gli esempi, il più delle volte fantasiosi, del regno animale. Questa opera quindi fissa la forma dell’acutissimo amore, nutrito dal pellicano, verso i suoi figli che -secondo l’idea espressa nel testo- quando sono “piccoli” disobbediscono talmente tanto da costringere, lo stesso pellicano genitore, a ucciderli (ma una variante indica l’uccisione per opera dei serpenti). Un’enorme compassione però sopraggiunge, tanto che per tre giorni la madre s’immerge nel pianto e dopo il terzo, essa, colpendosi ripetutamente il fianco con il becco, sparge il suo sangue sui “piccoli” morti, i quali in tal modo resuscitano. Similitudine di pregnante senso messianico, che, dall’alto fregio del prospetto, attesta l’amore salvifico di Gesù Cristo, unicità concepita nel seno della Vergine.








Immagini tratte da Google

martedì 1 giugno 2021

Gian Lorenzo Bernini nella pittura e il dipinto “S.Sebastiano” (attribuzione) quale opera esemplificativa

Gian Lorenzo Bernini (1598-1680), architetto di grandiose realizzazioni impresse di accenti caratteristicamente “barocchi”, pregni di movimento e di suggestiva fastosità, ma altresì capace di dar forma, attraverso la sua sensibilità, a sistemi edificatori che, nella configurazione planimetrica – e molto spesso prospettica- rivisitano canoni cinquecenteschi, tuttavia da questi il suo vigoroso temperamento, in determinate “fabbriche”, si discosta modellando plurime fonti, da dove le sue opere si ergono con accezione interamente nuova.

Bernini scultore che, magnificamente, slega il marmo dall’incagliare del tardo “Manierismo”, superandone l’impaludato modellato, plasmando un nuovo verso scultorio, foggiando moti che, liberamente, effondono le loro dimensioni nello spazio, scandendo sublimi effetti d’immediate azioni, vitali e leggiadre in e da quanto rappresentato. Abilità creativa che penetra in atti fisici, per risolverli in stati psicologici; fulminee pose, di personaggi, sconfessanti la rigidezza marmorea, che egli   trasforma in carne con sostanza di levità; aligero moto delle figure e dei corpi nella forma che apre, quanto scolpito, tra sparse chiome e membra permeate di luce, trasfondendo, a quanto raffigurato, aura pittorica. Sculture permeate ora da un’espansiva e vigorosa vitalità, ora -in muliebri personaggi-da un sensuale palpito intonante compiuta grazia; culminanti mistici rapimenti in un vibrare di celesti strali in illuminanti misteriosi chiarori, che riverberano gemiti di stupefacente sacralità, in una sinfonia di superlativa tensione spirituale. Magnifica è la resa delle figure sprigionanti quell’intensa luminosità, esaltata dalla formidabile cura dei tessuti delle vesti, i quali intensificano l’agente forza di tutta la superficie della scena, esponendone il plasmare superlativo -del marmo- con commovente moto, avvolto dalla bellezza fiammeggiata da un divino bagliore diffuso.

Bernini artista” universale”, realizzatore anche di spettacolosi effimeri apparati decorativi, oltre ad essere autore di commedie -ideate per una ristretta platea- allestite con rimarchevole minuziosità, colme di efficaci insolite arguzie sceniche, effetti che tramutano la finzione teatrale in realtà conducendo, gli spettatori, in un universo stupefacente.

Bernini nell’estro pittorico ma sottomesso, per la mole dei lavori commissionati, alla sua arte architettonica e scultoria, determinandone un’evidente minore presenza nell’insieme delle opere compiute. Eppure, la tavolozza berniniana, mostra un particolare pregiato dinamismo, che declama, per lo più, l’abbandono di qualunque atteggiamento enfatico, manifestando un altro spontaneo sentire; cifra stilistica che pur non rinuncia a trasmettere un evocativo ed equilibrato vigore, altresì denso di forza spirituale.

L’arte pittorica berniniana si colloca nella creazione architettonica e scultoria, come si dimostra nelle testimonianze biografiche, considerate indubbie sin dalla loro diffusione e, sino ad oggi, definitive.

La prima, cronologicamente pubblicata (1682) appena due anni dopo il decesso dell’artista, si snoda già dal titolo “Vita del Cavaliere Gio: Lorenzo Bernino Scultore, Architetto, Pittore”, scritta da “Filippo Baldinucci Fiorentino”, dedicata alla “Sacra e Reale Maestà di Cristina di Svezia”. Volume in cui vi sono raccolte testimonianze dirette, espresse da suoi figli e da suoi stretti collaboratori, da altri artisti conoscitori di precise esperienze berniniane, oltre a quanto è derivato dalla consultazione di documenti conservati nell'archivio della Fabbrica di S. Pietro.

