Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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giovedì 6 dicembre 2018

Girolamo Siciolante, detto da Sermoneta: Vergine col Bambino in trono con S. Giacomo il Maggiore e i Ss. Eligio e Martino di Tours vescovi, pala dell’altare maggiore della Chiesa di S. Eligio de’ Ferrari


Tra i “cammei artistici” poco conosciuti in Roma, che pur rilucono nella loro appartata dimensione, la Chiesa di S. Eligio de’Ferrari ne conferma l’aulica ed eminente dignità.
La sua genesi si volge al 1453, quando papa Niccolò V concede al sodalizio dei fabbri-ferrari, formato da un considerevole numero di artigiani fabbri già costituitisi in Università, la zona dove sorgono due minuscole chiese in rovina, dedicate una a S. Giacomo il Maggiore e l’altra a S. Martino di Tours, in seguito titolate -1548, circa- ai Ss. Eligio, Giacomo e Martino. Tali edifici cultuali sono restaurati e, successivamente, abbattuti per l’edificazione di un unico tempio (1561-1562) con annesso ospedale, in cui l'assistenza sanitaria è rivolta ai membri, di tale “associazione”.
L’Università dunque intesa come corporazione di “arti e mestieri”, vale a dire un insieme di persone associate, che, tutelando i propri specifici interessi, producono oggetti, arnesi e così via, per essere prontamente utilizzati.
Il forte substrato religioso vivido nella Roma di quell’epoca, favorito dal suo particolare potere governante, permea altresì tale corporazione che ottiene, da papa Gregorio XIII, il riconoscimento di Pia Società e, quindi, di Confraternita (1575). In essa si formano, in breve tempo, altri similari sodalizi tanto da essere elevata, in seguito, ad Arciconfraternita.
Innalzata perciò la nuova chiesa, il suo interno viene abbigliato di ornamentazioni, che subiscono sostanziosi interventi tra il 1639 e il 1640, quando il presbiterio è oggetto di interventi architettonici -diretti soprattutto da  Giovanni Battista Mola- che distruggono gli affreschi realizzati, nel 1563, da Girolamo Siciolante,  detto da (o il) Sermoneta (1521-1575). Questi lavori di trasformazione edificatoria, di tale spazio, risparmiano soltanto la pala dell’altare maggiore, dipinta dal medesimo pittore intorno al 1564, raffigurante la Vergine col Bambino in trono con S. Giacomo il Maggiore e i Ss. Eligio e Martino di Tours vescovi.
Si colloca, questo dipinto (olio su tavola), nell’ambito della sua attività pittorica dedicata alle ancone, così preminente dagli anni Sessanta del XVI secolo, come, ad esempio, mostrano la Decapitazione di S. Caterina d’Alessandria (1567, circa) nella Cappella Cesi (la prima della navata sinistra) della Basilica di S. Maria Maggiore, e la  Crocifissione (1573, circa) nella Cappella Massimo (la terza della navata estrema destra) della Basilica di S. Giovanni in Laterano.
Imponente rappresentazione, questa di S. Eligio de’Ferrari, eseguita con colori vivaci, apparentemente semplificata rispetto alla pala absidale eseguita, a Bologna, in S. Martino Maggiore (1548), cui la struttura generale appare originarsi, con un linguaggio che, pur palesandosi maggiormente incline al carattere devozionale, possiede sostanza di summa felicissima, aderente ai principi dettati dal Concilio di Trento (1545-1563) e perciò propri della Controriforma. Culto espresso in tale pittura che, adornandolo sapientemente, lo interpreta con brillante mano.   
