“Quanto largo e benigno si dimostri talora
il cielo nell’accumulare in una persona sola l’infinite ricchezze de’ suoi
tesori e tutte quelle grazie è più rari doni che in lungo spazio di tempo suol
compartire fra molti individui, chiaramente poté vedersi nel non meno eccellente
che grazioso Raffael Sanzio da Urbino … Di costui fece dono al mondo la natura
quando vinta dall’arte, per mano di Michelagnolo Buonarroti, volle in Raffaello
esser vinta dall’arte e dai costumi insieme”. Così esordisce il Vasari nel capitolo
dedicato alla “Vita di Raffaello D’Urbino Pittore et Architetto”,
compreso nelle sue “Vite de’ più eccellenti pittori, scultori et
architettori” (1550), paragonandolo come l’incarnazione di tutte le virtù,
che l’animo umano può accogliere, “quanti sarebbero bastati a ricoprire ogni
vizio quantunque brutto et ogni macchia ancor che grandissima”. Se
nell’arte la sua luce fiammeggia imperitura, se nel suo pensiero la purezza si
concreta nella beltà suprema e incorruttibile, non così altrettanto ha
registrato la sua mera vicenda umana, certamente non discosta da godimenti e
piaceri sparsi, i quali strappandolo alla vita lo avrebbero chiuso,
prematuramente, nel sepolcro (visione controversa e non risolta). Difatti,
l’autore aretino, nelle pagine conclusive della biografia del Sanzio, asserisce:”…
Raffaello, attendendo in tanto a’suoi amori così di nascosto, continuò fuor di
modo i piaceri amorosi, onde avvenne ch’una volta fra l’altre disordinò più del
solito; perché tornato a casa con una grandissima febbre, fu creduto da’ medici
che fosse riscaldato; onde, non confessando egli il disordine che aveva fatto,
per poca prudenza loro gli cavarono sangue; di maniera che indebilito si
sentiva mancare, là dove egli aveva bisogno di ristoro … Poi confesso e
contrito, finì il corso della sua vita il giorno medesimo che nacque, che fu il
venerdì santo d’anni XXXVII, l’anima del quale è da credere che come di sue
virtù ha abbellito il mondo, così abbia di sé medesima adorno il cielo”. Raffaello dunque muore il 6 aprile del 1520,
proprio cinquecento anni addietro, forse preso da febbri non sorte da “piaceri
amorosi”, probabilmente prive di efficaci cure mediche. Una moltitudine lo
piange, tra questi poeti, letterati che considerano il suo decesso come
tragedia assoluta, riguardante l’intero creato come declama l’epitaffio latino
composto, secondo diverse attribuzioni, dal Bembo o dal Tebaldeo (Antonio
Tebaldi), inscritto sul suo sepolcro nel Pantheon.” Qui giace quel Raffaello
per il quale, quand’era in vita, la grande madre delle cose temette d’esser
vinta e, mentre moriva, di morire con lui”. Lo stesso Tebaldeo, rivolgendosi al Castiglione, in
morte del Sanzio, compone questi versi: ”Castiglion mio subitamente il
nostro/ duolmi apportarvi un sì crudele affanno/ Raphael nel trigesimo terzo
anno/ abandonò questo terrestre chiostro./Se il color per voi spese, voi
l'inchiostro/ per lui spendete, chè se pur avranno/ l'opre sue fine, eterne
esser potranno, se scudo si faran del scriver vostro./Non senza segni dal vel
fral si sciolse,/ chè il gran palazzo, per sua man sì adorno/ che par non ha,
s'aperse e cader volse./Per lui fe' l'arte persa a noi ritorno,/ e il dì che
l'empia Morte al mondo el tolse/ l'ultimo fu della pittura giorno."
All’Urbinate, il mio post del 2 maggio
2019 “Raffaello
nell’estro letterario”, si è accostato argomentando di questo suo altro peculiare
afflato che, per quel poco a noi giunto, consente soltanto di scorgere; “silenziosa”
aria rispetto ai bagliori della sua cifra pittorica, alla solida capacità
architettonica ribadita dalla nomina di architetto, della Fabbrica di S.
Pietro, per volontà di Leone X, avvenuta nell’agosto 1514.
L’opera
pittorica di Raffaello Santi, noto come Raffaello Sanzio (Urbino 1483-Roma
1520), rappresenta la composizione di eletti molteplici elementi della cultura
figurativa rinascimentale. In essa pulsano, con mirabile equilibrio e chiarità,
la poesia spaziale echeggiante il linguaggio umbro-toscano, le sfumature
derivate dalla tavolozza leonardesca, il colorismo della scuola veneta e, più,
tardi, il plasticismo michelangiolesco reinterpretato. Questo
insieme di esperienze artistiche è, con celere progressione, rimodellato
sapientemente dalla sua arte, che giunge a quella sovrana espressione di
idealità spirituale e materiale, connotata dalla bellezza, quale
imprescindibile quintessenza, della più alta ispirazione dell’Umanesimo; essa è
nella sua sostanza il principio incorruttibile dell’esistenza,
spinta
emotiva e intellettuale, meditata; palese e vivace intermedio posto tra l’anima
e il corpo, e intorno a questi due spazi di eternità e di temporalità, si muove
quel sottile fuoco proprio dello spirito animante pur il mondo sensibile.
Già nei primi lavori del
Sanzio si avverte il purissimo, inconfondibile suo timbro poetico, volto alla
lezione del Perugino e del Pintoricchio, scevro però di discepolanza legata pedantescamente
alle relative forme e norme. Ne rielabora perciò le espressioni con sentita
consapevolezza, superandone esilità e cedevolezze, come in tal guisa già
appaiono dinanzi alla sua incipiente fulgida maestria. In questa si matura un
graduale consolidarsi della materia plastica, che inizia a unirsi a un’esigenza
di pacata monumentalità in una superba impostazione compositiva, come palesa lo
Sposalizio della Vergine (1504; immagine 1), dipinta per la Chiesa di S.
Francesco di Città di Castello, oggi conservato nella Pinacoteca di Brera a
Milano. Olio su tavola decisamente ispirato alla gemma dipinta, per l’appunto,
dal Perugino nella Cappella Sistina, Consegna delle chiavi a S. Pietro
(1481 - 1483, circa; immagine 2), dove la duplicità del tema viene articolata
con le figure in primo piano, del tutto separate dall’imponente struttura
architettonica nel fondo.
Immagine 1: Raffaello: Sposalizio della Vergine
Immagine 2: Perugino: Consegna delle chiavi a S. Pietro
L’influenza
di Petro Vannucci (detto il Perugino) è tuttavia trasformata attraverso una
verticale esposizione della scena, sottolineata dallo specifico “ruolo”
assegnato al grandioso tempio, che imprime la sua cupola entro la centina, profilo
curvo della tavola. Inoltre, la luce fluisce nettissima dal fondo, distribuendosi
con fuga prospettica delle lastre del piazzale fino a stendersi in un armonioso
accordo che avvolge -privo di repentini brani disomogenei- i personaggi, i
quali a loro volta sono collegati l’uno all’altro in un’agevole cadenza, che
sancisce un sicuro accantonamento di quella statica velatura pittorica peruginesca.
Solo quale inciso accenno all’azione scenica, effigiata secondo quanto descritto
dal beato domenicano, Jacopo da Varazze, nella sua opera agiografica, “Legenda Sanctorum”,
nota come “Legenda Aurea” (1255
– 1266), derivata da un’antica narrazione apocrifa, ove lo sposo della
Vergine è indicato da un segno divino: lo sbocciare di un fiore su un listello
di legno. Lavoro pittorico nel quale è marcata anche una notevole sensibilità
architettonica -ritornando al portentoso edificio dipinto- unita a una
irrefrenabile padronanza teorico-pratica e prospettica, insita nella primigenia
formazione urbinate. Oltre a ciò, per come esso si mostra, è ipotizzabile che,
Raffaello, conosca il progetto del Bramante (che probabilmente consiglierà papa
Giulio II a chiamarlo in Roma) circa il Tempietto di S. Pietro in Montorio (iniziato
intorno al 1502 e concluso tra il 1508 e il 1509) eretto sul colle romano del
Gianicolo.
Nel medesimo 1504, il
Sanzio, si recherebbe una prima volta a Firenze (si sollevano, a riguardo,
dubbi documentali), dove vi si ferma agli inizi del 1505 -nella tarda primavera
del 1507 è nuovamente ad Urbino- e della temperie fiorentina (tale periodo
terminerà attorno all’estate del 1508) risente la sua pittura in cui vi
penetra, soprattutto, il dettato di Leonardo, ma che assimila con moderatezza,
attestando come egli sia largamente distante dal soggiacere in modo acquiescente,
passivo, al potere attrattivo di tale vivido ambiente artistico. Sua dunque è
la straordinaria capacità di disciplinare il sensibile affollamento di
percezioni assimilate -che sovrasterebbero personalità meno dotate-, stimoli
sensoriali che interpreta mediante processi intuitivi, intellettivi mirabili.
Come non rammentare quindi il Ritratto d’Ignota detto la Muta (immagine
3), conservata alla Galleria Nazionale delle Marche (Urbino), sintesi
elevatissima dei modi leonardeschi, avvertibili principalmente nella stesura
piramidale dell’opera e nelle diffuse docili ombreggiature, delicatamente
lambenti il modellato, effetto volumetrico scaturito da una formidabile
disposizione di luce e ombra, acume disegnativo affermato, particolarmente,
dalle splendide accuratissime mani.
Immagine 3: Raffaello: La Muta
Si sostanzia un’immagine di perfetta regolarità, impostata su sobrie rispondenze
ritmiche, ciononostante trasmutata in un sentire di spirituale riserbo e di
segreta emozione che la sottraggono a una ferma aulica compostezza. Lo sfumato
leonardesco inciderà, nella più intensa definizione raffaellesca, la vena
mistica, la sacra soavità delle sue raffigurazioni della Vergine: Madonna
del Granduca (1505/1506, circa, Galleria Palatina di Palazzo Pitti, Firenze;
immagine 4), Madonna del Belvedere (1506, Kunsthistorisches Museum, Vienna; immagine 5), Madonna del Cardellino
(1506, Gallerie degli Uffizi, Firenze; immagine 6), Bella giardiniera (1507, Museo del Louvre, Parigi; immagine 7).
Immagine 4: Raffaello: Madonna del Granduca
Immagine 5: Raffaello: Madonna del Belvedere
Immagine 6: Raffaello: Madonna del Cardellino
Immagine 7: Raffaello: Bella giardiniera
La regalità di Maria -ritratta col Bambino- non attinge alla maestà di
preziosi troni e di trionfanti baldacchini, motivandosi nella pura perfezione
dei lineamenti, dalla sporgente soavità del volto, nella luminosissima
immutabilità degli incarnati, che dalla loro interiore luce superano le
impenetrabili penombre leonardesche incise sul fondo. Tenera e assorta meditativa
intimità di tali figurazioni, le quali derivano tutte da un medesimo modello
(Madonna del Granduca), trasferito poi “all’aperto”, aggiungendovi
S. Giovannino -il futuro Battista- in un’ambientazione di gradevolissimo e
limpido soleggiato paesaggio. L’artista sapientemente vi dispiega, entro una
solida distribuzione di elementi -lo schema piramidale ascendente a Leonardo-, dinamici
orientamenti, che diverranno sempre più complessi al toccare la maniera di
Michelangelo. Un mediato influsso del
Buonarroti sul Sanzio è magnificato dal Trasporto di Cristo (detto anche
Deposizione, 1507, Galleria Borghese, Roma; immagine 8), dove sono realizzati due diverse
scene, tra loro unite con sottili accorgimenti, vale a dire la vicina entrata
nel sepolcro del corpo, esanime, di Cristo e lo straziante svenimento della
Vergine.
Immagine 8: Raffaello: Trasporto di Cristo, detto anche Deposizione
Tavola
dal timbro di elegiaca monumentalità, apparentemente sfiorata da
intellettualistico senso, rivela un’elaborazione di specifica importanza,
poiché la disposizione -dei due gruppi- inerente ai numerosi personaggi
rappresentati nello spazio, prelude alle grandi soluzioni compositive degli
affreschi vaticani.
Raffaello si trasferisce nella “Città Eterna” tra l’estate e l’autunno
del 1508, per volontà (come detto su probabile consiglio del Bramante) di
Giulio II (Giuliano della Rovere, 1503-1513) –Giuliano della Rovere-, per
decorare, inizialmente insieme con altri pittori, tra i quali il Sodoma, a
fresco le nuove Stanze vaticane, cominciando da quella della “Signatura”
(1508-1511). Tale ambiente è così appellato dal nome del più importante
tribunale pontificio –che vi si riunirà dalla metà Cinquecento, circa-, quello
della “Signatura Gratiae et Iustitiae”, governato dal pontefice, ma in
precedenza progettata quale studio privato e biblioteca personale di papa della
Rovere; questo particolare vano sarà utilizzato dal successore, Leone X
(Giovanni de’ Medici, 1513-1521), altresì quale “stanza della musica”. Spazio colmo
di intensa storicità, di aulici rimandi, di positivi raffronti con la
consapevole attualità di quel sentire cinquecentesco, eloquente immagine di
un’imponenza che disegna una società ideale, sovrana nella perfezione che le
aspirazioni rinascimentali vogliono realizzare. Vi si staglia dunque anche il
raffinatissimo gioco ritmico del Parnaso (immagine 9), pittorico rimando al montuoso luogo sacro ad Apollo, il
dio -tra le altre sue attribuzioni- della musica, della sapienza filosofica e
del culmine creativo, che trova piena realizzazione nell’arte e nel canto
poetico, suscitante nell’uomo la sublime emozione del bello, di cui la capacità
creativa dell’artista, quale artefice, ne sancisce -come l’etimo latino del
verbo indica “rendere sacro, inviolabile”- la forma.