La seconda cronologica biografia -1713, ma elaborata molto prima- “Vita del Cavalier Gio. Lorenzo Bernino, descritta da Domenico Bernino suo figlio” comprende l’affettuosa, non edulcorata, netta descrizione di episodi ed effetti e mete del padre, definito:” alquanto aspro di natura anche nelle cose ben fatte, fisso nelle operazioni, ardente nell’ira”. Particolareggiata “biografia della vita” in molti passaggi tratta da una sorta di memoria personale, organizzata dal celeberrimo genitore, volta a rappresentare l’assolutezza della sua epoca, manifestata con la scultura, con l’architettura e, per l’appunto, con la pittura, arti palesate in nuove, universali forme in intima connessione tra loro.

Bernini pittore, tuttavia indefinibile per le sue particolari caratterizzazioni -che più avanti osserverò-, rispetto a quanto propone e concreta negli altri ambiti artistici, in cui effonde la “poetica barocca”. Poetica - come ho argomentato nel mio post “Il manifestarsi del Barocco” (5 maggio 2015) – intesa come estrema eterogeneità, esaltazione del singolare, acuta tensione verso la bellezza, effetto del “sempre nuovo”, del sorprendente.

Nella pittura, ciononostante l’attinente indefinibilità berniniana, il “sentimento barocco” nutrito dall’artista, quale immediata percezione interiore, è pienamente collimante con quel concepire di raffigurazioni, trascendenti, create da un’ispirazione realmente poetica. Essa pertanto non viene, nell’intimo, fattivamente separata dal suo universo, quando, nelle fabbriche monumentali dove egli si adopera, l’esecuzione pittorica viene affidata ad altri autori, ovvero -in loco- per la sua indiretta influenza, o per suoi specifici consigli, o per assegnata supervisione estrinsecata in quegli esaltanti “cantieri”. Suo esternato giudizio o, ancor meglio, suo espletante coordinamento che determina la compiutezza dell’intero repertorio espressivo, acceso dalle differenti “pratiche d’arte”, fuse in un insieme inscindibile nell’attuazione di quanto indicato nel progetto. Bernini quindi riesce a congiungere architettura, scultura e pittura, finalità che, il Baldinucci, nella biografia berniniana esplicita (confermata da quella successiva di Domenico Bernini):” E’ concetto molto universale ch’egli sia il primo, che abbia tentato di unire l’architettura colla scultura e pittura in tal modo, che di tutte si facesse un “bel composto”; il che egli fece con togliere alcune uniformità odiose di attitudini, rompendole talora senza violare le buone regole, ma senza obbligarsi a regola; ed era suo detto ordinario in tal proposito che chi non esce talvolta della regola non la passa mai; voleva però, che chi non era insieme pittore e scultore, a ciò non si cimentasse, ma si stesse fermo ne’ buoni precetti dell’arte”.  Tale intento diventa un sistema progettuale e un fondamento estetico, che s’invola verso la vibrante bellezza sublime, connotando l’opera berniniana.