La cifra stilistica del Sermoneta s’impernia sulla consistente saldezza delle figure e sulla distribuzione dei volumi dell'impianto compositivo. Una sua perspicace “attitudine classicista” pronuncia un accorto apprendimento del linguaggio plastico – soprattutto della scuola emiliana – esposto nelle pale d'altare realizzate alla fine del Quattrocento.
Della sua opera bolognese ne riprende il solido assetto architettonico, ripartito su due piani, confermando accenni michelangioleschi mediati per mezzo di un personale disegno, che ben scandisce i caratteri volumici dei personaggi, raffigurati all’interno di uno spazio creato quale diretto rapporto, coerente, con la visione dell’insieme dipinto. Pittura a tratti monumentale e lievemente scultoria, rigorosa ma, nel contempo, attentamente ponderata e abile nello svincolarsi, in gran parte, dalla esile e astratta “temperatura espressiva” di molte opere uniformi, con monotona pallidezza figurativa, ai dettami controriformistici.  
Poetica classicheggiante, come già osservato, stesa, dal “nostro” pittore, con un’accezione di morbide gradazioni cromatiche e di capace, seppur contenuta, spazialità, come efficacemente dimostra, al centro del quadro, il “coro” dei quattro piccoli cherubini, tra un’aperta verde cortina dai bordi aurati. Il volto, assorto, della Vergine esprime una dolcezza disgiunta da qualsiasi affettata solennità, mentre il Bambino sembra condurre, con calibrata vivacità, le movenze plastiche degli angeli.
La compattezza del dipinto è alquanto mantenuta nella parte inferiore, avvertendone una certa difficoltà di impostazione per un’algida magniloquenza che vi affiora, sebbene non in modo continuato. I Santi sono disposti ritti, ai piedi del soglio della Vergine col Bambino, eccetto S. Eligio, inginocchiato (al centro) col suo pregiato abbigliamento vescovile, implorante l’aiuto divino; atteggiamento di colma umiltà, lui, il Santo patrono degli artigiani dei metalli (oltre che degli orefici e argentieri) cui la Chiesa è dedicata, è mostrato dimesso e supplicante in stretta osmosi con il piegato povero personaggio, il mendicante – il “povero di Amiens” cui S. Martino ha donato la metà del suo mantello – scarsamente vestito e rivolto, ovviamente, allo stesso S. Martino (posto sulla destra), anch’egli vescovo, come attestano le sue ricche vesti.
Se l’imponenza di tali figure, sottostanti, può apparire declamatorio, il linguaggio dell’opera intende risaltare in tal modo, con ottima efficacia, la preminenza, in questo caso, della virtù teologale della carità, sentita quale vero e concreto sentimento, sopra il quale troneggia, per l’appunto, la Vergine col Bambino. Maestoso è pure il personaggio ritratto a sinistra, S. Giacomo il Maggiore, nella caratteristica severa posa con i suoi attributi più consueti, il Vangelo e il bordone stilizzato (il bastone dei pellegrini). La scena quindi rappresenta i tre Santi ai quali la storia cultuale del luogo è unita.
Nonostante una parziale staticità ingessa questi personaggi, la raffigurazione nell’insieme attesta una brillante gamma cromatica e un notevole linguaggio plastico, ove, inconfutabilmente, ogni elemento è definito con nobili pose e con arguto ritmo, esplicita maestria di armoniche incastonature dipinte nell’organismo delle opere eseguite dal Siciolante. Reale sensibilità pittorica, benché si riveli pregna di abili preziosità figurative, la quale media acutamente con il pressante obbligo narrativo, richiesto dalla committenza religiosa scaturita dalla Controriforma. 