Immagine 9: Raffaello: Parnaso
Il
Parnaso, dimora delle Muse (una delle “residenze” ad esse consacrate), creature
armoniose, strettamente congiunte a questa divinità; con
le loro conoscenze degli elementi tecnici e delle imprescindibili abilità, concretano
l’arte nelle sue differenti espressioni, delle quali il nume ne è il supremo
vertice. Cima rocciosa icona della poesia; da un suo fianco sgorga
la fonte Castalia dalla tersa pura acqua -dove le Muse si bagnano-, consacrata
al dio, alla quale in epoca romana gli si ascrive il potere d’ispirare i versi
poetici, come afferma Ovidio nella raccolta poetica degli Amores.
Del dipinto il Vasari scrive:” In un altro tondo volto verso la finestra che
guarda in Belvedere, è pinta Poesia, la quale è in persona di Polinnia (invero
raffigura Saffo, che l’autore nell’esaltarla appella Poesia e perciò
Musa) coronata di lauro e tiene un suono antico in una mano et un libro (cartiglio)
nell’altra e sopra poste le gambe; e con aria e bellezza di viso immortale
sta elevata con gl’occhi al cielo … e da questa banda (parte) vi fé poi,
sopra la già detta finestra, il monte Parnaso”. Sulla cima del monte stanno
le Muse, abbigliate di fluttuanti serici veli, raccolte intorno ad Apollo -cui
accanto sgorga la Castalia-, suonante la viella, antenata della viola, frattanto
sommi poeti formano una sorta di corteo sui fianchi del rilievo (metafora
ascensionale), cui tra gli altri si colgono a sinistra, per l’appunto Saffo con
il cartiglio, Petrarca, Dante, Omero (il personaggio cieco), Virgilio, Stazio e
a destra Tebaldeo, Boccaccio, Ariosto, Properzio, Ovidio, Orazio..
Il fulgore dell’arte
figurativa, dell’Urbinate, connota presto i suoi primi lavori vaticani, tanto
da convincere lo stesso Giulio II ad affidargli la realizzazione dell’intera
impresa degli affreschi. S’irradiano così in quei luoghi un infinito respiro
che effigia un soprannaturale sentire, tra argentee luminosità, frementi
magnifiche passioni, fulgenti insolite reinterpretazioni di una visione
imbevuta di “pensiero classico” e di “antico” reso con nuovo magistrale verso;
elementi serrati tutti con equilibrata e monumentale unità nel disegno dello
spazio diversificato e dunque libero. La formidabile naturalezza delle figure è
svolta con fluente e mossa grandiosità sculturale (studio della figura di Adamo
per la Disputa del Sacramento della “Signatura”, Galleria degli
Uffizi, Firenze; immagine 10), imponente animata perfezione che concreta
quell’idealità, concepiti dal Rinascimento, sostanziata, come già osservato, “nell’idea”
di società ideale.
Immagine 10: Raffaello: studio della figura di Adamo
Nulla però soggiace a edulcorati schemi, a imbolsiti stilemi, anzi una virulenta drammaticità appare nella stanza di Eliodoro (la seconda decorata da Raffaello tra la metà del 1511 e il 1514; ambiente voluto per le udienze private del pontefice). Raffaello vi avvia una sfida a “tutto tondo” con le cifre figurative contemporanee, dimostrando di possedere padronanza di “quell’eroismo anatomico” sostanziato da Michelangelo. Persistono tuttavia differenze tra le figure ritratte dal Buonarroti, poderose e modellate caratterizzandone l’intima profonda gagliardia, mentre quelle raffaellesche definiscono armonia, liricità, morbidezza, limpida configurazione delle forme, acutezza di sguardi. Le immagini s‘impregnano di grandiosità trionfale, commosse contemplazioni; le loro floride membra sono teneramente avvolte e celebrate da un cromatismo radiante.Raffaello è autore che realizza la piena compenetrazione delle due fondamentali entità, Classicismo e Cristianesimo, così vitali nella sua grandezza immarcescibile. V’impera un’aria rotta da impenetrabili bagliori e sfingei riverberi, grigie architetture su cui avvampano raggi aurati, vesti agitate da un ardente sentimento policromatico, sontuosi splendori dispiegati di sotto a un cielo sicuramente azzurro ma annunciante la notte, repentini effetti luminosi e preziosi paramenti, freschezze primaverili e rossi squillanti; un’aura di maestosità rivelata da incandescenti sfumati contorni, da strepitosi effetti di controluce fuoriuscenti da cupi schermi. Quale esemplificazione di tutto ciò, lo sguardo sosta su la Messa di Bolsena (immagine 11), che dipinge un episodio accaduto nel 1263, narrato da alcune cronache, secondo cui dall’ostia consacrata fuoriuscirono gocce del sangue di Cristo.
Affresco
pregno di sontuoso splendore; alta personale assimilazione del colorismo veneto,
contrappunto combinato dal biancheggiare -in alto- degli ornati tessuti
dell’altare e dalla fiorita vivacità -in basso- cromatica delle donne e dei
vermigli abiti incisi nel seguito del Pontefice, caratterizzato oltre che dalle
“porpore cardinalizie” altresì dalle integre colorate pezzature, della divisa,
di coloro che appaiono Guardie Svizzere (accolti proprio da Giulio II il 22
gennaio 1506) di scorta al papa, con funzione di sediari (addetti
al trasporto del pontefice in sedia gestatoria). Complementari tonalità
cromatiche anche di vesti liturgiche, troneggianti sulla parte superiore
dell’affresco, dove Giulio II assiste al miracolo su un prezioso
inginocchiatoio dinanzi all'altare. In aggiunta a ciò, l’affresco contiene un’incisiva
fuga prospettica nel rimando architettonico antico, ispirato a sezioni del calidarium
(ambiente riscaldato per bagni in acqua calda e per bagni di vapore) delle Terme
di Diocleziano. Nel 1512 Giovan Francesco Grossi,
ambasciatore in Roma della corte di Mantova, scrive a Isabella d’Este che: “il
papa ... anchor in Palazo fa depinzer due camere (le stanze della Segnatura
e di Eliodoro) a un Rafaello de Urbino, che ha gran fama di bon pictore in Roma,
qual son beletissime”.
In tal modo l’opera
raffaellesca assurge -come innalzano le inebrianti pareti delle “Stanze”-
altresì a sfida con le, coeve, differenti espressioni della pittura, poiché
alla “eroicità” delle figure, come già detto, vi fissa una mirabile agilità
compositiva, come se una florida inquietudine sperimentale lo inciti,
guidandolo a sconvolgere quasi ininterrottamente
il suo processo inventivo, per cimentarsi in nuove estensioni artistiche e da
lì in sorprendenti linguaggi figurativi, un’osmosi di sapienti
dotte reminiscenze, di evocazioni irrequiete dispiegate con drammatica audacia in
un’eterogenea organizzazione architettonica apparendo questo suo fare una “tenzone”,
volta a privare qualsiasi “staticità intellettuale” al, magnificente, portato
della sua arte. Tale fervente turbinio è ancor più evidenziato nell’affresco Incendio di Borgo (immagine 12), che titola la
stanza -utilizzata da Leone X come sala da pranzo- la terza dipinta da
Raffaello (1514, circa-1517). Vale quale esempio lo
studio per il gruppo di Enea e Anchise (Collezione Grafica del Museo Albertina,
Vienna; immagine 13); il disegno, benché composto in robuste linee,
espone ogni particolare del giovane corpo di Enea e di quello enormemente
appassito di Anchise. Mirabile si appalesa la sovrapposizione delle braccia e
delle gambe. Che questo sia l’originale modello raffaellesco, ne sorgono pochi
dubbi, sollecitati da qualche ipotesi connesse all’attribuzione a Giulio Romano
anche della parte sinistra dell’affresco, ove è rappresentato il gruppo con il figlio
giovinetto dell’eroe troiano (immagine 14). In tutto questo luogo l'apporto diretto ascrivibile a Raffaello è minimo, però i disegni sono interamente di sua mano e ugualmente
suo è il dettarne l’andatura plastica e cromatica.
Immagine 12: Raffaello: Incendio di Borgo
Immagine 13: Raffaello: studio per il gruppo di Enea e Anchise
Immagine 14: Raffaello: Enea, Anchise ed Ascanio (particolare dall' Incendio di Borgo)
Da
questa straordinaria “ansia” sorge ciò che Roberto Longhi, il celebre storico
dell’arte, definisce circa tale stanza, quale atto pittorico declamatorio che
ritorna come poesia. Nella raccolta di suoi saggi, Opere Complete (1956),
definisce la cifra raffaellesca:” emulsione meditatissima, dapprima tra le
varie parlate italiane, poi tra latinità e italianità, tra storia e natura, che
pare talvolta ai semplici un facile accomodamento ed è invece un apice di gusto
e di genio”. Difatti -i suoi disegni in gran parte eseguiti poi in pittura da
collaboratori e allievi-, egli realizza con enfatico slancio un peculiare
gergo, pregno di struggente tragicità. Nuova e appassionata meditazione
rivelata con linguaggio d'inesorabile spontanea purezza, capace di rivelare con
evidenza immediata fisionomie, espressioni, caratteri, atteggiamenti, tratti architettonici,
elementi naturali nel battito improvviso di raggi lucenti.
Se l’audace carattere della rappresentazione scenica, dell’affresco de “L’Incendio di Borgo”,
appare soltanto esprimere vigorosa drammaticità, al centro del dipinto lo
squarcio svela in lontananza la minuta, però determinante, figura del pontefice,
Leone IV, di ieratica imperturbabilità posata sulle grida del popolo
-inginocchiato sotto la loggia- che fra un attimo acquieterà spegnendo,
miracolosamente, il devastante rogo (immagine 15).
Immagine 15: Raffaello: particolare dall' Incendio di Borgo)
In quella sorta di incavatura centrale corrono gesti agitatissimi,
frastuono di urla, di tese braccia, di roventi macerie avvolte da fiamme; vi si
ammatassa lo sgomento e un simultaneo esagitato adoperarsi, per domare quelle mortifere
infiammate lingue: questo multiforme insieme spinge dunque l'occhio, dell’osservatore,
sulla piccolissima figura del papa, divenendo essa l’epicentro della
raffigurazione, facendosi magistrale insegnamento plastico, cui coesistono,
armoniosamente, due opposti lidi (patimento e serenità) ognuno con i tratti
propri. Monumentalità che esige il distacco da ogni eccessiva costruzione
plastica, per eleggersi lucente corpo di purissimi versi poetici, combinazione
di sontuoso splendore tra misteriosi drammatici riflessi e alveoli sonori: la
lezione di Raffaello. Questa viene resa manifesta, in altra visuale, nel
secondo affresco realizzato nella “Stanza“: La Battaglia di Ostia (immagine
16).
Immagine 16: Raffaello: Battaglia di Ostia
Soggetto di violenta tragicità esposta nella fremente sanguinosa contesa
-segnata dai gesti sia dei vincitori sia dei vinti- travolta dal furore e dall’atmosfera
fuoriuscenti dall’avvenimento ritratto; forza drammatica altresì presso il
composto corteo papale, a sinistra disteso, risaltato dalle dorate vesti del
pontefice Leone IV (coi lineamenti di Leone X), assiso su un candido marmoreo
scranno, su cui si accendono morbidi raggi spirituali, dorate vampe quali
contrappunto emesso tra l’incandescente alone cruento, che non si stempera né
rimane discosto, al contrario è sottomesso al seggio papale (i vinti
prigionieri) e nel contempo la battaglia navale, posta nel fondo, continua la
furente contrapposizione degli schieramenti. Impressione di grandezza avvolta
da effetti di graduata luce, filtrata mantenendo comunque una limpida configurazione
anche nella colma fisicità dei personaggi. Corporeità piena riferita pure, come esempio, dallo studio dei due
personaggi (immagine 17), rappresentati privi di abiti, al fine di ponderarne i
volumi anatomici; saranno "collocati" e abbigliati poi all'estremità sinistra dell’affresco
intorno al papa (immagine 18).
Immagine 17: Raffaello: studio per la Battaglia di Ostia
Immagine 18: Raffaello: particolare dalla Battaglia di Ostia
Disegno
conservato presso la Collezione Grafica del Museo Albertina di Vienna, è donato
da Raffaello ad Albrecht Durer (che vi appone una chiosa), l’acuto protagonista
tedesco dell'arte mossa nel Nord Europa, soggiornante in Italia soprattutto a
Venezia (1494-1495; 1505-1506) e, brevemente (1506), a Ferrara e a Bologna.
Immancabilmente il Vasari ci dà notizia di questo dono:” “Avvenne in questo
tempo che la fama di questo mirabile artefice (Raffaello) fino in
Fiandra et in Francia era passata; per che Alberto Durero tedesco, pittore
mirabilissimo et intagliatore di rame di bellissime stampe, divenne tributario
de le sue opere a Rafaello, et e' gli mandò la testa d'un suo ritratto condotta
da lui a guazzo su una tela di bisso, che da ogni banda mostrava parimente e
senza biacca i lumi trasparenti, se non con acquerelli di colori era tinta e
macchiata, e de' lumi del panno aveva campato i chiari: la quale cosa parve
maravigliosa a Raffaello; per che egli gli mandò molte carte disegnate di man
sua, le quali furono carissime ad Alberto”.
Artista
circondato da eclatante ammirazione, è dunque oberato da impegni e incarichi,
tali da non poter attendere personalmente all’esecuzione di tutte le copiose
opere commissionategli, come dimostra, per l’appunto, l’ornamentazione
dell’ambiente de “L’Incendio di Borgo”, in cui soltanto il lavoro che ne
dona il nome viene eseguito, in parte, dal Sanzio. Della successiva, Sala di
Costantino, destinata a solenni svolgimenti cerimoniali e a ricevimenti
diplomatici, Raffaello ne prepara soltanto i relativi cartoni (1518-1519),
venendo adempiuta l’effettiva decorazione, da suoi collaboratori,
successivamente al suo decesso.