Le regole -la loro pedissequa osservanza-, secondo questo principio, sono strumenti che sopperiscono alla penuria, alla mancanza di acuto estro e di faconda creatività. Adoperarle quindi per essere forzate, per realizzare quel “bel composto”, che dona corpo -riprendendo ancora un brano del su richiamato mio post-, con varietà e ricchezza dei materiali, a forme levitanti, irregolari e complesse, a chiare linee sinuose e schiuse, a grandiosità in movimento, ad artifici luministici, a scenografie di estrema e stupefacente ingegnosità, ad ambientazioni sfarzose, a maestosi e concitati contrasti chiaroscurali, a pittoriche vibrazioni esaltanti il pathos dei personaggi. In questo magmatico elevato spazio, il Bernini, si erge ad anima del “Barocco”. Sommo l’estro berniniano e tale sin dagli anni giovanili, così preminente nella temperie artistica romana; lirico afflato calorosamente accolto da papa Urbano VIII (1623-1644) -sulla scia dei predecessori Paolo V (1605-1621) e Gregorio XV (1621-1623) -, al secolo Maffeo Barberini, il quale nella porpora cardinalizia ne ha già apprezzato la marcata valenza. Infatti, ancora il Baldinucci registra che:” Già era stato assunto al Sommo Pontificato il Card. Maffeo Barberino, che fu Urbano VIIIQui larghissimo campo s’aperse alle fortune del Bernino, imperciocché quel gran Pontefice non appena asceso al Sacro Soglio, che egli il fece chiamare a se, ed accoltolo con dolci maniere, in sì fatta guisa gli ragionò: E’ gran fortuna la vostra, o Cavaliere, di veder Papa il Cardinal Maffeo Barberino, ma assai maggiore è la nostra, che il Cavaliere Bernino viva nel nostro Pontificatoegli aveva concepitodi far dipignere a lui tutta la Loggia della benedizione (progetto mai eseguito, antecedentemente già affidato, da Paolo V, a Giovanni Lanfranco e, successivamente assegnato, da Gregorio XV, a Giovanni Francesco Barbieri, il Guercino); il perché gli significò esser gusto suo, che egli s’ingegnasse d’applicar molto del suo tempo in studi di Architettura, e Pittura, a fine di congiugnere alle altre sue virtù (l’eccelsa perizia mostrata dai suoi gruppi scolpiti) eminenza anche quelle belle facoltàPer lo spazio di due anni continovi attese alla Pittura, voglio dire a far pratica di maneggiare il colore attesoché egli già le gran difficoltà del disegno co’ suoi grandissimi studi superare avesse. In questo stesso tempo, senza lasciar gli studi di Architettura, fece egli gran quantità di Quadri grandi, e piccoli, i quali oggi nelle celebri Gallerie di Roma, ed in altri degnissimi luoghi fanno pomposa mostra”. 

Bernini nella pittura, che molto avverte nella sua intimità, come si legge in un altro tratto dello scritto: “ Conobbe egli fin da principio, che il suo forte era la Scultura, onde quantunque egli al dipignere si sentisse molto inclinato, con tutto ciò non vi si volle fermar del tutto; e ‘l suo dipignere, potiamo dire, che fu per mero divertimento; fece egli perciò sì gran progetti per quell’Arte; che si vedono di sua mano, oltre a quelli, che sono in pubblico sopra 150, quadri, molti de’ quali son posseduti dall’Eccellentissimi Cardinali (Francesco) Barberino, e (Flavio) Chigi (“cardinal nepote” di Alessandro VII), e da quella de’ suoi figliuoli”. La sua scultura senza pari, magnificata dai suoi contemporanei:” Non fu mai forse avanti a’ nostri e nel suo tempo, che con più facilità, e franchezza maneggiasse il marmo. Diede all’opere sue una tenerezza meravigliosa, dalla quale appresero poi molti grandi uomini, che hanno operato in Roma ne’ suoi tempi; e sebbene alcuni biasimavano i panneggiamenti delle sue Statue, come troppo ripiegati, e troppo trafitti, egli però stimava esser quello un pregio particolare del suo scarpello, il quale in tal modo mostrava aver vinta la gran difficultà di render, per così dire, il marmo pieghevole, e di sapere ad un certo modo accoppiare insieme la Pittura, e la Scultura, ed il non avere ciò fatto gli altri artefici, diceva dependere dal non esser dato loro il cuore di rendere i sassi così ubbidienti alla mano, quanto se fussero stati di pasta, o cera; questo però diceva egli non già con affetto di iattanza, o presunzione, ma per render conto di se stesso, e dell’opere sue”. Creatività immaginifica che, della scultura, ne reiventa concepimento nuovo e ardito in un’unitarietà organica; espressione d’illimitatezza, che oltrepassa la singola visione delle arti per “avverare” il culmine figurativo, che rende inviolabile, “sacra”, la straordinaria possanza espressiva di quella compenetrante unità, per la quale l’architettura si abbiglia di scultura e questa di pittura e viceversa. Così, superbo esempio- sottolineato nel mio post dedicato a François Duquesnoy (22 ottobre 2015) -, virtuosamente e poderosamente esclamano, nella Basilica papale di S. Pietro, i voluminosi piloni “sollevanti” la cupola michelangiolesca, con il loro corpo disserrato dalle logge, che incoronano gli altari dedicati a santi personaggi e le grandi nicchie esaltate dalle statue (cui il S. Longino è direttamente scolpito dal Bernini) combinanti una coralità, che definisce lo spazio centripeto della navata centrale intorno al baldacchino, mentre questo, monumentale e complesso (sì berniniano, però tanto deve alla creatività del Borromini), assume una sacrale poderosità idiomatica, che trasmette, all’osservatore, un vibrante convincimento di assistere a un evento, che supera le possibilità dell’umana azione, coinvolgimento da una grandezza scenica sospingente l’animo tra quelle rifulgenze. Da essi si apre ancor più la superficie immensa dove l’emozione, che travalica facoltà intellettive, rimane presa dalla magnificenza conclusiva dell’edificio, rappresentato dalla fastosa Cathedra Petri, capace di trasformare in commovente -nel proprio significato dell’etimo, dal latino “mettere in movimento” -, energia un multiforme apparato monumentale e celebrativo.