   




         



lunedì 24 settembre 2018

Il Martirio di S. Lorenzo di Pietro da Cortona, pala dell’altare maggiore in S. Lorenzo de’ Speziali in Miranda


Tra i culmini del linguaggio barocco, Pietro da Cortona (Pietro Berrettini, 1596–1669) ha già attraversato le righe questo blog, soprattutto con il post (25 febbraio 2015) circa la sua presenza architettonica nella fabbrica di Palazzo Barberini, oltre a essere ampiamente citato sia in quello dedicato a Cosimo Fancelli (20 dicembre 2014, la pala marmorea, Sacra Conversazione, dei sotterranei della basilica di S. Maria in via Lata), sia quello rivolto a Giacinto Brandi (20 ottobre 2016, il dipinto Martirio di S. Andrea, conservato presso la medesima basilica).

Con questo scritto l’attenzione si volge alla pala dell’altare maggiore, Martirio di S. Lorenzo, preziosa testimonianza artistica, nella chiesa di S. Lorenzo de’ Speziali in Miranda, quasi celata in tale aulico e discosto ambiente.

La genesi e lo svolgimento storico, con riferimenti nell’arte, inerente a questo Complesso architettonico ha costituito l’introduzione al post (20 febbraio 2015) incentrato sulla tela, Annunciazione, di Alessandro Fortuna. Per comodità di lettura, integralmente lo riporto di seguito.
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Il complesso di S. Lorenzo de’ Speziali in Miranda formato dalla chiesa e dagli annessi locali –uno dei quali adibito a museo- appartiene al Nobile Collegio Farmaceutico, l’Universitas Aromatariorum Urbis; esso costituisce il portato di una “metamorfosi” pronunciata nel corso dei secoli, che dal tempio di Antonino e Faustina (141, circa) conduce all’attuale aspetto architettonico, il quale ne definisce la particolare monumentalità tra il contesto ambientale dell’area del Foro Romano.  
Il mutamento da edificio consacrato a quegli antichi “divi” a chiesa risale al 630 circa, –ma secondo alcuni studiosi la trasformazione avviene all’inizio del secolo VIII- per volere del papa Onorio I (625-638), ricordato per la sua intensa attività nel campo delle opere pubbliche e religiose. Il tempio diviene quindi ambiente cristiano dedicato a S. Lorenzo diacono, in quanto si crede che sia adiacente al luogo del suo martirio (258). L’appellativo “in Miranda” o “de Miranda”, cui la più antica citazione è documentata nel secolo XI, deriverebbe dal verbo “mirare” –dal tardo latino “guardare con ammirazione”- il Foro. Un’altra voce indica che “Miranda” sia, in realtà, il nome della fondatrice di un monastero sorto proprio in questo sito.
Papa Martino V (1417-1431), nominato “Temporum suorum felicitas” (Felicità dei suoi tempi), per la sua azione di “riedificazione” -anche culturale- della città, con la bolla del giorno 8 marzo 1429, concede la chiesa di S. Lorenzo, quasi in rovina, all’Universitas Aromatorium Urbis, vale a dire in favore a quel Collegio di Speziali dedito alla preparazione di medicamenti a base di erbe, di altre essenze vegetali, di polveri minerali e, per l’appunto, di spezie derivate da sostanze vegetali secche anche profumate. Poiché l’edificio preesistente non può essere utilizzato quale piccolo ospedale, ne viene demolita l’intera struttura (preservando gran parte degli elementi architettonici romani superstiti), sostituita quindi da quella quattrocentesca, formata da un nosocomio e da un minuto luogo di culto.
Nel 1536, in occasione della visita di Carlo V, sono demolite alcune case e chiese edificate tra le spoglie del Foro Romano, per aprire la strada costruita per il corteo imperiale (alla realizzazione della quale il popolo contribuisce con il pagamento di una tassa), nella zona il cui aspetto deve apparire degno –per quanto all’epoca possibile- dei trionfi dell’antica Roma; per questa ragione sono abbattute, nell’area del complesso di S. Lorenzo, sia tre cappelle occupanti il pronao dell’antico tempio, sia una parte dell’ospedale del XV secolo.
La nuova temperie artistica-culturale che pervade la “Città Eterna”detta altresì la ricostruzione, d’incipiente registro barocco, di questa chiesa, la quale appare interrata, come tutta l’area del Foro, a causa delle secolari inondazioni del Tevere, –non dimenticando la stratificazione derivante dalla plurisecolare attività umana- le quali con i residui di rocce, di pietre e di fango indurito hanno innalzato il terreno, coprendo in gran parte le vetuste rovine. Il progetto è affidato a Giacomo Della Porta, alla cui morte (1602) succede, come direttore dei lavori, Orazio Torriani che ridisegna l’impianto architettonico dell’interno -nonché dell’altare maggiore- e la facciata. Egli innalza di sei metri circa il livello della costruzione e completa il primo ordine del prospetto poco avanti al 1616; il secondo ordine e il frontone vengono ripresi e terminati- con marginali modifiche del disegno originario- da Matteo Sassi tra il 1721 e il 1726. La figura planimetrica del nuovo luogo di culto (navata unica con cappelle laterali) percorre l’intera larghezza della cella del tempio romano, mentre la lunghezza, ristretta posteriormente dai vani restanti dell’ospedale del ‘400, non occupa per intero il perimetro della cella stessa ma incorpora le prime colonne del pronao templare, prostendendo lo spazio interno verso il Foro. L’aspetto nell’insieme, però, risulta molto simile a quello dell’edificio romano –come dimostra la mancanza dell’abside- giacché i lavori del XVII secolo non ne mutano la struttura complessiva.