L’immensa popolarità che lo corona, il traboccante seguito che lo idoleggia sono confermati, ad esempio, nel settembre del 1513, allorquando il suo Ritratto di Giulio II (1511, circa; conservato nella National Gallery di Londra; immagine 19), viene esposto “su l’altar” della basilica di S. Maria del Popolo e come annota, tra altri, lo storico veneziano (e politico) Marino Sanuto (o Sanudo)il Giovane, in uno dei suoi Diari (l’immensa raccolta composta di cinquantotto volumi): “tutta Roma core a vederlo; par uno jubileo, tanta zente vi va”.
L’immensa popolarità che lo corona, il traboccante seguito che lo idoleggia sono confermati, ad esempio, nel settembre del 1513, allorquando il suo Ritratto di Giulio II (1511, circa; conservato nella National Gallery di Londra; immagine 19), viene esposto “su l’altar” della basilica di S. Maria del Popolo e come annota, tra altri, lo storico veneziano (e politico) Marino Sanuto (o Sanudo)il Giovane, in uno dei suoi Diari (l’immensa raccolta composta di cinquantotto volumi): “tutta Roma core a vederlo; par uno jubileo, tanta zente vi va”.
Immagine 19: Raffaello: Ritratto di Giulio II
Come
nel caso della Muta, la postura delle mani incide forte efficacia al
dipinto, che contrassegna l’intima unione con lo sguardo del personaggio, preso
da un’introspezione che lo avvolge, distaccandolo da rigide pose cerimoniali,
ponendolo in tutta la sua umana profonda apprensione, tale da avvicinarlo allo
spettatore, soprattutto per quella posa in diagonale che lo disegna, a mezzo
busto, seduto e perciò facilmente “accostabile”, “raggiungibile” dal mondo
esterno. Il clamore destato, da questo quadro, deriva proprio dall’eccezionalità
che elide qualsiasi separazione, pur psicologica, con la parte interiore più
segreta del personaggio, così assoluto nella sua solenne veste di pontefice.
D’ora in avanti tale opera, di notevole naturalezza e consistenza storica, impianterà
uno schema molto frequentato nel dipingere i pontefici.
Intorno
al 1516, nella ripresa del Cortegiano (pubblicato nel 1528), Baldassarre
Castiglione include Raffaello -cui l’amicizia lo accosta alla cerchia dei
pittori, conoscendovi altresì Michelangelo- insieme a Leonardo, Mantegna,
Michelangelo e Giorgione, nel repertorio di coloro che “nella pittura sono
excellentissimi”. La morte improvvisa rende ancor più viva la sensazione
della unicità del suo carattere e della prodigiosità del suo estro. Invero, Paolo
Giovio, storico e critico sottile delle arti e delle lettere (pur medico e
vescovo), aprendo la Raphaelis Urbinatis vita, la prima biografia
dedicata all’artista (1525-1526, circa) pone l’accento sulla “maravigliosa
amabilità et alacrità d’un talento ductile”. Da sottolineare che il Giovio
incoraggerà il Vasari (1540, circa) alla stesura delle “Vite”,
sostenendolo durante tutta la loro composizione.
Nelle
ultime opere di Raffaello si coglierà ancor più possente l’anelito di
raggiungere e conservare, intatta, quella sponda di emulazione creata dai
risultati -reputati irraggiungibili nella maggioranza delle opinioni- ottenuti
dagli antichi maestri. Dimostrano tale suo periodo, la Loggia di Psiche della
Villa Farnesina (ornamentazione conclusa nel 1518), le Logge Vaticane (compresa
quella
nominata “Loggetta del cardinale Bibbiena”) -i tre ambienti
disposti su corrispondenti piani del Palazzo Apostolico in Vaticano. Queste
ultime già progettate dal Bramante che edifica fino, come si ipotizza, alla
copertura della prima, sono concluse da Raffaello, che ottiene l’incarico nella
primavera del 1513, progettando altresì la terza. Successivamente ne esegue
-soprattutto con l’opera della sua bottega su suoi disegni- l’insieme
decorativo (affreschi, grottesche, stucchi). Nel 1519, anno successivo al
termine dei lavori edificatori -invece l’ornamentazione proseguirà altresì dopo
la sua morte- il Castiglione, in una lettera a Isabella d’Este, la informa circa
la conclusione del lavoro pittorico di una loggia (quella sita al secondo
livello, avendo attiguo l'appartamento papale): “Et hor si è fornita una
loggia dipinta, e lavorata de stucchi, alla anticha, opera di Raphaello, bella
al possibile, e forsi più che cosa che si vegga hoggidì de’ moderni”.
Queste opere pertanto rivelano alla magnifica committenza, ai letterati, agli
umanisti in Roma, gli straordinari esiti ottenuti da un artista contemporaneo,
ammiratissimo quale novello Apelle con il suo ridar vita reale al linguaggio
figurativo classico, cogliendone i remoti segreti. Eletto tra i principali
artisti del suo tempo, questo pittore greco del IV sec. a. C. non ci ha
tramandato nulla delle sue opere, ma le copiose notizie biografiche, i fatti
aneddotici, le testimonianze antiche ne permettono la conoscenza di molte
distintive particolarità della sua tecnica e di quanto sia stato eminente il
suo amore per la precisione, declamata da lavori in cui le membra sembrano
elevarsi, dagli spazi geometrici, in mirabili effetti su piani obliqui e tra
plurimi brani coloristici.
Raffaello
celebrato
giustappunto quale nuovo Apelle, dal poeta e storico Girolamo Borgia (talvolta
indicato quale figlio di Cesare Borgia) nel brevissimo componimento, ugualmente
in latino, a forma di epigramma, “Ad Raphaelem Urbinatem pictorem
nobilissimum” (1516), cui nella prima parte è scritto :”Pittore
Raffaello moderno celebrato creatore, di ciò che in ogni tempo trionfa, su ciò
che oscura la mappa di questo mondo ristretto, giova all’esistenza nutrirsi di
quella poesia, cantata dalla tua pittura, che ti elegge famoso artista. Immersa
nella sua pura natura, l’arte del dipingere davvero fiorisce come compagna
dell’opera poetica, dunque la pittura ha parola proprio in sé, vivendo come
poesia. Tu signore della forza genitrice dell’arte, realmente sei un altro
Apelle”. Ugualmente lo paragonerà, all’antico pittore greco, il poeta Francesco
Sperulo in una breve silloge di versi latini (1519). In un passo del Diarium
dell’erudito vescovo Paride Grassis (o de’ Grassis), scritto parimenti in
latino, è annotata l’impressione che suscitano nella Cappella Sistina, sia gli
arazzi -episodî tratti dagli Atti degli Apostoli- di Raffaello, esposti (sette
su dieci) il 26 dicembre 1519, sia la
volta affrescata da Michelangelo: “Da tutto l’insieme della Cappella lo
sguardo sbalordisce, per la sfolgorante bellezza, non consumandosi ma
celebrando un universale giudizio di una gloriosa realtà, vivente dentro il
globo terrestre”; il giorno successivo a tale evento, il colto veneziano
Marcantonio Michiel asserisce “giudicati (gli arazzi) la più bella
cosa che sia stata fatta in eo genere a’ nostri giorni”. Di queste tessute opere
decorative (custodite in Vaticano) i cartoni preparatori raffaelleschi
(1515-1516, circa), a noi giunti, sono conservati al londinese Victoria and
Albert Museum. Quale esempio di nitidissima scansione spaziale, di complessità
compositiva architettonica e di nuova naturalezza di colori e di ritmi, di legame
voluto sul rapporto monumentale tra personaggi e ambiente architettonico, di
complessi spazi ideati con imponenti architetture, cito la Predica di S.
Paolo (immagine 20 il cartone; immagine 21 l’arazzo), soggetto nel quale è
distintamente menzionato il Tempietto bramantesco.
Immagine 20: Raffaello: cartone per l'arazzo Predica di S.Paolo
Immagine 21: da Raffaello: arazzo Predica di S.Paolo
Donato Bramante nato nel 1444 con buona probabilità a
Fermignano, nel ducato di Urbino -dunque “compatriota” dell’Urbinate-, è sovrintendente
generale di tutte le costruzioni papali; egli “disserra”, secondo l’autore
delle “Vite”, a Raffaello il portale della cappella Sistina, cui il
poderoso lavoro michelangiolesco è appena compiuto (ottobre 1512), destandone
un penetrante effetto, un incontenibile sentire. Il Buonarroti a sua volta,
come riportato nell’episodio descritto, alla vista dell’affresco dell’Isaia
in S. Agostino, esterna il timore per la sublime capacità pittorica del suo
formidabile “collega”, che dipinge addirittura con la sua stessa “maniera”. Su tale “passaggio” ritornerò in seguito.
Bramante viene considerato
dal Sanzio artefice dell’autentica architettura; a lui inizialmente si ispira nell’edificare
la magnifica cappella Chigi in S. Maria del Popolo (1511-1516, circa) – avvalendosi del mosaicista veneziano
Luigi da Pace-, commissionatagli dal banchiere Agostino Chigi, che ne vuole mausoleo per sé e la sua famiglia. Piccolo
edificio a pianta centrale, (Disegno, Gallerie degli Uffizi, Firenze; immagine 22) è preceduto da un decoratissimo arco aperto
sulla navata laterale di sinistra.
Immagine 22: Raffaello: disegno per progetto Cappella Chigi, S. Maria del Popolo, Roma
La
sua struttura, con i quattro piloni smussati includenti nicchie, sorreggenti la
cupola semisferica su tamburo cadenzato da luci attraverso il raccordo dei
pennacchi, riecheggia l’impostazione bramantesca progettata per la Basilica di
S. Pietro. I plurimi richiami “all’Antico” e soprattutto la qualità e varietà
delle sezioni marmoree utilizzate, per l’intera rivestitura delle pareti e per la
sequenza e “l’atmosfera” scagionata dai monumenti funebri, sospingono questo
spazio ad emulare il Pantheon, suo modello così conosciuto e suntuoso. Appare
in tal modo un’architettura che da emulatrice si evolve in espressione
ereditata dall’Antico, con il quale intende rivaleggiare in invenzione e
spazialità, in ornamentazione materica e grado esecutivo, in virtù dell’ingente
ricchezza e acume del committente. Inoltre, Raffaello riprende un particolare
“idioma” della classicità, vale a dire il recupero del mosaico, ornamento
principale anche delle chiese in epoca tardoantica.
Un
altro brano, dell’esperienza pittorica di Raffaello, esige il soffermarsi: la
cappella Chigi nella chiesa di S. Maria della Pace.
Agostino
Chigi si affida di nuovo al genio dell’Urbinate, per magnificare il suo peso
economico-intellettuale e “politico” in Roma. Aperta sulla navata destra, con
buona probabilità è oggetto di un intervento architettonico del Sanzio (1513,
circa), che ne dipinge (1514-1515) il registro inferiore della parete esterna -Sibille
e Angeli-, che giganteggia sull’arco di oltre sei metri di
larghezza, assegnando i suoi disegni, inerenti alla sezione superiore, nelle
due semilunette - Profeti e Angeli-,
al lavoro pittorico della sua bottega, di cui è già stata attribuita la mano
del suo concittadino Timoteo Viti (o Della Vite), ma se ne avanzano perplessità.
L’ambiente rimarrà incompiuto per la concomitante morte sia di Raffaello (6
aprile 1520), sia del Chigi (10 aprile 1520); sarà completato per mano di
Pietro da Cortona (con lavori del Fancelli, del Ferrata e
del Raggi) intorno al 1657, durante i lavori di rifacimento del prospetto della
Chiesa iniziati l’anno precedente.
Il
Sanzio armonizza, quello spazio chiesastico, con marcata serenità effusa in
pacatezza combinata a pienezza e articolazione compositiva, evolvendo la
struttura dell’affresco delle Virtù
Cardinali e Teologali e la Legge incorniciato
nella Stanza della Segnatura (particolari:
le Virtù, immagine 23; la Giustizia, altra Virtù Cardinale,
affresco a finto mosaico dorato è in un tondo della volta, immagine 24).
Immagine 23: Raffaello: particolare, Virtù Cardinali e Teologali
Immagine 24: Raffaello: particolare, la Giustizia
I
soggetti dipinti, in S. Maria della Pace, sono uniti nel loro annunciare il
mistero divino messianico e salvifico di Cristo, che nella Resurrezione ne
sancisce il culmine, l’evento sacro di cui l’originario progetto ne prevede
esplicito argomento della pala d’altare (soggetto non concretato per i luttuosi
accadimenti).
Personificazioni
divinatorie sottratte all’antichità, le Sibille, che dall’arcaico periodo greco
raggiungono le ardite profondità cristiane. Intorno ad esse risuonano i nomi,
tra gli altri, di Eraclito, Platone, Aristotele, Varrone, Lattanzio (Divinae
Institutiones, IV sec.), Gregorio (detto maestro Gregorio; De
Mirabilibus Urbis Romae, fine XII sec. e inizi XIII sec.), Iacopo da
Varazze, Filippo Barbieri (detto anche Philippus Siculus; Discordantiae
Sanctorum Doctorum Hieronymi et Augustini, 1481).