Un aneddoto -si vuole narrato dallo stesso Bernini e raccolto dal Baldinucci- si propone di anticipare, anzi di vaticinare, la magistrale esecuzione di quell’incomparabile insieme architettonico-scultoreo, curioso episodio che, forse non fortuitamente, è legato ad Annibale Carracci, il pittore dell’armoniosa sintesi tra realtà sensibile, naturale e reinterpretazione del linguaggio classico: “ Viveasene il Fanciullo (Bernini) in questo tempo così innamorato dell’arte, che non solo tenea con essa sempre legati i suoi più intimi pensieri, ma il trattar con gli Artefici di maggior grido, riputava egli le sue maggior delizie. Avvenne un giorno, ch’è si trovò col celebratissimo Anibal Carracci, ed altri virtuosi della Basilica di S. Pietro, e già avean tutti sodisfatto alla lor divozione, quando nell’uscir di Chiesa quel gran Maestro, voltatosi verso la Tribuna, così parlò: Credete a me, che egli ha pure da venire, quando che sia, un qual che prodigioso ingegno, che in quel mezzo, e in quel fondo ha da far due gran moli proporzionate alla vastità di quello Tempio. Tanto bastò, e non più, per far sì, che il Bernino tutto ardesse per desiderio di condursi egli a tanto; e non potendo raffrenare gl’interni impulsi, col più vivo del cuore: o fussi pure io quello! E così senza punto avvedersene interpretò il vaticino di Anibale, che poi nella sua propria persona si avverò così appunto, come noi a suo tempo diremo, parlando delle sue mirabili opere, che egli per quei luoghi condusse”.      

Questo episodio è peraltro dubbio, per la cronologia inerente ai personaggi e allo stato dei lavori circa la stessa Basilica. Il Bernini è presente a Roma tra il 1605 e il 1606 (quindi tra i sette e gli otto anni di età), periodo durante il quale, il Carracci, cade in depressione per gravemente ammalarsi tanto che, la maggior parte dei suoi lavori, sono eseguiti da aiuti, talvolta da suoi disegni; lo stato di salute peggiora conducendolo rapidamente alla morte nel 1609, quando Gian Lorenzo ha raggiunto gli undici anni di età. Secondo lo stesso Baldinucci e Domenico Bernini, egli avrebbe realizzato alcune opere in marmo proprio dall’età di otto anni, come avvalorerebbero recenti studi, cui ne mantengo remore. Inoltre, relativamente ai coevi lavori nella Fabbrica di S. Pietro e dunque al suo stato reale dell’epoca, il pontefice, Paolo V, dispone la definitiva distruzione dell'antica struttura basilicale, che si avvia all’inizio della primavera del 1606, indicendo contemporaneamente un bando circa il mutamento dell’impianto, da croce greca -come disegnato da Michelangelo- a croce latina, altresì su il non trascurabile parere della Curia, che considera l’edificio, in tal modo sviluppato, conforme alla tradizione cattolica e alle relative cerimonie liturgiche. Carlo Maderno, con la collaborazione di Carlo Fontana, fratello maggiore di Domenico, è chiamato ad affrontare una delle imprese più ardue del Seicento; i relativi lavori iniziano nella primavera del 1607, interessando le navate dalla metà dell’anno successivo, mentre già è in costruzione la facciata. Questo complessivo scenario appare escludere l’evento -dal timbro decisamente laudatorio- prima narrato, ma racchiude un coerente significato interpretativo: la concezione di una distinguibile forma unitaria, scaturita dal fondersi delle arti -delle quali, la pittura, è personificata dal Carracci-, come verità incardinata sull’immaginazione, come incitamento ed impeto dell’anima. Non accessorio a tale “vedere” si staglia quindi il riferimento al Carracci, stabilendo il rapporto tra l’oggetto della peculiare visione e il concreto contenuto dell’espressione pittorica, cui l’artista bolognese ne rappresenta un vertice, che avrà loquacità sino al primo Ottocento.