L’insieme della facciata ne mostra l’ardita creazione, comprendente le lesene con capitelli ionici, il portale con timpano arcuato e la finestra creata sotto il superiore grande timpano curvilineo spezzato. Poiché tale prospetto è posto dietro alle colonne frontali, quest’ultime in tal modo sono trasformate in un portico.
L’interno della chiesa rappresenta un raccolto e pregevole patrimonio pittorico, come palesano le opere esposte, tra le quali cito “S. Caterina da Siena bacia il costato di Cristo”, attribuita a Francesco Vanni (1563–1610) ma da alcuni studiosi ascritto a Giovanni de’ Vecchi (1536 - 1615) di cui il Vanni è stato allievo. Ho incluso la descrizione, di tale quadro, nel post (pubblicato il primo dicembre 2014) di commento alla mostra “I Papi della Speranza”, poiché compreso in quell’evento.
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Raffigurazione barocca che s’incardina sull’unica navata dell’edificio cultuale, l’altare maggiore si eleva con binate colonne striate, -in marmo verde africano- con pulvini e cimase, troneggiando l’ambiente con timpano dentato e spezzato, sino a ergersi ancor più in alto con il fastigio, -dal piccolo frontone triangolare racchiuso in uno arcuato- quale coronamento dell’organismo architettonico. In tale ambiente, il Martirio di S. Lorenzo, intensamente manifesta il proprio spazio pittorico, estraneo a un’imbolsita decorazione, dove al contrario i personaggi possiedono il respiro di coinvolgente movimento.
Pittura eseguita nella tarda sua maturità, tra il 1655 e il 1656, quando il Berrettini ha già compiuto, dal 1651 al 1654, la trasposizione pittorica dell’Eneide rappresentando le Storie di Enea, nella Galleria principale, adagiata nel piano nobile di Palazzo Pamphlj, innalzato a piazza Navona, cui in diversi tratti la resa cromatica del “Martirio”è assai prossima, confermandone l’esecuzione nel periodo prima indicato, non apparendo coerente, altresì per tale osservazione, l’ipotesi, sostenuta da alcuni, secondo la quale il lavoro in S. Lorenzo de’ Speziali sarebbe databile al 1646, anno di completamento dell’altare maggiore, successivamente al suo soggiorno a Firenze (1640 – 1646, circa). 
Accostiamo ora il nostro attento sguardo all’opera, iniziando a “indagare” lo sfondo, caratterizzato da un paesaggio che diffonde un, basilare, raccordo iconografico con il soggetto espresso, dimostrando ulteriormente la cortoniana specifica attitudine a raffigurare un’efficacissima ampiezza paesaggistica, tanto estranea al descrittivismo come appare distante, ad esempio, da quella sorta di moderato naturalismo, svolto entro una definita cifra classicista, proprio del Domenichino che mutua, con magistrale personalità, il linguaggio di Annibale Carracci.
Lo stile del Cortona quindi non comprende quel senso di levigatezza atmosferica, all’opposto egli stende pennellate di ricolma materia, come si mostrano, richiamandoli alla memoria quali esemplificazioni, le arboree fronde nei dipinti Trionfo di Bacco, (1624 circa, seconda versione; Musei Capitolini, Pinacoteca Capitolina), Angeli segnanti la fronte a coloro che devono essere illesi dai flagelli (1652; Collezione Fondazione Roma). Nella pala in S. Lorenzo de’ Speziali semmai si nota un alleggerimento visivo dei colori, che, riguardo allo sfondo, rivela pennellate quasi sintetiche, suggerendo, con rinnovato e formidabile accento, quei toni stesi nel suo iniziale periodo creativo, come attestano, rammentandoli come altri esempi, i lavori Vergine col Bambino e i Ss. Giacomo il Maggiore, Giovanni Battista, Stefano I papa, Francesco (1628; Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona), Attentato alla fede di S. Bibiana 1624 – 1626; Chiesa di S. Bibiana, Roma), cui alla parte prospetticamente più lontana, tenuamente disegnata, sembra, in qualche tratto, richiamarsi l’opera oggetto di questo scritto.
Le chiome degli alberi, in questo “versante”, sono moderatamente agitate in senso orizzontale, mentre la cerula volta contiene fulminee nubi capienti, come se il dramma raffigurato stesse iniziando a scuotere il cielo, dal quale un piccolo cherubino discende per porgere, al Santo, la corona e il ramo di palma del martirio. Ma l’insieme atmosferico si arresta vivo, sospendendosi tra i particolari archeologici, tanto cari all’artista, caratterizzati da pilastri tuscanici, (adattamento dell’ordine dorico, derivato dal sistema architettonico etrusco), evidenziandone una luminosa spazialità dell’impianto pittorico, che rende diafano il timpano annunciante un lontano tempio, sul quale si eleva un’indefinita, prospetticamente corretta, figura di antica divinità, sottintendendo l’immobile vacuità del culto pagano. Fissità cui è opposta l’azione vivida raffigurata nella scena, che esplicita il vigore effuso dalla fede cristiana, espressione trionfante della verità spirituale. La maestria del Berrettini -virtù dei grandi autori– benché si esplichi, come in questo caso, nell’ambito di una committenza della fede, s’innalza al di sopra del suo caratteristico fine, avendo l’abilità di rendere leggibile la rievocazione ritratta della vicenda del campione della cristianità, per muovere ad accentuata devozione l’osservatore, attraverso però una reale plenitudine e consistente saldezza, tale da esprimere una sua slegata ed eccelsa poetica.