La
Sibilla manifesta gli oracoli, pur non essendo interrogata, quando è ispirata, dacché
“l’illuminazione” viene considerata “possessione divina” e per tale
manifestazione soprannaturale la veggente si lega allo stato verginale. Tramutata
in figura mitologica, essa rappresenta la prescelta mediatrice tra la divinità
e l’uomo. Questa ragione traduce, nell’ambito della cristianità, il rappresentare
-autonomamente o assieme ai profeti- le Sibille, per le insite capacità
divinatorie, interpretandole - in narrazioni, leggende, tradizioni, metafore,
aspetti gnostici, versi artistici- in un ampio periodo storico, come
proclamatrici profetiche dell’avvento di Cristo, attraverso la Vergine, nel
mondo pagano.
L'affresco
sovrasta l'arco innalzato nel muro, che intona la cappella (immagine 25). Arrestandosi
a guardare il lavoro raffaellesco, il corteo di Sibille e angeli (immagine
26) -differenti sono alcune individuazioni delle veggenti dipinte-, sulla
sinistra è aperto, secondo il mio parere, dalla Sibilla Cimmeria, per l’originario
motivo messianico di tutto l’impianto: Cristo vincitore sulla morte. Infatti, questa
mitologica veggente -talvolta associata o confusa con la Cumana- dimora
nei pressi del lago d’Averno, accesso, nell’antichità, all’Ade, il regno dei
morti. Appare, a sostegno di tale mia ipotesi, la sua mano sollevata verso l’angelo
in volo, cui il cartiglio in greco -come le altre inscrizioni eccetto una-
esclama: "Resurrezione dai morti", mentre un cherubino, con
gli occhi fissati su quella striscia cartacea, appoggia un gomito su una tavola
indicante "Verrà alla luce". Segue la Sibilla Persica,
scrivente su un’altra tavola -retta da un angelo con l’indice indicante il
cielo- la frase: "Egli governerà il destino della morte". Sulla
parte destra, della semilunetta, un angelo addita alla Sibilla Tiburtina
-figura così da me interpretata- la scrittura posta su una tavola: "Il
cielo circonda il vaso della terra", allusione sia al passo contenuto
nel libro del profeta Geremia: “Dice l’Eterno: ecco, quel che l'argilla è in
mano al vasaio, voi lo siete in mano mia” (cap. 18, vers.6), sia al brano
compreso nella Seconda epistola ai Corinzi di S. Paolo:” Ma noi abbiamo
questo tesoro in vasi di terra, affinché questa grande potenza sia attribuita a
Dio e non a noi” (cap.4, vers.7). Un cherubino, assorto
e addossato a una stele, è frapposto tra questa Sibilla e la successiva;
sulla marmorea lastra si legge una scritta (l’unica in latino): "Adesso
si rinnova la stirpe umana". Chiude questa profetica e celestiale
teoria, la Sibilla Cumana -l’immagine (27) avvizzita differentemente rispetto a quella michelangiolesca della Cappella Sistina (immagine 28) - sulla
quale si libra un angelo -con il viso rivolto alla stele- che svolge un
cartiglio recante lo scritto: "Io aprirò (il sepolcro) resuscitando".
Immagine 25: Cappella Chigi, S. Maria della Pace, Roma
Immagine 26: Raffaello: Sibille e angeli
Immagine 27: Raffaello: Sibilla Cumana, particolare dalle Sibille e angeli
Immagine 28: Michelangelo: Sibilla Cumana
Raffaello pertanto cita Michelangelo in una volumetrica scena, che compone questo
lavoro quando attende alla realizzazione della terza Stanza vaticana. L’Isaia
-che più avanti vedremo- in S. Agostino già è stato dipinto e altresì nel nuovo
lavoro “eternato” nella cappella Chigi sembra, come si vorrebbe, che il Sanzio omaggi
il linguaggio del “Buonarroti sistino”, parafrasandone ancora un personaggio. Dell’eccelso
artista toscano però non emerge l’esuberante snodarsi delle linee, l’attorcigliarsi
delle masse plastiche, definite in consistenti mossi blocchi di scultoria
saldezza e di flessuosa possanza. Inesauribile messe di sorprendenti invenzioni
plastiche elette da Michelangelo, che afferrano l’animo per l’impeto e la
profondità di azioni drammatiche, assurgendo a squilli di universale stato
psicologico di ciascun personaggio. In questa esecuzione, Raffaello, enuncia
con mirabile capacità plastica una salda volumetria delle figure, certamente
echeggianti quelle michelangiolesche, però l’articolatissima composizione,
sebbene evidenzi torciture di corpi e molteplicità di pose, magnifica i propri nitidi
volumi con andamento curvilineo, acutamente evolvendo la sua immaginifica cifra
già impressa sui grandiosi lavori vaticani. Privo di qualsivoglia canone,
l’affresco si articola con metrica poetica, come se un’empirea voce emettesse
puri suoni distinti, congiungendoli in armoniose movenze e in profondità di
sguardi effluiti da anime. Per tali luci artistiche si rende percorribile la
congettura, da me formulata, che traduce l’inserimento della vizza Sibilla
Cumana come voluta ulteriore dimostrazione -successiva ad esempio all’Isaia-,
dell’Urbinate, circa l’abilità di foggiare elementi, presi dal “divo”
Buonarroti, per piegarli al suo superlativo contesto figurativo e cromatico.
Il
vibrante assetto straordinariamente culturale delle opere raffaellesche,
costituisce formulazione fondante derivata sia da una colta committenza, sia
dalla frequentazione di “dotti circoli” -dove probabilmente nascono molte delle
sue ideazioni-, ribollenti in quella Roma classica e cattolica, umanisticamente
gloriata e trionfante con nuova latinità. che dall'Italia si
propaga nei territori europei. Erudizione accordata da originalità di pensiero
e finezza di gusto, nuova lettura dei testi antichi, ricerca che diffonde testi
filologicamente analizzati e storicamente sistemati. Antichi
miti, potenti tuoni, idilliache atmosfere, muliebri sublimi bellezze, inaudite
composizioni, cangiabili versi poetici e sorprendenti testi letterari,
avvolgenti onde filosofiche e argute sponde gnostiche in voci infinitamente
variabili, tali da attraversare -ora fondendosi, ora distaccandosi sino a fronteggiarsi
in forme di supreme beltà- posteriori stagioni. Studio che abbraccia
l’imitazione, da dove si levano inedite forme artistiche. Incontri di eruditi e
letterati, collezioni statuarie antiche e preziose biblioteche, fervori
archeologici, un interrotto agitarsi per conquistare o consolidare autorità
politica oppure fama culturale per appartenere, indissolubilmente, alle classi
più agiate e perciò a quella abbacinante mondanità dinamica e propositiva.
Nomi scritti su pagine
aperte ad ogni epoca erudita, quanto ad esempio testimoniano quelli di: Bernardo
Dovizi, detto il Bibbiena, letterato e diplomatico, in seguito cardinale; Pietro
Bembo, umanista e poeta, anch’egli poi assurto alla porpora cardinalizia e
stretto amico del Bibiena; Baldassarre Castiglione, diplomatico e letterato,
molto vicino a Raffaello, grazie al quale, come già annotato, tramite “ambienti
di pittori” conosce Michelangelo; Angelo Colocci umanista, che nella sua
sfavillante dimora patrizia, Horti Colocciani, riunisce numerosi
letterati -tra cui quelli sinora menzionati- presenti in Roma, erigendosi a inventivo
crogiolo di idee, spandendosi fertile spazio ove fioriscono scambi intellettuali.
Ricerca inarrestabile che esige far vivere, con evidente freschezza, un atavico
sapere, tentando -il più delle volte riuscendoci- di non declinare in stantia esibizione
nozionistica e di mera abilità. Ritorniamo a questo proposito, quale esempio,
nella Stanza della Signatura vaticana (1508–1511), dinanzi alla complessa e
rimarchevole Scuola di Atene (o La
Filosofia; immagine 29), dalla portentosa e grandiosa architettura -mirabile la fuga
prospettica di archi-, molto ispirata al progetto bramantesco circa la nuova
basilica di S. Pietro.
Immagine 29: Raffaello: Scuola di Atene, detta anche La Filosofia
Sinfonia,
movimento armonioso filosofico, sapienziale e misterico, che, di certo, è
realizzato anche grazie alla “guida” di un erudito, vicino all’autore. Recenti
indagini colgono, il Colocci, raffigurato nelle vesti del personaggio identificato,
solitamente, quale Zoroastro con in mano il globo celeste, accanto ai due suoi conterranei
marchigiani (tra il primo gruppo del margine destro; immagine 30):
Bramante (Euclide, secondo alcuni Archimede, tra l’altro suo
allievo) insegnante la geometria a “studenti” e lo stesso Raffaello (indossante
il berretto nero). Pittura che contiene, tra le “figure
contemporanee” quella proprio Michelangelo in veste di Eraclito (immagine 31
– detto
per
il suo stile, l'oscuro, il tenebroso), aggiunto successivamente e, secondo
alcune letture, con ironico sapore. Appare abbastanza isolato e preso da
riflessione nello stendere appunti -in quel medesimo periodo è intento a dipingere
la volta della cappella Sistina-, con postura a spirale, molto affine a quelle
inerenti alla sua cifra stilistica.
Immagine 30: particolare dalla Scuola di Atene
Immagine 31: Raffaello, particolare dalla Scuola di Atene
Viene esaltata, la consistente levigata saldezza
di questo lavoro, dalla sua intera impaginazione, dichiarata, ad esempio, dai due
personaggi ritratti al centro dell’affresco, nell’epicentro del punto di fuga (immagine
32): Platone (a sinistra, con il certo volto di Leonardo) e Aristotele (a
destra).
Immagine 32: Raffaello: particolare dalla Scuola di Atene
Oltre a ciò la densa ma lucida corporeità volteggia,
altro esempio, in Euclide e nei suoi allievi, dunque la capacità creativa, di
Raffaello, già ne sviluppa il suo verso, senza poter escludere un “contatto”,
tra i due “cantieri” (per l'appunto quello del Sanzio e quello del Buonarroti), così tra loro prossimi e concomitanti negli ambienti
vaticani. In questo caso l’Urbinate -quali ipotesi- potrebbe aver visto,
anzitempo, l’opera “in corso” alla Sistina, ricavandone penetranti impressioni,
tutt’al più idonee a sollecitarlo a cimentarsi in prove maggiormente ardue.
Quale indizio di tale congettura, fondato su un fatto storico, accenno alla
cronologia della decorazione della volta della cappella Sistina, che avviene in
due momenti: il primo dalla metà del 1508 alla metà del 1510; il secondo dalla
fine dell’estate del 1511 all’ottobre del 1512. Michelangelo inizia a dipingere
dal portale sino a metà della struttura di copertura (Creazione di Eva),
consentendo, durante la prima fase dei lavori, la continuazione delle funzioni
liturgiche. Smontando il ponteggio all’inizio dell’estate del 1511, viene
lasciata pertanto visibile la parte già dipinta e definita, innalzando
l’impalcatura nella restante superficie. Il Sanzio – che già ha terminato la
Stanza della Signatura, accingendosi ad affrontare quella di Eliodoro- potrebbe
perciò aver “visionato” il lavoro michelangiolesco già compiuto. Si
è detto circa la confidenza con elette riunioni, durante le quali Raffaello, essendo
la sua opera sempre più abbondantemente richiesta ed eseguita in maggior misura
da aiuti, può aver maturato il concetto della superiorità insita nell’atto
ideativo, rispetto alla sua materiale lavorazione; archetipo, nucleo sostanziale
di percezioni sottili, che apparirà, in altro modo, confermato nello scritto L’Idea
de’ Pittori, Scultori et Architetti (1607) di
Federico
Zuccari, ove espone l’immagine del disegno come elemento trascendente, metafisico,
ingenerato nella facoltà intellettiva e psichica dell'artista.
Gli
aiuti saranno, ad esempio, parecchio attivi nella Loggia di Psiche,
compiuta entro l’inizio del 1518, alla Villa Farnesina, la “delicia”
dell’onnipresente e infervorato suo committente, Agostino Chigi, il quale vi chiama
anche Sebastiano del Piombo (Sebastiano Luciani) autore del Polifemo
(1512, circa) -dal fluido modellato-, amante respinto o accolto, secondo le
versioni, da Galatea. Artista con cui si confronterà, dopo pochi anni, nell’aspra
disputa tra la sua Trasfigurazione e la Resurrezione di Lazzaro
dello stesso Luciani.
Raffaello
dunque dipinge, nel nuovo edificio chigiano, il Trionfo di Galatea
(1513, circa; immagine 33), per poi affidare, alla sua bottega, l’ornamentazione
pittorica successiva riguardante la già menzionata Loggia di Psiche.
Immagine 33: Raffaello: Trionfo di Galatea
Galatea,
la nereide a cui ci introduce il Sanzio con una lettera, inviata al Castiglione
(corretta, in base a ragionate supposizioni, da un ignoto
raffinato “uomo di corte”), verso la seconda metà del 1514:” … l’amore che
mi porta, e le dico che per dipingere una bella mi bisogneria veder più belle,
con questa condizione che V.S. si trovasse meco a far la scelta del meglio. Ma
essendo carestia et di buoni giudici et di belle donne, io mi servo di certa
idea che mi viene nella mente. Se questa ha in sé alcuna eccellenza d’arte,
io non so, ben m’affatico di averla”.
Questa
lettera espone in modo incisivo la visione umanistica, innervata di
neoplatonismo, espressa da Marsilio Ficino (1433-1499), per il quale la natura,
il carattere, l’intimo sentire, l’habitus, regge e muove l’uomo sostanziandosi
vero quando l'anima, vale a dire il soffio vitale, ritorna
verso la propria intelligentia riacquistando il suo reale habitus,
dove sono contenute le forme delle idee che, riverberando le idee assolute
“cosmiche”, rendono l’essere umano partecipe di realtà conosciute e comprese
dall’intelletto così risvegliato, che individua la sostanza delle forme
esattamente con la potenzialità dell’anima, nel divenire della pura
intelligibilità.