Ritornando a quanto indica il Baldinucci, riguardo ai “due anni continovi attese alla Pittura”, alcuni attuali studi -con i quali concordo- sono tradotti come fase non strettamente legata a un addestramento, acquisente sicura e abile tecnica pittorica, bensì concretante la volontà, espressa da Urbano VIII, di indirizzare, anche in quest’arte, il già famoso Bernini, coerentemente con il suo ponteficale proposito volto a combinare, visivamente, una globale lettura della rinnovata spiritualità, attraverso temi esaltanti il trionfo della Chiesa. Questa finalità, del pontefice, appare quale razionale motivo della speculare realizzazione di due santi, affidata al “nostro” Gian Lorenzo - Ss. Andrea e Tommaso, sua dipinta opera tra le più compiute - e ad Andrea Sacchi - Ss. Antonio Abate e Francesco d'Assisi- ambedue eseguiti nel medesimo anno, 1627- entrambi oggi conservati presso la londinese National Gallery- successivamente compresi nella collezione di Francesco Barberini, cardinal nepote dello stesso Urbano VIII; essi costituiscono un confronto pittorico tra i due artisti. Maestri d’arte già acclamati e protagonisti di riguardevoli commissioni pubbliche -soprattutto il Bernini protagonista massimo in S. Pietro, cui due anni più tardi ne sarà “,’l’Architetto” -, i due dipinti possono essere individuati, in merito a questo argomento, quali lavori di una medesima committenza, rifiutando perciò la “spessa” tesi di un’ideata forte influenza del Sacchi sullo stesso Bernini, se non addirittura di una discepolanza del secondo verso il primo.   

Ho accennato al cardinale Francesco Barberini (1597-1679), uomo di fine erudizione e perciò di sottile pensiero che distinguono il suo agire; quando non volto alla politica, commissiona e protegge il “fare arte”. Amante di studi letterari esterna poliedrici interessi culturali e passione per le scienze, cosmo magnificato dalla sua ricchissima libreria, che si accompagna con la consistente raccolta di dipinti e con l’insieme di antiche preziosità. Un’abbondante varietà di piante rare definisce il suo giardino e una sorta di, personale, spazio espositivo è dedicato alle scienze naturali. Figura quindi caratteristica di questa feconda epoca, che approfondisce la conoscenza del Bernini durante i lavori edificatori, da lui voluti, circa la residenza della famiglia e avviati nel 1626, sotto la direzione del Maderno e con la fattiva opera sia del Borromini sia del “nostro” Gian Lorenzo: palazzo Barberini. Sarà proprio il Bernini che, in stretto rapporto confidenziale, consiglierà al porporato l’acquisizione di alcuni dipinti.   

Quanto sinora articolato introduce nella definizione dei, peculiarissimi, modi pittorici berniniani, che colgono versi, dell'arte di dipingere a lui contemporanei, trasfigurandoli in cifra straordinariamente propria. Si alternano, in un fondo monocromatico, toni caldi e tenui o limpidi e frenati, che la tavolozza del Bernini, dalla scala uniforme, vi fa emergere un’ampissima pluralità di modellati plastici contrasti. Sceglie quindi un linguaggio “sperimentale”, organizzandovi intensi ritmi, che pervengono a una, consonante, distruzione dei volumi assegnati alle figure per quanto attiva la sola struttura cromatica. Della scuola veneta ne riprende, rimodulandola, la preziosità del colore in un’accentuata libera stesura, che elargisce consistenza al soggetto ritratto. Visivamente disgiunto, in questa precipua creatività plastica, da quella “temeraria sostanza” del “bel composto”, Bernini vi sancisce la sua primigenia idea dell’arte, intesa quale bellezza espressa nella proporzione immaginata dal disegno, principio teorico fondamentale, cui l’assenza determina il naufragio rappresentato dalla soverchiante fantasticheria, ove si smarrisce l’originaria verità, naturale perché divina secondo il concetto espresso nell’antichità. Idealità delle forme che scaturiscono dal nitido disegnato progetto e dalla saldezza compositiva, pieni elementi caratteristici della maturità di Annibale Carracci, indubbiamente sorgente di alcuni specifici tratti stesi dal Bernini pittore, non a caso citato nel non fortuito aneddoto già ripreso. Infatti, nella cifra stilistica, del pittore bolognese, il lirismo abbraccia un’equilibrata monumentalità, dispiegando cadenza timbrica nella fluidezza delle forme, lievemente cinte dal tenue alone dello sfumato.