Pala ricca quindi di effetti pittorici resa con un “codice” compiuto, certamente barocco, nell’enfatizzare la teatralità dell’azione raffigurata. Una scena intesa drammatica pregna di dettagli, cui la pittura tuttavia si discosta dalla fitta corposità cromatica del Cortona, sviluppando, in tale “segmento” della sua esistenza anche artistica (tarda maturità) – questo dipinto parzialmente lo dimostra – un’attitudine a schiarire e ad attenuare i colori, utilizzando una gamma di lievi graduazioni di tonalità anche soffici e impregnate di luce, concretando in questo modo una tangibile e notevole ricchezza di riflessi e di colori iridescenti, i quali ammorbidiscono il suo linguaggio creativo, così intenso e spettacoloso, interpretato quale sistema rappresentativo della forza generatrice, agente in enormi volumi, in arditezze prospettiche.
Un energico sentimento drammatico, la predilezione per le strutture architettoniche (lui, ingegnoso architetto) riecheggianti altresì “l’antico”, l’equilibrato assetto figurativo che rifiuta un unico personaggio: qualità presenti in ogni opera del Berrettini, che coerentemente sostiene creando molte figure e, spesso, molte scene in loro compiute e innestate nell’azione principale, combinate intorno al tema principale, -analogamente all’orditura del poema epico- e, nel medesimo attimo, avviluppandole nel ritmo e nell’armonico palpitio che le cattura.  Infatti, il personaggio centrale, S. Lorenzo diacono, -rappresentato con la dalmatica, paramento liturgico specifico dei diaconi e dei vescovi, in uso dal III secolo- esprime proprio quel carattere “eroico” nell’incipiente e articolato atto del suo martirio avvenuto, secondo la tradizione, nel 258 sotto l’imperio di Valeriano.
La soluzione pittorica mostra lo sfondo su cui s’incardina su effetti atmosferici, -già antecedentemente osservati - su cui si stagliano le immagini, palesandosi dunque nitidamente, a contorni ben marcati sopra la parte pittorica di fondo che appare così più lontana e quasi indefinita. I movimenti delle figure si svolgono dinanzi agli elementi architettonici prima descritti, spazi voluti come unica disserrata quinta teatrale, aperta delimitazione prospettica su cui la scena viene distesa. La consapevole e personale reminiscenza della cultura classica non si consuma in un formale desumere, in studiate narrazioni artificiosamente erudite, poiché il Cortona estrinseca una pittura liberamente mobile.
Alla brillante complessa trama decorativa, scaturita dalla grande nobile abbondanza di personali modelli e d’immaginazione cortoniana, insieme contrassegnato dall’evidente luminosa spazialità dell’impianto pittorico e dai contorni anche più gradatamente sfumati senza stacco, si contrappone armoniosamente un sistema del disegno ripartito attraverso cambi di cadenza, spontanei virtuosismi incentrati sull’esposizione di elementi differenti.
Se la cromia si distingue per quel poetico fare tra possente impeto e morbide sfumature, il gigantismo dei personaggi evoca l’eroica grandiosità e l’imponenza del tema raffigurato, autentica gesta, impresa gloriosa del Martire colto nella sua augusta presenzialità, –che liricamente lo “ristabilisce” reale- viva e intrepida, così forte da piegare a tale verso la densa ricchezza ornamentale, altrimenti muta, estesa in tutto il dipinto.
Personaggio quindi valoroso, S. Lorenzo, seppur abbigliato con adorni paramenti, privo di qualsiasi accenno ieratico, è l’antico eroe impavidamente volto alla morte, al termine della sua gloriosa impresa, –in tale episodio l’attiva testimonianza della fede cristiana– gesto non di rassegnazione ma di estrema vittoria che ne eterna il ricordo; in guisa di “nuovo Ettore” affronta la tremenda fine della sua esistenza terrena (la graticola che sarà subito accesa).
Intorno, collocati come una mortifera danza, concitate figure, nella maggior parte invase da comprensibili scuri, stringono il generoso Diacono, scevro di odio benché ne sia così circondato ma non sopraffatto. Disegnate immagini perse nell’ignavia, come attestano gli atteggiamenti, distratti, dei due personaggi posti, più in alto degli altri, alla destra della pala; figure prese dalla bruttezza (interiore) sino ad assumere lineamenti volutamente caricaturali, prossimi allo scimmiesco, manifestato dall’aguzzino impugnante la torcia, ritratto sulla destra molto vicino a S. Lorenzo, cui l’aperta mano non “declama” una rinuncia, ma è volta verso l’interminabile bellezza divina.         
   