Raffaello pertanto esplicita il pensiero della bellezza ideale, che sorge
dall’incessante attività del creativo atto, rivolto ad adempierne la più alta e
pura forma; dunque egli evidenzia quanto sia “certa idea” propria,
sebbene, occorre aggiungere e ribadire, la frequentazione di colte amicizie gli
dischiuda la conoscenza di tanto sapere.
Con
tali riflessioni guardiamo Galatea, “la bianca” come la spuma del mare, cantata
da Omero e da Teocrito, da Virgilio e da Ovidio, da Poliziano e dal
contemporaneo Bembo.
Affresco di elevatissima
classicità, volutamente privo di fusione tra incarnate membra e atmosfera, dal
riuscito e inconsueto effetto “bassorilievo” ottenuto accostando i piani
figurati su un immobile mare dalle ferme onde, pervadendo il cielo di striature
marmoree e il colore velato rimanda all’antico encausto, colorazione sciolta,
fusa che vuole ricongiungersi alle impaginature della classicità ellenica e
romana. Habitus riacquistato per mezzo di un’armonia, che non si adegua
pertanto all’intellettualismo, vivificando la remota lezione. I gruppi
rappresentati intonano un musicale svolgimento di curve eufoniche. Galatea
non è assisa sui dorsi dei delfini, ma è stante sull’aperta valva della
conchiglia (immagine 34), ideale cardine intorno a cui si dispiegano le
altre figure, che consonanti con le curve versano, con pose a spirale, nella
composizione rime di compiuto equilibrio plastico.
Immagine 34: Raffaello: particolare dal Trionfo di Galatea
Esultano,
intorno ad essa, creature marine: a destra un tritone soffia a piene gote in un’accennata
buccina (il lungo tubo bronzeo in uso presso gli accampamenti romani) per
invitare a raccolta gli abitatori marini al passaggio della nereide protagonista;
questo gesto è ripetuto dal tritone (che soffia in una conchiglia tortile,
caratteristica
di tali figure) collocato nella porzione sinistra su un ippocampo; vicino una
diversa nereide è avvolta dal vigoroso abbraccio del suo barbuto compagno,
mentre un’altra, sulla parte opposta, cavalca un centauro. Gli aligeri amorini aggiungono
briosità alla scena, atteggiati a scagliare dardi amorosi verso la leggiadra
Galatea, divinità del mare tranquillo, e lambendo la serena acqua un ulteriore
alato fanciullo regge le briglie di un delfino.
Il
generale segno distintivo, della composizione, si annoda alla raffinatissima
cadenza elaborata negli affreschi della Stanza della Signatura, discostandosi
quindi dall’algido imitare la piuttosto frigida tradizione antica, per salire
sulle cristalline alture del Parnaso. Il classicismo è tradotto in delicati
equilibri compositivi e ritmici, traendo fuori i personaggi da polverosi schemi
per inscrivere in essi una totale forma e una completa vitalità. La mutevolezza
dei colori accarezzati dalla luce, cui la sua differente incidenza ne cambia le
sfumature, nella Galatea accrescono, si ampliano con maggiore salda
impostazione dei corpi foggiati con robusta compiutezza; la diafana limpidezza
cromatica, dell’affresco vaticano, in quello della Farnesina si rafforza con
acuti bagliori: violacee squame dense come lamine acquatiche, volti accesi,
madreperlaceo dorso della bionda nereide, guizzi che smuovono la placida acqua
marina, irsuti tritoni dagli arsi incarnati, nobili rosee muliebri nudità, il
drappo color oro inarcato sulla morbida testa della nereide protagonista, la sua
nobile torsione accarezzata dal docile vento che apre la leggera veste rossa.
Testimonianza
artistica della spinta del sentimento e dell’intelletto, nel consapevole
fiorire di studia humanitatis, studio di ciò che eleva l’umanità, perciò
la sua natura e dignità; ricerca intesa come sorgente di creazione filosofica, letteraria,
artistica nel seno dell’elaborazione di una nuova civiltà. In essa fiorisce la nova
scientia, perciò il sapere; il “nuovo uomo” possiede come particolari guide
contemplatione et prattica: speculativa-soggettiva la prima, osservativa
e sperimentale la seconda, dunque ambedue comunicabili ma ripetibile solo
l’ultima. Uno scoprire o riscoprire verità immutabili ora percepibili.
In
tale moto totale la bellezza non è sussurrante dire. Il legame tra il concetto
di bello e quello di bene viene mostrata dalla base etimologica; difatti il
latino “bellus” è diminutivo di “bonus”, buono, rimandando quindi
alla profonda visione della bellezza come armonia, sinfonia pertanto complesso
armonico di suoni, voci, parti: piena espressione “dell’idea” filosofica greca.
Filosofia, amore per il sapere, slancio verso la capacità di percezione dei
sensi, dell’animo che dipinge il bello quale perfezione sensibile, con
particolare correlazione con l’immagine della donna.
Precedentemente
si è accennato a verbi filosofici così presenti nei circoli culturali, che
incidono altresì l’arte di Raffaello, per questo motivo necessita rammentare un
lacerto del Simposio, di Platone, che definisce l'uomo non soltanto
"sofo", cioè sapiente, ma
filo-sofo, precisamente "amante" della sapienza non posseduta nella
compiutezza, ma a cui mira attraverso il desiderio. Invero, il nesso tra amore e
filosofia è decisamente stretto, specificato nella sua totalità dall’eros,
forza potente che, introducendosi nell'anima umana, la sospinge a intraprendere
un complesso percorso verso la bellezza e verso la verità.
Prima
di iniziare a porgere attenzione a ritratti enuncianti, ancor più, tale
sentire, dobbiamo menzionare la frenetica attività, di quegli anni,
dell’artista. Nel 1514, successivamente alla morte di Bramante, è nominato,
come si è visto, architetto della Fabbrica di S. Pietro; incarico indubbiamente
gravoso, che comporta la direzione di tutte le opere edificatorie nei Palazzi
Vaticani, perciò mentre proseguono i lavori per S. Pietro e per la
trasformazione delle Logge, dall’agosto 1518 iniziano quelli per la costruzione
di Villa Madama e, intorno al 1519, si avvia il progetto di Palazzo Branconio dell'Aquila
(non più esistente). A questi compiti si aggiungono gli studi disposti per i
concorsi relativi al prospetto della Basilica di S. Lorenzo a Firenze (1517,
circa) e a quello di S. Giovanni dei Fiorentini a Roma (1518, circa), oltre ad apparati
per scenografie teatrali, come quelli per la rappresentazione dei Suppositi dell’Ariosto,
allestita in Vaticano nel marzo del 1519, durante il carnevale (è
sua la tela aperta sulla prospettiva di Ferrara). L’intensa occupazione di
architetto si intreccia con gli interessi antiquari. Investito della carica insignitagli da Leone X, nel 1515, che lo nomina
“praefectus marmorum et lapidum omnium”
affidandogli il compito di esaminare l’importanza delle epigrafi, delle
inscrizioni incise sugli antichi reperti marmorei, prima del loro eventuale
reimpiego edilizio, allo scopo di salvaguardare quelle considerate rilevanti
per lo studio della lingua latina. Lo stesso pontefice gli chiede altresì uno
studio sulla pianta di Roma antica. Probabilmente nel 1518 è nominato, insieme ad
Antonio da Sangallo il Giovane, “maestro delle strade”, con funzioni di
“manutenzione” e propositive circa interventi sul tessuto urbano. Coinvolto in
plurimi impegni in campi diversi, egli deve ampliare e riorganizzare la
bottega, effettuando un differenziamento dei compiti, assegnati a un numero
crescente di collaboratori che lo affiancano nelle vaste imprese
commissionategli; conseguentemente in diverse opere, dovendo peraltro
dedicarvisi con pronta celerità, si avvale -in misura diversa caso per caso-
della collaborazione di molti assistenti;
la pittura però continua a configurare, pur in questo inondante
turbinio, il primo dei suoi interessi.
Negli
estremi passi dell’esistenza, Raffaello, dipinge altri espressivi emblemi della
intensa tensione filosofica, avanti descritta, già rappresentata ad esempio
dalla Dama con liocorno (1506, circa, Galleria Borghese, Roma): la
Velata (1516 circa; Galleria Palatina di Palazzo Pitti, Firenze) e la Donna
ritratta in nudità, detta Fornarina (1519, circa; Galleria Nazionale
d’Arte Antica di Palazzo Barberini, Roma). Iniziamo da quest’ultima, proprio
per le, eventuali, altre mani che l’avrebbero eseguita.
La Fornarina (immagine 35), olio su tavola, tradizionalmente
identificata con sembianza della più celebre amante e musa ispiratrice dell’artista,
conosciuta come la “Fornarina”.
Immagine 35: Raffaello: La Fornarina
Questa
è sentimentale fantasia mancando di accertato fondamento storico, dovendo tale
suo conosciuto nome a interpretazione formulata durante il XVII secolo, che
indica la donna quale Margherita Luti, figlia di Francesco Luti, fornaio -il
mestiere del padre perciò le significa il soprannome- proprietario di
“laboratorio” nei pressi della chiesa de Ss. Silvestro e Dorotea, nel rione
Trastevere. Il supporto a questa, postuma, “decifrazione” sarebbe sussurrata
dalla perla pendente sul capo. La gemma echeggerebbe il nome proprio del personaggio
muliebre; in effetti, Margherita, deriva dal lontano etimo
maschile, di origine orientale in seguito assunto dal greco margaritès,
“perla”, traslato poi nell’accezione di bellezza, luminosità, purezza. Se però
si confronta il ritratto con altre realizzazioni raffaellesche, cui il senso di
bellezza femminile ideale e incorruttibile è assiduo, la lettura muta il
persistente dire sul noto dipinto, fornendo altresì una risposta al perché,
Raffaello, lo avrebbe custodito nel suo studio fino al suo ultimo respiro, supponendone
-in astratto- anche la non avvenuta ultimazione di alcune minime parti, successivamente
dipinte da Giulio Romano, dopo il decesso del Maestro.
La
posa delle mani, una stesa sul grembo e l’altra posata sul seno, che sembra
manifestare un senso di garbato pudore, sospinge invece lo sguardo
dell’osservatore proprio su quello che, in apparenza, si vorrebbe celare.
Reputare questo tratto del dipinto ispirato -come in alcuni casi si afferma- al
modello scolpito della “Venere de’ Medici” pur detta “Venere pudica”,
storicamente non è sostenibile; infatti, la scultura sarà rinvenuta, a Roma,
intorno al 1552. Si deve escludere anche la “Venere Capitolina”,
pur rinvenuta a Roma, tra il 1667 e il 1670. Tema particolare della dea molto
diffuso nell’antichità, se ne può presumere la conoscenza di Raffaello, correndo
forse il pensiero, per trovarne spunto, alla “Cacciata di Adamo ed Eva
dall’Eden” (immagine 36), affresco del Masaccio (1425, circa; Cappella
Brancacci, Basilica di Santa Maria del Carmine, Firenze), nel drammatico
atteggiamento della progenitrice nuda. Opera rimirata e osservata con assiduità
da artisti attivi nella città toscana, già dimorata dal Sanzio.
Immagine 36: Masaccio: particolare dalla Cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden
I
capelli neri della donna, Fornarina, sono raccolti in una lunga seta che incorona il capo
di oro, di azzurro scuro e di riflessi verdi; il panno è annodato
sulla nuca, una perla -la rilucente luminosità della leggiadria viva- accarezza
le chiome e un trasparente velo -delicata spirale sul suo braccio destro- lievemente
cade su un manto rosso, avvolgendo le gambe. Ben composto il volto, dalle
guance rosee e -se minuziosamente esaminato- ottimamente proporzionato con il
corpo; lucenti, grandi sono gli occhi scuri e le labbra soffici e sporgenti.
Il
bracciale ha inciso “Raphael Urbinas” e attorniandole il braccio
sinistro esclama inscindibile connubio dell’autore, con l’idea che vi esprime;
la sua foggia concreta la simbologia del cerchio, enunciandone pertanto
l’illimitatezza. L’arbusto sullo sfondo si plasma come
odorosa pianta, attraverso la quale s’intravede lo sfumante turchino scuro del
cielo scrutato. Ritratto di equilibrio e di perfezione formale, appare possedere
poetica sensualità e fine dolcezza, membra reali e natura eterea, alterità e mitezza.
Si distende un amalgama di soavità e di armonica appropriata saldezza con lievi
note cromatiche, come se la figura fosse immediatamente apparsa dopo il sorgere
di raggi, diffondendo luce -colmante in lei- di speculativo erotismo, che tornito
si staglia sulle scure fronde dischiudendo il chiarore del cielo, il quale è
appena visibile. Raffigurata in posizione intermedia, tra
il volto e il profilo, la donna veleggia il suo sguardo superando quello a lei
rivolto dall’osservatore. Impostazione di tutto l’insieme sul concetto di
bellezza feconda, donante vita alla natura tutta, nella beltà che il mondo
rivela con libertà di molteplici forme.
Questi
aspetti dell’opera propongono di rilevare quanto i valori formali, la
specificità narrativa, attinente a una “accademica” cultura, non prevalgano
sulla sensibilità d’artista, per quanto di seguito si espone.
Si è fatto cenno, poc’anzi,
anche alla mano di Giulio Romano in merito alla Fornarina, che nel
completarla vi avrebbe inserito alcune eventuali modifiche. Difatti, esami
radiografici hanno evidenziato una ridipintura, riguardo allo sfondo, giacché la
prima stesura presenta un paesaggio. Ma un ripensamento di un particolare
dipinto, o abbozzato, avviene anche in Raffaello come ad esempio accertato per
la Disputa del Sacramento della Stanza della Segnatura. Giulio Pippi
(detto Romano), in questo caso, è supposizione priva di attestazione documentale
e come inverso paradigma basta confrontare il suo ritratto di Cortigiana
(immagine 37; 1521, circa; Museo Nazionale delle Belle Arti Puskin, Mosca).