Il Bernini dunque ne vibra, in personalissima chiave, una contestura sobria, talvolta essenziale, in un accordo timbrico echeggiante la tenerezza incarnata, dall’originalissimo classicismo carraccesco, in diverse raffigurazioni. Studio diretto della natura, combinando il concentrato intelletto con l’essenza dello stile, così il Carracci influenza il Bernini, il quale ne alleggerisce i giochi chiaroscurali, imprimendo -in differenti lavori- ai raffigurati un tagliente dinamismo.

Il “nostro artista universale” ancora acuisce, di alcune invenzioni del Carracci, l’assenza di qualsiasi riferimento a ciò che circonda i personaggi rappresentati: nessun attributo ambientale, spaziale e simili viene descritto nelle opere pittoriche eseguite. Ne discende che l’interiorità, la psicologia delle figure viene rivelata dai soli volti e dunque ancor più è tratteggiata una realtà che diviene verità poetica, per merito della quale allontana, il Bernini, la sua pittura dalla mera derivazione. Le medesime vesti appaiono, generalmente, effetti di colore, di liquida luce riflessa, che sembrano slegarsi da precise trame tessute.

Nel decifrare la pregnante determinazione pittorica berniniana, sorge un’ulteriore ascendenza interpretativa critica, che ne rintraccia altri elementi nel caravaggismo, o meglio quanto in esso la liricità regola l’estrinsecazione dell’esistenza, avvicinandosi a una quasi dotta rappresentazione del vivere, non separato dal sentimento. In tele di autori, compresi in tale forza pittorica, perciò vi è traslato un luminismo accurato, attenuante un esasperato naturalismo, confermando nondimeno solido vigore compositivo e forte tensione emotiva con nitidezza di segno e, in vivace contrasto chiaroscurale, con repentini intensi accordi cromatici.

Se il “nostro” Gian Lorenzo, quale pittore, s’impadronisce di tutti i su citati versanti, la sua geniale prestezza li sopravanza attraverso il suo rapido virtuosismo, per generare una metaforica visione del tempo, stretto alla caducità dell’umana esistenza, che soltanto il sentire poetico -nei suoi ritratti vivo, quale scopo, come in quelli degli apicali “maestri” -, riesce a essere affermazione di respiro esistente nella realtà. 

Sorprendente accentuazione d’immediati moti che, dell’artificiosità ritrattistica, si distingue l’insito impossessamento della natura attraverso l’arte, divenendo la condizione di ciò che si manifesta reale.

La raffigurazione di volti pertanto materializza la verità dei soggetti effigiati, come un mostrarne la spinta del sentimento altrimenti celato. Ebbene la rappresentazione assume elativa efficacia, di un concetto astratto, muovendosi, dal tocco del Carracci e dal ritmo di certo caravaggismo, nella mimesi d’intimo soffio emanato dall’anima o nel carattere esposto del personaggio. Con immediate, asciutte pennellate -il più delle volte non curate nei minimi particolari-, il Bernini disfa l’intendimento dell’icona ideata quale finzione, incidendo in essa incorporea ma reale volontà psichica. Carattere questo derivato dall’azione poetica nel modo anche del recitar cantando, ossia la parte declamata della composizione vocale, il recitativo sorto nella seconda metà del Cinquecento e in auge nel Seicento.

Temperie che può definirsi, parafrasando il futuro Vivaldi, “cimento nell’invenzione” in un contesto totalizzante; invenzione attivata dall’esperienza plastica ma pregna di razionale improvvisazione, che raggiunge la capacità di vivere del raffigurato ora composto, ora fremente. Urto d’interiorità che non mira a destare artificiosamente clamore, ma che riceve possa, come fatto cenno, dalla poesia e nel musicale suo magnificamento, poggiandovi saldamente visualità pittorica, traendo a sé lo sguardo dello spettatore, in un’entità a cui l’effigiato appartiene e che prende e forte tiene il medesimo osservatore. 

Dai busti marmorei eseguiti ne prende lo studio del sembiante, dunque l’espressione del volto, che nella pittura ne estremizza il superamento dell’effetto lezioso -quando non realmente provato- del premente nobilitare la raffigurazione, pertanto vincolata ad attribuire comunque, alla figura, lodi ed osannate virtù. Sperimentazione berniniana pura che avanza, con destrezza, tra le manifestazioni della natura, consolidando una rinnovata eloquenza di viva impressione. Emozione che percepisce forme riunendo, in un “tutto” unico e omogeneo, il respiro dell’anima e il getto dell’umana volontà, pingendo la rivelata autentica subitaneità, sciente di quanto la tecnica, soprattutto in questo lido, gli permette di inseguire ed afferrare la vitalità della diretta conoscenza della fortezza, generatrice di tutte l’essenze.