S. Lorenzo de' Speziali in Miranda: navata verso l'altare maggiore

 
Pietro da Cortona: Martirio di S. Lorenzo
Immagine tratta da "Google Immagini"

 


sabato 23 giugno 2018

La Pietà, affresco di Perin del Vaga in S. Stefano del Cacco: considerazioni


La Chiesa di S. Stefano del Cacco sorge nello spazio occupato, in epoca romana, dal tempio di Iside e Serapide, l’Iseum Campensis, vale a dire del Campo Marzio. Il toponimo Cacco, che appare verso la fine del XV secolo, deriva da una statua rinvenuta in quei pressi, raffigurante il dio egizio Thot effigiato, in questo caso, con la testa del babbuino in luogo dell’ibis, animale a lui sacro, come viene maggiormente raffigurato. Questa rappresentazione ha determinato il nome del luogo. Infatti, il popolo romano, nei tempi trascorsi, appella ogni singola scimmia “maccacco” e dunque nella forma accorciata “cacco” discende il toponimo dell'area. La scultura, frammentaria, del “Cacco” oggi è conservata presso il Museo Gregoriano Egizio in Vaticano.

L’originario edificio cultuale, molto probabilmente, viene innalzato durante il pontificato di Pasquale I (817 – 824) e titolato al protomartire Stefano. Successivi interventi edificatori avvengono nel corso del XII secolo, mantenendo la costruzione il suo primigenio impianto sino al 1564 quando è realizzato il monastero che ingloba il portico romanico. Profondi restauri sono eseguiti nel decennio 1607 – 1617 quando è distrutta l’ornamentazione dell’abside del IX secolo; tra il 1638 e il 1643 si concreta la trasformazione architettonica nel “gusto barocco” di tutta la struttura. Nel 1640, circa, è compiuto il prospetto, mentre dal 1644 al 1647 si realizza, all’interno del monastero oggetto di restauro, il corridoio, il refettorio e lo scalone. Successivi lavori, comprendenti altresì l’ingrandimento del convento, sono eseguiti per il Giubileo del 1725, giungendo così al periodo 1857 - 1865 quando è decorata la volta della navata centrale e posato l’attuale pavimento, parte di quello già collocato nella basilica di S. Paolo fuori le Mura, devastata da un incendio nel 1823.

Un sito quindi di dense successioni architettoniche e decorative, che all’interno si manifesta asimmetrico a tre navate con presbiterio soprelevato; lungo la parete della navata laterale destra è posto l’affresco della Pietà - ridipinto quasi completamente, nel XVII secolo, aggiungendo il paesaggio con il Golgota – fulgente opera di Perin del Vaga (Pietro di Giovanni Buonaccorsi detto il, 1501 – 1547) realizzata intorno al 1519, suscitando l’ammirazione anche di Giorgio Vasari il quale nelle sue celebri “Vite” scrive: ” Et in San Stefano del Cacco, ad un altare, dipinse in fresco per una gentildonna romana una Pietà con un Cristo morto in grembo alla Nostra Donna, e ritrasse di naturale quella gentildonna che par ancor viva. La quale opera è condotta con una destrezza molto facile e molto bella”.   