Immagine 37: Giulio Romano: La Cortigiana
Dipinto
indubbiamente ispirato alla Fornarina - che la tesi indicante il
Romano solo o principale artefice la riferisce al periodo 1520/1521- però mancante
di capacità poetica. Questa sconosciuta modella disegna una figura di
cortigiana, ricompensata con gioielli costosi e preziosi ornamenti, come
raffigurati nel dipinto. Il seduttivo atteggiamento del personaggio e il suo
gesto di invito appaiono alludere alla sua “professione”. Riuscita pittura di
sagace espressione, dosaggio di esperienza tecnica, dinamica in un erotismo
suscitato solo da terrena carnalità.
La
Fornarina, al contrario, per quegli aspetti già ponderati suggerisce altro
percorso di mente e, l’evocazione di quel significato simbolico, dona
sensibilità a tutti gli elementi del contenuto.
L'immagine
di quella figura lì svestita, con alcune variazioni si ritrova specialmente nella
Velata e parzialmente nella Madonna Sistina e in altre
raffigurazioni; essa si ispira forse a una reale persona; non sembra tuttavia irrazionale
e senza fondamento asserire che si materializzi, in Raffaello, il “sembiante” della
bellezza muliebre somma, ideale, rappresentata secondo diversi modelli nel
corso della sua vicenda artistica. Egli ritrae la bellezza nell’assoluto, svelata
dalla sua interiorità; assoluto sottratto quindi alle vicende del divenire -come
insegna l’antica filosofia greca-, per sé stesso compiuto e
perfetto, quindi, in tale visione, la donna è associata al paradigma di sovrana
beltà illimitata.
La Velata (1516, circa; Galleria Palatina di Palazzo Pitti,
Firenze; immagine 38) precede nel suo profondo significato proprio il
ritratto della Galleria romana di Palazzo Barberini.
Immagine 38: Raffaello: La Velata
Prospera immagine di giovane donna dai grandi occhi neri e vellutati, le cui forme
avvenenti emergono dal ruscellare di toni argentini e dorati sulle pregevoli vesti.
Sebbene alcune disquisizioni critiche ne neghino la stretta connessione
plastica (e di significato) con la, successiva, Fornarina, la posa, il
volto, l’incarnato sono ad essa affini. Medesima è la perla nonché la relativa
posizione, che dal velo si versa sui capelli. Figura nobilitata della beltà;
ampia effusa luminosità, supremo equilibrio definito da assoluta
perfezione formale d’ispirazione classica. Lo sguardo, in un gioco di tratti
curvati, non sopravanza lo spettatore, eppure sembra cogliere un orizzonte
visibile soltanto ai suoi muliebri occhi. Poetico significato di empirea luce
(qui la figura è ornata di vesti), che innalza l’anima verso i campi della sophia,
la sapienza, per mezzo della bellezza nell’idea di vera realtà eterna, un cosmo
infinito, externus al tempo e allo spazio.
Ancora più a ritroso un
altro sentir beltà ne spalanca il portale: la Madonna Sistina (1513-1514 circa; Gemaldegalerie Alte
Meister di Dresda; immagine 39).
Immagine 39: Raffaello: Madonna Sisitina
Olio su tela, ove i teneri idilli delle
Vergini ritratte durante il periodo fiorentino, si tramutano in trionfali
visioni, pregne di spettacolosa solenne monumentalità, saldo intreccio di floride
membra teneramente avvinte ed esaltate da un cromatismo smagliante. Con
lo sguardo somigliante a quello della futura Fornarina e il viso a
quello della Velata, la figura mariana assume ruolo attivo, tramite
l’eliminazione di elementi iconografici accessori: la Vergine discende
circonfusa di luce, abbigliata di semplicità e priva di qualsiasi ornamento,
tra S. Sisto II papa e S. Barbara (personaggi in eminente compiutezza plastica),
verso i fedeli che si inginocchieranno, quale icona sacra, dinanzi al dipinto. Gli
occhi della Madre e del corposo Bambino si ancorano in quelli di coloro che
intensamente guardano questa “visione”; S. Sisto si rivolge alla Vergine impetrando
grazie per la folla dei devoti. Irraggiandosi verso lo spazio degli spettatori,
sollecitandone la vivida partecipazione emotiva all’evento, l’immagine si manifesta
non quale raffinata raffigurazione, ma come palpabile teofania: manifestazione
del divino, immediata verità rivelata da una realtà soprannaturale.
L’apparizione è immagine attiva, permettendo all’osservatore quasi di toccare un
evento ancor più a lui vicino, capace di renderlo emotivamente partecipe della manifestazione,
sensibile, del divino. In un’altra riva, Raffaello, esprime la bellezza
elevatissima che illumina l’anima umana.
Sentimento
superbo, cultura acuta, stupefacente padronanza plastica, questo assieme
connota ogni espressione dell’arte pittorica raffaellesca. Essa sgorga da un
processo creativo, avviato da un’iniziale immagine personificata -come altrove
si è considerato-, per condursi gradualmente e metodicamente, attraverso la
ricerca di soluzioni che si rivelano più consoni a una visione di stabile
forma, a tangibili variazioni d’impostazione. Tali mutamenti, certamente
avallati -se non talora suggeriti- dai committenti, determinano però un accrescimento
e un approfondimento dell’originario tema, in uno svolgimento di serrata reciprocità
fra il caratterizzarsi dell’assetto formale dell’opera e il definirsi dei
significati; scorrevole corso dal quale le modifiche suscitano a loro volta, nell’artista, nuove invenzioni sostanziate poi in forme, grazie a una relazione che possiede
natura dialogica, giungendo a espandere straordinaria inventiva nelle immagini.
La
sua tecnica si abbevera in tale alveo, così le soprammesse stesure di colore
lasciano, con ininterrotta continuità, filtrare un sottostante strato cromatico,
fino alla rifinizione di consistenti velature aeriformi che sfumano,
ammorbidendolo, l’impianto modellato, rivelando un’orchestrata gamma di toni
con preziosi effetti policromatici.
Come
“tradurre”, questo scritto percorso illustrativo, nei confronti dell’Isaia
raffigurato nella Basilica di S. Agostino in Campo Marzio, il quale appare, sulle
prime, una sorta di pedissequa proposizione in chiave michelangiolesca? Per
coglierne appieno il portato, è stato perciò necessario rivolgere lo sguardo ad
altre opere raffaellesche.
Il
Vasari ci introduce a questo affresco:” Aveva acquistato in Roma Raffaello
in questi tempi molta fama et ancora che egli avesse la maniera gentile da
ognuno tenuta bellissima, e con tutto che egli avesse veduto tante anticaglie
in quella città e che egli studiasse continovamente, non aveva però per questo
dato ancora alle sue figure una certa grandezza e maestà che è diede loro da
qui avanti. Avvenne, adunque, in questo tempo … che avendo Bramante la chiave
della cappella, a Raffaello, come amico, la fece vedere, acciò che i modi di
Michelagnolo comprendere potesse. Onde a tal vista fu cagione che in Santo
Agostino sopra la Santa Anna di Andrea Sansovino in Roma Raffaello subito
rifacesse di nuovo lo Esaia profeta che ci si vede, che di già lo aveva finito.
Nella quale opera per le cose vedute di Michelagnolo migliorò et ingrandì fuor
di modo la maniera e diedele più maestà. Perché, nel veder poi Michelagnolo
l’opera di Raffaello, pensò che Bramante, com’era vero, gli avesse fatto quel
male innanzi per fare utile e nome a Raffaello”.
Questo
è il brano vasariano cui avanti ho fatto cenno, cui redige una conclamata
svolta stilistica del Sanzio, dopo che avrebbe “contemplato”, per la prima
volta, la Cappella Sistina coronata, da Michelangelo e questi, vedendo l’Isaia
in S. Agostino, -secondo quanto vi è riportato e per come si deduce- ne avrebbe
temuto l’abilità pittorica, capace di imitarlo mirabilmente, percependone la
macchinazione ordita dal Bramante, a favore di Raffaello, per un maggior
rilievo agli occhi della prestigiosissima committenza. Da tale passo è sgorgata
tanta letteratura, che ha voluto contrassegnare il Profeta Isaia quale
prodotto di quella sorta di folgorazione, penetrata in Raffaello, alla vista
del lavoro decorativo di Michelangelo nella Sistina. L’enfasi elargita, dal
Vasari, all’episodio ne sottolinea il completo ripensamento del Sanzio su una
figurazione già dipinta, che avrebbe quindi distrutto per raffigurarne una in
cifra michelangiolesca. Accadimento però non supportato, ad oggi, da alcuna
prova documentale o certificata dalla storia. La ragione che può aver indotto
il Vasari a introdurre questa tesi, così poi numerosamente replicata, è da
riconoscere nello spirito encomiastico contenuto nel brano stesso, con il quale
vuole, nelle intenzioni, sottolineare la capacità di Raffaello di assimilare,
nel suo personale linguaggio, fonti differenti e antitetici come quello di
Michelangelo, formulando la valutazione prima, implicitamente positiva,
dell’eclettismo dell’Urbinate. Aneddotica vasariana idonea comunque ad agghindare,
enfaticamente, la sua valenza di storiografo, abile a stabilire caratteri e a
dar rilievo alla sua critica artistica.
Rimando
a quanto già contenuto in questo mio scritto (compreso l’accenno a una
ipotizzabile precedente visita raffaellesca ai lavori sistini), in merito a
questa teoria, soffermandomi però, riguardo all’Isaia, sulla tesi d'intenso
debito raffaellesco verso la “maniera” michelangiolesca, certificato dallo
scritto vasariano e da lì propalato da altri nelle successive stagioni. Infatti,
da questo passo la critica ne ha, generalmente, riscontrato soprattutto il
carattere pittorico debitore al Buonarroti riguardo alla figura e alla composizione,
quasi circoscrivendo a questa verifica ogni ulteriore giudizio. Filippo
Baldinucci, pittore e storico dell’arte, nella sua monumentale fatica
letteraria “Notizie de' professori del disegno da
Cimabue in qua”, (primo volume edito nel 1681) reitera
il Vasari in merito a una prima versione dell'Isaia disfatta da
Raffaello, per rielaborarla nel solco della " grande maniera"
michelangiolesca. Anton Raphael Mengs autore
dei Pensieri
sulla bellezza e sul gusto nella pittura (1762),
dall’evidente significato polemico contro la pittura che egli
considera corrotta, vi magnifica quella esclamata "bellezza sublime",
esaltando tra gli altri Raffaello, formulando invece giudizi negativi anche su
Michelangelo. Questo pittore, caposaldo del neoclassicismo, narra un episodio
decisamente scevro di credibilità. Sarebbe dunque sorta, fra il Raffaello e il committente
Goritz (sul quale ritornerò più avanti), una controversia relativamente al
compenso già pattuito, causando il ricorrere del Sanzio a una sorta di verdetto
inappellabile del Buonarroti, che, dopo aver osservato l’affresco, preso da
intensa ammirazione e stupore per quanto scrutatovi, con vivo trasporto ne avrebbe
affermato il superiore valore del solo ginocchio nudo, dell'Isaia,
rispetto all'intera somma da erogare all’Urbinate. La narrazione sottintende un
contrapposto giudizio critico, poiché mentre per il Vasari, Raffaello, ad ogni
modo si appropria della grande maniera michelangiolesca, per il Mengs, al
contrario, è lo stesso Michelangelo a incensare Raffaello, riconoscendone
l’eccezionale vena di inarrivabile artista. Investitura che, secondo lui, non si
scorge nel Buonarroti, cui ascrive difetto sentenziando: "ha tutta la
grandiosità (l’Isaia raffaellesco) dei Profeti della Cappella Sistina,
ma col divario, che in questo si occulta tutto l'artifizio della grandiosità suddetta,
e in quelli si mostra troppo l'intenzione dell'autore". Michelangelo continua ad incombere su questa
pittura a fresco, convincendo lo storico d’arte Luigi Pungileoni, autore
dell’Elogio
storico di Raffaello Santi da Urbino (1829), a far cenno (notizia
rivelatasi infondata) circa presuntivi documenti d'archivio, dimostranti l'affresco
eseguito da Michelangelo e non da Raffaello. Johann David Passavant,
pittore e studioso d’arte, scrittore di Raffaello d'Urbino e il padre suo,
Giovanni Santi (1839-1858), giudica “il maestoso (michelangiolesco)
che si scorge nell'Isaia, altro non è che mancanza di espressione".
Ancora, Gaetano Milanesi nell’edizione
annotata delle “Vite” de Vasari (1846-1858) scrivendo
il commentario alla vita di Raffello, nota che:" l'imitazione della
maniera michelangiolesca in questa figura gli tornò più svantaggiosa che utile,
imperciocchè questo è uno dei suoi lavori men buoni”. Lo studio di Georg Dehio, “La rivalità tra
Raffaello e Michelangelo” (1885) considera il “Profeta”
abbastanza michelangiolesco per essere dell’Urbinate, plausibilmente affidandolo
alla tavolozza di Giulio Romano. Adolfo Venturi, docente e storico dell’arte,
alla fine del XIX sec. valuta l'Isaia " quasi una parafrasi
della composizione di Michelangelo". Sergio Ortolani studioso e
curatore d’arte, nel 1923 lo definisce d’impostazione retorica.