Ritorna una frase del Baldinucci:” ‘l suo dipignere, potiamo dire, che fu per mero divertimento”; divertimento nella sua accezione etimologica, scaturita dal latino “divertere: volgere altrove”, integralmente plausibile per la pittura berniniana, che altronde è volta, vastità di completo libero arbitrio e di esperimentazione plastica. Eliminando ogni accento metaforico o simbolico, appalesa, nell’apparire del raffigurato, l’accidentalità di un improvviso senso, fomento d’interiorità.

Non deve però essere sottaciuta che il producimento dei dipinti del Bernini sia, in buona misura, destinata, almeno inizialmente, a una propria “esposizione domestica, familiare”, utile pur quale indagine psicologica, incarnata in soggetti raffigurati, in cui il pensiero, contrariamente alla relativa positura, è attivo, spesso fremente come poi gigantesca nel bel composto, ove le membra scolpite magnificano l’impareggiabile resa dei personaggi, nell’intensa luminosità di quegli ambienti palpitanti, fluttuanti in arditezze architettoniche e plastiche, tra le vesti, ondose per la tensione pervadente tutte le superfici, aperte, dal prodigioso trattamento del marmo, con commovente moto della bellezza, illuminata da un divino biancore, disceso dall’alto cielo della creatività sublime, divenendo sostanza tangibile separata da qualsiasi metrica temporale.       

Tra le opere pinte riunite nella mostra, “Bernini” svoltasi tra novembre 2017 e febbraio 2018, presso la Galleria Borghese, un’assoluta novità mai prima esposta, suscitando enorme interesse: S. Sebastiano (segue immagine; le immagini sono tratte da Google). Dipinto proveniente da una collezione privata romana, originariamente inclusa in quella del cardinale Francesco Barberini, In esso sono tratteggiate, con efficacia e vivacità, le essenziali linee della originale liricità pittorica berniniana.


Opera inedita, cui la data di esecuzione rimane incerta (a mio giudizio collocabile entro la prima metà degli anni Trenta del Seicento), cui l’attribuzione al “nostro” artista si appalesa tesi condividibile, in virtù di quanto attualmente è verificabile, altresì rilevando la citazione compresa in un inventario del 1649, inerente alla collezione dell’alto prelato Barberini:” Quadro con … mezza figura ignuda S. Sebastiano alto palmi cinque e mezzo e largo quattro di mano del Cavalier Bernino”, opera già considerata perduta. Oltre a ciò, sul retro della tela, è apposto un sigillo cardinalizio Barberini, che ne attesta la paternità a Francesco.

Diffusi appaiono i caratteri insiti nella tavolozza berniniana, che in tale lavoro accolgono lineamenti singolari, confermandone la varianza dell’attività creativa stesa con piglio estemporaneo, perciò rara e insolita. Il dipinto richiama, velatamente e parzialmente, un sentire derivato dal “Sansone in catene” (1594, circa) di Annibale Carracci (segue immagine), conservato nella stessa Galleria Borghese, ma da questo differisce, tra l’altro, per la liquefazione del tono cromatico non steso quindi come massa compatta.



Percezione del lavoro caraccesco insita pur nel pittorico precedente,
David, (segue immagine) eseguito -come maggiormente si reputa- nel 1624 (Galleria Nazionale di Arte Antica, Palazzo Barberini), che sembra anticipare, nell’impostazione e nel procedimento tecnico, il successivo S. Sebastiano. Invero, il personaggio biblico, seppur ritratto a mezza figura, comprende elementi e finalità tipici del Bernini. Rispetto al dipinto del martire cristiano, vi si evidenzia un’accentuazione di energia palesata dal soggetto, ma il tono è modulato con la stessa repentinità, dimostrandone l’impostazione sperimentale, altresì per l’indefinita compiutezza, che però non impedisce di rilevare quanto vi sia la profonda ricerca di dar foggia, espressivamente, all’affetto. Il collegamento al David scultorio (Galleria Borghese) avviene per la conformità del tema (segue immagine) e per la quasi simultaneità delle due opere. Infatti, il “marmo” terminato nel 1624, per il cardinale Pietro Sforza Pallavicino, può far sorgere l’ipotesi che, la pittura, abbia avuto natura di studio plastico ugualmente ai fini dell’esecuzione scultoria. Il marmoreo volto -raffigurante lo stesso Bernini, come certifica il Baldinucci- riproduce una prontezza avulsa da qualsivoglia esitanza, enorme empito rafforzato dalla torsione del corpo presto a scagliare il sasso, impetuosità cui il dipinto parimenti è imbevuto.       