La raffigurazione è strettamente congiunta al tema già espresso da Raffaello (il nostro pittore è nella sua cerchia, in primario rilievo, nella realizzazione delle “Logge” in Vaticano) attraverso la Deposizione di Cristo compiuta nel 1507 (conservata presso la Galleria Borghese), che, a sua volta, sembra richiamare il Compianto sul Cristo morto del Perugino (1495; Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina), secondo uno schema iconografico all’epoca già molto frequentato. In effetti come non ricordare, in chiave di immagine archetipa espressa in differenti scenari, ad esempio la raffigurazione, - del medesimo soggetto - creata dalla mano di Luca Signorelli nel ciclo degli affreschi (1503, circa) della Cappella di S. Brizio o Cappella Nova del Duomo di Orvieto. Immagine quindi che riprende, attraverso le varie epoche ove l’arte manifesta la sua continua cifra, la figura di Meleagro, il mitologico personaggio, cui il corpo esamine disteso con un braccio abbandonato e pendulo viene ritratto in una vasta quantità di antichi sarcofagi. Infatti, confermando una scena pittorica piuttosto usuale, sebbene di efficace presa, egli disegna sullo sfondo, in minute dimensioni, un “Trasporto” quale fregio in monocromo, di un antico sarcofago, che palesa un indubbio passaggio da uno schema in cui pur si conferma la centralità della “Lamentazione” dinanzi al corpo, ormai privo di vita, del Messia, a un nuovo modello, per i tempi ardito, cui come soggetto è contemporaneamente rappresentato, soltanto come soluzione accessoria, quel “Trasporto” di Cristo, sorta di “trascrizione” ove la figura mitologica condotta al sepolcro è sostituita proprio da quella del Figlio di Dio.

Il soggetto del “Compianto” scaturisce però da una formula ben presente in altre opere, in Italia, già copiosamente realizzate nella tarda seconda metà del XV secolo e antecedentemente da un consolidato modello steso nell’Europa del nord e perciò già vivido, in altri territori, all’incirca negli anni trenta del medesimo secolo. Invero, la rappresentazione appellata Pietà descrive un episodio non contenuto nei Vangeli, vale a dire quel doloroso e insistente lamento della Vergine sul corpo del Figlio morto, vicenda composta dal sentimento appartenente alla forte devozione e alla salda spiritualità tedesca che pervade le “terre germaniche” nella metà del XIV secolo. Il braccio pendulo, definibile come “appartenente alla morte”, è perciò un elemento caratteristico e, secondo particolari prospettive, “autonomo” di questa reiterata scena, molto vivida in Italia comunque già negli ultimi decenni del Trecento. Come non rammentare, a tal proposito, il Compianto sul Cristo compreso in uno dei due pulpiti bronzei, gemme artistiche plasmate da Donatello (1460, circa), della Basilica di S. Lorenzo di Firenze e, riguardo al componimento della Pietà, non può non essere citato Michelangelo, che in quella Vaticana (1498 – 1499), coerentemente a quel sentire caratteristico dell’arte italiana, così distante dalla rigida e aspra espressività nordica, estrinseca con rinnovata classicità un registro immerso in un pensiero spiccatamente poetico. 

Se, in questo repertorio, i gesti di disperazione o di forte coinvolgimento emotivo appaiono ripetuti e quindi convenzionali, essi non sono che parte del linguaggio insito nei versi pittorici, come dimostra la Deposizione, realizzata da Giotto intorno al 1305 nella Cappella degli Scrovegni, in cui S. Giovanni mirabilmente afferma la sua inconsolabile e penetrante angoscia con il significativo gesto delle braccia violentemente distese  - quasi sussultanti - all’indietro, senza dimenticare i tre personaggi muliebri che sollevano dolcemente il Cristo, quasi accarezzandone le mani e i piedi. Come allora non guardare ancora più indietro e ammirare quell’acuto tormento, quelle disperate membra della madre scolpita (Strage degli innocenti, 1265 circa), da Nicola Pisano, nel pulpito della Cattedrale di Siena, titolata a S. Maria Assunta. Di questo scultore è imprescindibile il volgersi verso il suo capolavoro, che rifulge nel Battistero di S. Giovanni Battista di Pisa, il pulpito (1259 – 1260), che nel pannello della Crocifissione mostra una viva e dolente espressività esemplificata da S. Giovanni, che manifesta l’acuminata afflizione tenendo la mano fortemente sul petto, mentre la Vergine è raffigurata – posa all’epoca quasi inedita - sopraffatta dal dolore e quindi svenuta. Il pathos dunque espresso per mezzo di un’estesa caratterizzazione, svolta durante i secoli, che prescinde dallo studio di modelli inerenti all’età classica.