L’evidenziare
elemento michelangiolesco, nella guisa estrinsecata dal Vasari, dunque ha
successivamente prodotto un motivo di giudizi soprattutto negativi,
attraversando -come detto- plurime epoche. Nei riguardi dell’Isaia si è consolidata
pertanto una tradizione che la trattiene in un ambiguo simulacro di finissima
imitazione, tuttalpiù con elegantissime varianti dal sapore ornamentale. Da tale
sclerotica visuale sono stati marcati -in molti capitoli della critica- di
inscindibile e predominante “michelangiolismo” i coevi e i successivi lavori raffaelleschi.
Sfugge a una disattenta vista quell’ansia, quel senso continuo di sfida, di
confronto che si propone di superare l’apparente insuperabile, senso intrinseco
all’eclettica cifra di Raffaello, capace di contenervi in versi prodigiosi -con
fare competitivo- altresì un’attiva traduzione del pur straordinario linguaggio
michelangiolesco, che in sostanza il Profeta Isaia proclama volutamente
spiccato (ma non nella sua interezza), includendovi il timbro di superlativo studio
figurativo. Oltre a ciò di un altro aspetto cardinale, che ha indirizzato il
Sanzio nell’esecuzione di tale pittura, ne parlerò più avanti.
Siamo dinanzi quindi al terzo pilastro sinistro, eretto nella navata
centrale, della Basilica di S. Agostino in Campo Marzio (immagini 40, 41),
includente altresì il gruppo scultorio S. Anna, la Vergine col
Bambino (1511/1512) di Andrea Sansovino (Andrea Contucci), che almeno un deciso
cenno esige (immagine 42), per riconsiderarla in seguito. La scultura mostra
quella immediatezza del modellato, pregno di effetti volumetrici che ne
allargano il composto, con sagace distribuzione di luci e ombre. L’elegante
compostezza deriva una tendenza all'assesto e al misurato criterio ancora rivolto
al Quattrocento, per la pacata disposizione della massa scolpita, risaltando
che, alla sicura fisionomia di S. Anna, si sottrae quella astrattamente
classica della Vergine, statua con carattere di evidente studio di
antica statuaria, componente che attiene, in questo caso, anche a Raffaello (come
avanti si vedrà).
Seguenti immagini (40, 41): pilastro con scultura di Andrea Sansovino e affresco di Raffaello
Seguente immagine (42): Andrea Sansovino: S. Anna, la Vergine col Bambino
La
sistemazione primigenia include un altare sovrastante la tomba, posta a terra,
del committente. Nel 1760, durante i lavori di profondo restauro della Basilica,
diretti da Luigi Vanvitelli (e Carlo Murena, suo sostituto e aiuto) il gruppo è
spostato nella seconda cappella della navata sinistra, mentre viene eliminato l’altare
stesso (come tutto ciò che si mostra addossato agli altri pilastri); nel 1981 l’opera
sansoviniana è ricollocata, nella posizione originaria priva di altare e nel
1998 viene restaurata insieme all’affresco raffaellesco.
Circa
gli interventi di “ripristino”, questa pittura ne è stata oggetto in diverse
occasioni nel corso dei secoli, il primo dei quali eseguito da Daniele da
Volterra (ante 1557), stretto amico proprio di Michelangelo (che morirà il 18
febbraio 1564). Il Volterra detto il “braghettone”, come appellato per la prima
volta dall’abbate benedettino Vincenzio Borghini, in occasione del suo,
parziale, lavoro “emendatore” -commissionatogli per il suo legame con il
Buonarroti- del Giudizio Universale (metà 1564-fine 1565) che troneggia
dall’alta parete di fondo sistina. Il restauro del “Profeta” in S.
Agostino si presenta necessario ed urgente, perché, stando alle cronache
dell’epoca, rovinato da un incauto lavaggio di un sacrestano. Subisce,
nel corso del trascorrente copioso tempo, aggressioni di polveri, fumi da
iniziale incendio, “vapori” da candele e così via, derivandone perciò infelici
ampie ridipinture ad olio -maggiormente nel panneggio- ed un tentativo di
ravvivamento improvvido e nocivo, effettuato con abbondante quantità d'olio di
lino. Viene sottoposto anche alle cure di Pietro Gagliardi, attivo
(con aiuti) nella cospicua decorazione affrescata -in rigoroso classicismo-
della Basilica (1854-1868); egli quindi vi spalma velature incoerenti,
immotivate rielaborazioni a tempera. Inoltre, tenta di collegare, l’imponente affresco
raffaellesco, alla serie sua decorativa dei cinque profeti dipinti su
altrettanti pilastri, inquadrando il tutto con cornici di legno dorato, ponendo
una targa ornamentale col rispettivo nome del personaggio profetico.
Durante
il restauro del 1998 sono emersi pur antichi numerosi ritocchi
e pesanti stesure, che alteravano profondamente l'aspetto; restauro esperito con
enorme perizia e sensibilità, restituendo all’Isaia -finalmente libero
da ogni “sovrastruttura” - la cromatica scansione armonica, la spaziale monumentalità
entro il timbro dei netti contorni.
In
una “riga addietro” ho nominato il Goritz, committente dell’insieme scultorio e
pittorico. Johann Goritz, originario di un territorio oggi appartenente al
Lussemburgo, venendo a Roma accumula, in celere tempo, parecchie cariche presso
la Curia della Santa Sede, cui la maggiore è quella di protonotario apostolico
(prelato che registra atti di organi amministrativi vaticani). Si
libera del suo rigido nome di europeo del nord, per acquisire quello di Giovanni
Coricio, evocante l’aulica genesi latina (Coriucius);
di fatti echeggia il "Corycium antrum", una grotta del monte
Parnaso che Pausania (il geografo e scrittore greco del II sec.) identifica
come fonte di ispirazione poetica. Personalità erudita e facoltosa, acquista
un terreno nelle vicinanze del Foro di Traiano, costruendovi una villa circondata
dall’hortus, il giardino letterario, dove avvengono riunioni poetiche e
“di pensiero”. Gran parte della sua fama è dovuta alla operosa
generosità verso i letterati, che incoraggia pur economicamente. Egli diviene
il fulcro, così come Angelo Colocci (manoscritti di quest’ultimo però riscontrano
una polemica nei suoi confronti), di un gruppo di umanisti, i cui incontri
costituiscono una laboriosa fucina intellettuale. Tra i nomi di questo aureo
circolo: Pietro Bembo, Baldassarre Castiglione, Alessandro Farnese -futuro papa
Paolo III-, Blosio Palladio (Biagio Pallai), fine poeta e prosatore, pubblica
nel 1524 la “Coryciana”, silloge di poesie composte, in latino, da
letterati in Roma onoranti giustappunto il Coriucius.
A
S. Anna, madre della Vergine, questo dotto prelato dedica particolare culto,
rimettendo alla sua protezione le arti e le lettere, racchiusi nell’emblema
della Santa: il libro. Alacre è la devozione e segno -frequente in quella Roma,
di ascendenza sociale e culturale- che dà corso al progetto plastico in S.
Agostino, con atto del 13 dicembre 1510 suggellante la concessione del relativo
Capitolo Agostiniano di erigere "un
altare di marmo aderente al pilastro che è a circa metà della Chiesa ... e
nell'altare erigendo il detto Giovanni (Coricio) potrà porre un gruppo
marmoreo di tre figure, cioè della beata Anna madre, e della Beata Maria
Vergine sorreggente tra le braccia G. C. ". Il gruppo marmoreo di
Andrea Sansovino perciò è, leggendo tale documento, il primo lavoro realizzato
poi collocato entro una nicchia, dominante la mensa d’altare; nell’apice del
pilastro, Raffaello, dipingerà l’Isaia affiancato da due putti (1512). Il
contratto stilato per la scultura prevede che, il Coricio, alla sua morte abbia
sepoltura ai piedi dell'altare. La concezione ispiratrice
di tutta l’opera, che ha univoca natura, s’impernia sul tema dell'Incarnazione
di Cristo con un accentuato senso dell'antichità, accostando dunque la spiritualità
cristiana alla tradizione classica, che l’arte, nelle sue espressioni,
dall’Umanesimo protrae successivamente per lungo tempo.
Il
lavoro in S. Agostino potrebbe derivare altresì dall'influsso di Egidio da Viterbo -forse tra i “fari” che illuminano il
disegno michelangiolesco della volta sistina-, umanista,
filosofo, poeta, oratore, uomo di fervente spiritualità (sarà eletto alla
dignità cardinalizia). Personalità di acuta erudizione (notevole
il suo interesse per aspetti connessi alla numerologia e alla simbologia),
frequenta Giovanni Pico della Mirandola e i suoi studi comprendono l’antico
pensiero gnostico ebraico, la letteratura sapienziale cabalistica. Attratto dal
platonismo, incontra Marsilio Ficino, da lui considerato il “nuovo Socrate”, sospingendosi
in una visuale compatibile con i principi cristiani -vita
è arte armonizzandola “ai cieli”, come recita il De vita
nel Libro III del Ficino-, in tematiche espresse da ciò che approda al neoplatonismo. Dal 1506 generale dell'Ordine Agostiniano, propugna
l’elaborazione di una “teologia poetica" e neoplatonica, in cui prende
ampio spazio il linguaggio del simbolo e delle immagini ad esso inerenti, oltre
alla cristianizzazione -già in atto- di miti pagani, in un complessivo recupero
e in una generale integrazione, avverata come aperto vasto orizzonte.
Si
indica perciò -come detta quella temperie anche in altre composizioni- la
sintesi, come evidenziato, di elementi classici e cristiani, in un’impostazione di monumentale
epicità pittorica (Isaia) e di teoricità scultoria (S. Anna, la
Vergine col Bambino), presi fra le esemplari “anticaglie” collezionate
dal Coritz -disperse, per quanto è immaginabile, durante il sacco di Roma
avvenuto tra maggio 1527 e febbraio 1528-, specificatamente rielaborate in
colma condivisione della sua cultura umanistica, tangibilmente scolpita nel
gruppo di S. Anna, dove la Vergine è la figura distintamente “più
classica” di tutta l’arte del Contucci.
Devoto
cristiano e di pronto acume intellettuale, il Coricio, il 26 luglio -giorno del
calendario dedicato a S. Anna- di ogni anno riunisce una folta cerchia di
umanisti dinanzi all'altare, da lui voluto, in S. Agostino; terminata la funzione liturgica, versi
poetici sono affissi proprio su e intorno a quella mensa; rime e brevi scritti, in
onore della Santa, del Coriucius e di altri intellettuali, conservati sia
nell'archivio della Chiesa sia dallo stesso Goritz (parzialmente raccolti nella
citata Coryciana). I festeggiamenti, proseguono nel suo hortus,
dove si leggono con voce squillante -con “spirito sacro” indicato
da Platone circa l’atto poetico- poemi e ancora poesie, per fissarli agli
alberi sotto cui, in tavole allestite sontuosamente, stanno illustri eruditi,
fra i quali, secondo una cronaca del 1516, Angelo Colocci di cui si è detto.
La
madre della Vergine, S. Anna, si svela quindi personaggio imprescindibile dell’intero
apparato decorante il pilastro. Di questa Santa, dal diffusissimo seguito
cultuale -iniziato verso il IX secolo e progressivamente
esteso sino al XV in tutto l’Oriente e Occidente cristiano, perdurando fortemente
nei secoli successivi-, le prime “notizie” giungono da un testo apocrifo, il
cosiddetto Protovangelo di Giacomo scritto in greco intorno al 150, riconosciuto
dalla Chiesa orientale nel VI secolo e da quella Occidentale nel secolo VIII:
vi è narrata la miracolosa natività di Maria, madre di Gesù Cristo. Come non
notare riguardo al nome, in ebraico Hannah dall’antico etimo comprendente
il significato di “grazia” -, la stretta connessione con quello di Maryam
(ebraico antico) e poi in Miryam (ebraico V-X sec. dell’era volgare) e
ancora adattato in greco Mariàm e Marìa ripreso in latino Marìa e in Mària che,
probabilmente, a sua volta, deriva dall’egiziano Myrt “che ha in sé
grazia”. Tale oggettiva -non fortuita attinenza- dei due nomi può conciliare
con l’ideazione di essenzialità voluta, in S. Anna, nell’insieme plastico:
miracoloso il concepimento di Maria, nel grembo della madre, soprannaturale
quello della Vergine, genitrice del Messia, salvatore dell’umanità. Divino
accadimento compiuto per la presenza nella storia umana di Maria, prescelta da
Dio, partorita da Anna, dunque quest’ultima basale per il profetizzato piano
dall’Eterno.
Della
dedizione del Coricio esclama l’incrizione dedicatoria, in greco, nella tabula retta
da due putti alle spalle del Profeta:” A S. Anna, madre della Vergine, madre
di Dio, a Gesù Cristo Salvatore, Giovanni Coricio” (v. immagine 44). Senso profetico
cristologico, cui S. Anna ne è impregnata quale eletta consapevole e, con senso
filosofico, agente -causa che produce direttamente e attivamente il suo effetto-
nel relativo compimento. Significativo riferimento al piano salvifico divino è
il cartiglio srotolato del Profeta, dalla scritta in caratteri ebraici, tratta
dal libro di Isaia, cap. 26, vers. 2:” Aprite le porte, onde il popolo che
crede entri”(v. immagine 44). Queste frasi tuttavia non conchiudono le enunciazioni
interpretative, “esegetiche” delle raffigurazioni. Il Profeta incide un
argomento intrinseco, che entra nell’essenza delle immagini, nel loro contenuto
“semantico”, deliberatamente codificato e implicitamente riferito a tre passi,
contenuti nel libro di Isaia, letti come predizioni
della maternità divina di Maria e della nascita di Cristo: “Poiché un
fanciullo ci è nato, un figliolo ci è stato dato, e l’imperio riposerà sulle
sue spalle; sarò chiamato Consigliere ammirabile … Principe della pace, per
dare incremento all’impero e una pace senza fine al trono di Davide e al suo
regno e stabilirlo fermamente…” (cap. 9, verss. 5-6); “Poi un ramo
uscirà dal tronco di Yshay (Iesse, il padre di Davide), e un rampollo
spunterà dalle sue radici. Lo Spirito dell’Eterno riposerà su Lui: spirito di sapienza
e d’intelligenza, spirito di consiglio e di forza, spirito di conoscenza e di
timore dell’Eterno” (cap.11, verss. 1-2); “Perciò il
Signore vi darà un segno: Ecco la giovane concepirà, partorirà un figlio e gli
porrà il nome Emmanuele (Dio con noi)” (cap.7, vers. 14).