Nel S. Sebastiano vi campeggia la lievità della capellatura, pressoché aeriforme e contrapposta alla poderosa energia dell’incarnato fisico, completandosi nell’abbreviata rattezza del panneggio, dal retro speculare alla scompigliata capigliatura. Pieghe di un tessuto che s’indurisce e, quasi indistinto dalla retrostante superficie, sembra convertirsi in autonoma e figurativa scultura, ma, come un prodigio della dynamis -la forza- metamorfosa la staticità in una serrata dinamicità, sebbene scarna, pertanto omogenea al generale tono della pittura. Tessuto che nell’indefinitezza è mirabolante effettuazione del fine contrasto tra la figura -troneggiante al centro della tela- e il fondo, non modificando il complessivo insieme cromatico (segue immagine).


La rappresentazione è condotta in guisa sottile, mancante perciò della pletora di frecce -ne contiene solo una appena accennata- infitte nella carne e nessun fiotto sanguigno scivola sopra le membra. Il protagonista tuttavia è profondato in un’atmosfera convulsa sebbene attutita dalla campitura, dagli sfumati effetti, vicinissima alla, cupa, saturazione coloristica dei suoi capelli e della stoffa stringente i suoi fianchi. La liquida espressione del volto, intensificata dagli accigliati occhi, effonde un’aerea veemenza, un eroico ardore distante da ogni cenno ieratico; energia erompente nel culmine dell’azione piena di fervore, sicché colma di bollore, calore, indi ideogramma iconologico del Bernini che appare, con plastica esclamazione, nei suoi lavori scultorei. Frutto del suo levato ingegno, che compie la pienezza della monumentalità, verosimigliante allo svolgersi della natura, percepita quale principio vivo e operante. Da ciò il dipinto abbatte un’azione imprigionata nel disegno statico, ed esattamente col ridotto colore fruttifica la visibilità del palpito introspettivo, compiuto dall’intelletto del martire. Grandezza nei modi e negli scopi interpretati, dalla sua arte, quando maggiormente enfatizza l’origine passionale -inattesa- delle figure, asserita dall’impeto del santo, rinforzatosi, per lineamento diviso in più parti, con l’obliqua positura, infondendo allo sguardo dell’osservatore, di quello stato emozionale, una spinta spirituale. Immaterialità espressa da quella corporeità quasi nuda, librata sulla torsione fisica, regolandone intensità e timbro con ombreggiatura sulla tesa chiaroscurata pelle, secondo la cifra del Bernini abile nel mantenere, ai suoi eroici soggetti, la concreta morbidezza carnale della loro raggiante rigogliosa età, ossia la giovinezza.

Immensa qualità pittorica in un’omologia alquanto monocroma eppure così capace d’impostare impalpabili sfumature, che rendono dettagliata vita alla raffigurazione, con imprescindibile massiva sostanza monumentale, la quale proferisce impressione di volumetrica grandezza, quale integrità morale, del “campione” cristiano.   

La forma a “mezza figura” ne indica, in modo evidente, un’irrisolta compiutezza -voluta-, che, malgrado ciò, distribuisce porzione di adeguata imponenza alla scena, come se un’improvvisa incompletezza, esente dalla frammentarietà, custodisse con gagliardia la totale ampiezza emotiva. L’asciuttezza della “mano” e la scioltezza della pennellata arrivano alla dimensione e foggia, del personaggio, attraverso l’esclusiva stesura cromatica come un’addensata morbidezza in un vaporoso atto. Questo S. Sebastiano si staglia eroe evocando un moto sculturale e oratorio, risolto in verso poetico e al tempo stesso corporeo, in narrativa schiusa teatralità con traboccante sentimento, in un’energica pietas: la disposizione dell’animo ad avvertire devozione verso Dio. Opera conseguentemente penetrata da un complesso d’intenzioni, tese a favorire interiori sensazioni volte al culto, secondo il progetto religioso barberino.

In tale lavoro -come in altri berniniani- la pittura viene sostanziata dallo scultore, certificando la raziocinante ipotesi identificativa del suo autore, poiché l’unione tra plastica eroicità e raffinatezza che, dall’astratta materia, viene tramutata in carne, appartiene al Bernini, nella sua totalità anzi nella sua universalità artistica.