Necessita,
a tal riguardo, una parentesi, limitandomi soltanto ad osservare quanto, in
linea storica e filologica, sia accertato e documentato.
Della
seconda profezia (Isaia 11, 1-2), S. Tertulliano, l’eminente pensatore cristiano
(II-III sec.), nel suo “De carne Christi” ne elabora
un'interpretazione concettuale ampiamente accettata e in seguito non modificata
(confermata da S. Ambrogio -IV sec.- Expositio in Psalmum; S. Girolamo
-V sec.- Commentaria in Isaiam prophetam e da altri): il “ramo” inerente
a Iesse è la Vergine mentre il “rampollo” è il Cristo. Per il brano
tratto dal capitolo 7, ho riportato la traduzione dall’originario testo in
ebraico, che indica “almah” giovane (donna, ragazza; di solito coincidente con il senso di
vergine), mentre il testo tradotto in
greco (intorno al I sec. a.C.) utilizza il sostantivo “parthénos”
(vergine), come anche incluso nel Vangelo di Matteo (cap. 1, vers. 23), composto
verso la fine del I sec., cui è conosciuta la fonte greca, pur se antiche
testimonianze indicano che la lingua originaria fosse quella ebraica (forse
aramaica) (Eusebio di Cesarea -secc. III, IV- citando S. Ireneo di Lione e
Origene -secc. II,III; S. Girolamo). S. Girolamo, nel tradurre
in latino -la Vulgata- gran parte dei testi biblici (fine IV sec. inizio V
sec.), sulla base del precedente testo greco scrive:” Ecce, virgo concipiet
et pariet filium …”.
Ampio
discorso giovevole per ritornare a Raffaello nel contesto dell’Isaia,
frutto dell’atmosfera culturale e di quel particolare sentire e adoperarsi, che
esige la sua fertile mano intrisa di tale anima.
Guardando
meticolosamente la distribuzione del dipinto e della scultura, si rivela nella parte
inferiore affrescata, corrispondente alla porzione più alta della cornice che
inquadra la nicchia, un indizio. Questa indiretta prova spinge a considerare il,
quasi certo, proseguimento dell’affresco -con effetti decorativi- dai due lati
incorniciati sino al piano della cinquecentesca mensa d’altare. Difatti,
l’ultimo restauro ha riconsegnato, alla vista, il colore ai due spigoli
superiori accostati all’incurvatura del profilo sagomato, generando l’indizio
stesso (immagine 43).
Immagine 43: Raffaello: Profeta Isaia, colore ai due spigoli superiori
La
composta disposizione, come già si è osservato, astrattamente classica della
Vergine scolpita (richiamata immagine 42), è deciso omaggio alla
statuaria antica cara e raccolta dal committente, che ne vuole un esempio di algida
armonia: la Madre di Cristo è culmine atemporale di grazia e di virtù. Il
Coricio, come sì è notato, ai suoi artisti favoriti chiede di condividere pienamente
il suo umanesimo, perciò del gruppo marmoreo, la Vergine, risponde a un
raggio di questa visuale. Come se dalla produzione di Prassitele (lo scultore
ateniese del V secolo a.C. tra i massimi artisti dell’antichità) approdasse,
nel primo Cinquecento, una figura esterna all’ambiente circostante, immagine
divina vivente in un mondo appartato, modello di bellezza assoluta e imperturbabile
dall’alto dei cieli, sapiente modellazione chiusa nella sua levigata superficie.
Paradossalmente,
come sembra in apparenza, l’atteggiamento della statua di Maria schiude l’intervento
monumentale di Raffaello -desiderato molto dal committente-, troneggiante quell’altare
di esteriorità -vera e non fittizia- di antica ara, ove convergono architettura
(l’esile mensa addossata al gagliardo pilastro), scultura (il misurato ordine
del gruppo) e pittura (la possente forza profetica), sostanziando il
collegamento teologico imperniato sulle tre profezie di Isaia. Nell’ariosa norma
rincorsa dal Rinascimento si uniscono in tal guisa, come intenzione del
committente, la pietas, vivida devozione provata dall’animo verso Dio e
riverente osservanza della sacralità, e l’humanitas, disposizione di
apprezzare, ricercare, studiare e interpretare l’arte.
L’Isaia
raffaellesco quindi, prescindendo dalle argomentazioni “tecniche” altrove
esternate, si risolve in questo complesso sentire, che ne richiede per
l’appunto la solenne monumentale grandezza.
La “maniera” di Michelangelo in Raffaello, così invece seguitano le immarcescibili considerazioni che valutano tale opera. Allora caliamoci fra i rapporti, voluti stretti, tra questo affresco e la volta della Sistina. Il Profeta, similmente -ma non pedissequamente- ai Profeti e alle Sibille della Cappella vaticana, viene raffigurato in un marmoreo stallo fra due putti che ne sottolineano l'aspetto architettonico (immagine 44).
La “maniera” di Michelangelo in Raffaello, così invece seguitano le immarcescibili considerazioni che valutano tale opera. Allora caliamoci fra i rapporti, voluti stretti, tra questo affresco e la volta della Sistina. Il Profeta, similmente -ma non pedissequamente- ai Profeti e alle Sibille della Cappella vaticana, viene raffigurato in un marmoreo stallo fra due putti che ne sottolineano l'aspetto architettonico (immagine 44).
Immagine 44: Raffaello: Profeta Isaia
Se
da Michelangelo sembrano provenire il dinamico bilanciamento delle membra nella
massa della figura nonché il vigore e l’energia di movenza, parimenti questa
ricerca di grandiosità è già iscritta nello stile del Sanzio, perciò le
braccia, i polpacci, lo scoperto ginocchio ne confermano consapevolmente i
versi, sul pilastro in S. Agostino appariscenti e “michelangioleschi”, per dare
un corpo che illustri la potenza profetica, altresì in chiave di fisica
autorevolezza. Rimane cosicché un diluito dettaglio formale; la figurativa soluzione
adottata va ricondotta nella temperie che della " inventio
“ne rappresenta il Cinquecento (e il futuro Seicento) conquistando rilievo maggiore,
teso tragitto per superare -laddove brilla inventiva artistica- schemi
iconografici cristallizzati, “via regia” delle ispirazioni sia di Raffaello sia
di Michelangelo sciolte nei loro elementi compositivi.
La
pittura michelangiolesca si distende seguendo una traiettoria di segni in moto,
tra sollecitazioni di schietta fantasia e letterarie, tra rimandi a un antico
privo di storicità e se la storia si affaccia sulle scene dipinte rimane aurorale,
mentre le citazioni bibliche risalgono un’universalità, mitologica, confitta da
psicologica drammaticità; le tristezze sono prigioni nell’anima, che pur
palpita di sensualità, impeti di gesti d’impenetrabili volumi in ardite pose,
tumultuante fiumana in gorghi di vuoto e di audacissimi scorci. L’esito, di
tale possanza estrosa, trasforma la nitida lezione disegnativa e plastica della
sua epoca, acquistando una singolarissima libertà pittorica, che amplia,
altresì con impetuosi conflitti di luce e di ombra, la corporeità e gli
atteggiamenti dei personaggi. Rigorosa e rigogliosa grandezza delle forme, che
vi si trasferiscono superando canoni di proporzionalità.
Raffaello
-aggiungo e richiamo come in altra parte descritto- invece mira ad una forma
plastica intensamente diversa; l’antico si realizza con connubio di fogge, di
figure e di colori; una grazia compenetrata nella natura, idealità dell'arte
antica che diventa composizione nuova, sorpassando lo, sterile, contenimento di
rispondenze anatomiche immutate da asfissianti canoni; non maneggia pertanto un
traslato di espressione figurata, un trasferimento di forme antiche in
riproposta veste, in realtà muta. Lo cifra stilistica raffaellesca aleggia con
soffio di viva sensazione cromatica, nello slancio di risuonante luce, nel
calore di onde iridate -ora docili ora energiche- che dell’essenza della realtà
sensibile ne esprime il respiro, con sodezza di impasti schietti e fioriti e
con delicata acme. Immagini disegnate con andamento curvilineo, eliminando ogni
stantia disposizione orizzontale; i personaggi sacri sebbene idealizzati si
abbigliano di palpabile supremo alito. Le impaginazioni sono espressivo intenso
registro e spesse volte equilibrio monumentale; seppure la serena
meditazione intellettuale albergherà sempre nel suo linguaggio pittorico,
questo ha ingegnosa forza per affrontare concitate azioni e mossi sfondi, con
ampiezza e voluminosità di effetti per rappresentare eventi drammatici,
spettacolari.
Sul
nobile confronto tra i due titani, si addentra Pietro Bembo nella pagina introduttiva del suo
trattato dialogico, Prose della volgar lingua, iniziato nel 1515 e
pubblicato nel 1525, dove esalta ugualmente Raffaello, pittore e architetto, e
Michelangelo, scultore e pittore, per la loro abilità di rifarsi alle
impareggiabili opere dell’antichità: “amendue sono ora così
eccellenti e così chiari, che più agevole è a dire quanto essi agli antichi
buoni maestri sieno prossimani che quale di loro sia dell’altro maggiore e
miglior maestro”.
Posando di nuovo gli
occhi sull’Isaia (richiamata immagine 44) se ne nota l’età matura; l’immagine
effonde una nobiltà “organicamente” eroica e straordinaria nella colossale, piuttosto
severa, penetrante concentrazione spirituale, tracciata con tersa forza icastica. Stesure poetiche, vibranti di luce, dimorano nello spazio anteriore
del pilastro come composito fluido, incomprimibile sulla sezione diagonale architettonica (immagine 45, seguente).
Il
volto profetico (immagine 46) appare estromettere ogni emozione, assumendo
carattere -inconsueto ed unico esempio in Raffaello- di quello
astratto ideale di bellezza classica, così inopinatamente simile allo “spirito”
compositivo della sottostante Vergine di Andrea Sansovino (richiamata
immagine 42), appalesando il collegamento di idealizzazione di tutta la
struttura figurata, consona al progetto del committente pur estremizzando
la visuale.
Immagine 46: Raffaello, particolare dal Profeta Isaia
Sembrerebbe quindi esaurirsi l’affresco nella figura mastodontica del
personaggio biblico, però la mistione, fra sacro ed elaborazione artistica
elevata, costruisce un’indelebile firma personale di Raffaello, che non può
esiliarsi -altresì in tale lavoro- in uno schema ottenuto per astrazione
modellata. La straordinaria eloquenza del “mondo sensibile”, del Bello quale
Bene si esprime, con metrica euritmica, anche nell’Isaia mediante
immagini che sembrano essere meramente ornamentali: i due putti reggi tabula (richiamata
immagine 44). Motivi plastici presenti anche in mani di molti altri artisti, si osserverà che, medesime raffigurazioni, scandiscono la
base dei pennacchi della Cappella Sistina (immagine 47), ma la relativa
caratura pittorica ne mostra la differenza. Nell’ambiente vaticano esse sono
eleganti decorazioni, in quell’immenso superbo spazio affrescato, come difatti
esplicano le canoniche diverse pose di reggi targhe; allo stesso modo si
manifestano i monocromatici putti (immagine 48), in foggia di cariatidi
(in differenziate pose e in coppie formate dai due sessi), ai lati delle
“marmoree” scranne dei Profeti e delle Sibille, dipinti nei riquadri laterali
della volta
Immagine 47: Michelangelo: Cappella Sistina, un putto della volta
Immagine 48: Michelangelo: Cappella Sistina, putti monocromi
I due putti raffaelleschi invece sono interpretazioni di naturalezza con
movenze e rapporti fisici di armoniose reciprocità. La figura a destra (immagine
49, seguente) è disposta in uno spazio stretto, oltre che dal cartiglio, da un ampio
lembo del panneggio del Profeta, su un chiaro
sfondo ammorbidito da sfumante chiaroscuro, che blandisce la fronte del putto,
cui gli occhi sono materiale espressività, temperamento di tangibili argute
linee plastiche.
La figura a sinistra è la imprevedibile gemma dipinta (immagine 50, seguente);
campeggiando sul fondo con misurata dolcezza, emana un libero ritmo che
mirabilmente si accorda col delicato gioco chiaroscurale.
Il
Bello privo di languidezza e di retorica idilliaca presa, realizzato con forma
di movimento realmente compiuto, nel mobile trascorrere, sull’incarnato, della
luce e dell’ombra. Complesse e sottili pennellate ne foggiano la morbida capigliatura,
il volto ha pura forma, l’espressione tutta sembra afferrare un respiro
accresciuto, le linee circoscriventi i fianchi sono maggiormente ondulate,
modellando pronunciate convessità nel corpo sino a originare una maggiore evidente
muscolosità.
Termino
questo post con un’ideale affettiva dedica a Raffaello, nella ricorrenza
della sua morte: bellezza di incessante parola che slega l’anima quando pronuncia
la sua lena; beltà alata e luminosa nel mistero di amare, sognare, cimentare, vibrare
e altro sentire di una brillante mai doma individualità, che effigia elevata
sembianza all’esistenza, nei raggi veri del bene assoluto che tu,
dall’eternità, sveli.
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