Prima di Raffaello perciò si sviluppa una tematica rinsaldata da molteplici luci artistiche, ma che sembra attendere un modello alternativo, creato per l’appunto dall’Urbinate. Un lavoro anticipatore di quanto egli poi concepirà, è rappresentato dall’incisione Sepoltura di Cristo (1470, circa), di Andrea Mantegna, oggi custodita presso la Pinacoteca Repossi di Chiari (Brescia). L’azione si evidenzia nel drammatico isolamento di S. Giovanni in dolente invocazione, supplica verso il cielo che non si abbandona alla rassegnazione, in un dinamico quadro ove i necrofori conducono le mortali spoglie del Cristo, sopra il quale uno straziante urlo, della Maddalena, disarticola le braccia in alto levate di questa muliebre figura.

Raffaello realizza la scena, della Deposizione di Cristo, in un nuovo insieme stilistico, intensamente sublime volendo esplicitare con vibrante senso plastico quel corpo morto, tramite un originale “Trasporto”, che nel pendulo braccio pone l’accento, pur nella lunga tradizione argomentata, svolgendo un assorbimento concreto di un modo antico originalmente ricreato: da Meleagro a Gesù Cristo. Arte della rappresentazione del morire, per mezzo di un’eloquente e luminosissima capacità pittorica, che suggella una nuova ed espressiva poetica.

Il “nostro” Perin del Vaga si staglia tra i giovani artisti attivi a Roma, in quella prima parte del XVI secolo. Tra i collaboratori di Raffaello è quello che mostra una brillantezza artistica e un’abilità creativa non comune. Nell’affresco di S. Stefano del Cacco affronta, la sua Pietà, con tratti michelangioleschi uniti a una notevole resa drammatica e a un’evidente agilità narrativa riconducibile alla cifra dell’Urbinate, malgrado ne tralasci il coinvolgente senso emotivo per esporre un’incisiva ornamentazione pregna di eccellente grazia.

L’ampio lacerto, che attualmente si vede, appalesa un esemplare modello iconografico volto a una concreta compiutezza, perfezione nella compostezza che ben modula la felice monumentalità di quanto ritratto, in cui solamente il vero, – aspetto della rivelazione salvifica- il bene quale bellezza vi albergano.

Questo dipinto raffigura al centro la Vergine che, con dolente dolcezza, accoglie nel grembo il corpo ormai preso dalla morte, come è risaltato dal braccio, morbidamente rilasciato, del Cristo; sulla sinistra un raccolto S. Giovanni accompagna il gesto della Madre del Messia; sulla destra la Maddalena inginocchiandosi con fare contristato delicatamente solleva l’avambraccio del Salvatore, mentre sulla destra Giuseppe d’Arimatea alza, mostrandoli all’osservatore, gli strumenti del supplizio mortale, vale a dire la corona di spine e un chiodo; chiude l’impianto figurativo, nel margine inferiore, la committente dipinta in un delicato palpitare.  

Di seguito sono le immagini, secondo diverse angolazioni, dell'affresco.









  
  

giovedì 17 maggio 2018

Francesco de’ Rossi, detto Francesco Salviati: l’ancona “Annunciazione” nella Chiesa di S. Francesco a Ripa Grande


Francesco de’ Rossi (1509, circa – 1563) nasce a Firenze e sin dalla giovanissima età è introdotto da suo zio orafo, Dionigi da Diacceto, nel relativo ambiente artistico, dove conosce Giorgio Vasari con il quale stringe inossidabile amicizia e, successivamente al percorso formativo avvenuto sotto la “direzione” di Baccio Bandinelli (1526 -1527), approda alla bottega di Andrea del Sarto (1529, circa). Dal 1531 al 1539 affronta il suo primo soggiorno romano - quasi subito seguito dal Vasari - presso il cardinale Giovanni Salviati di cui fa proprio il nome di famiglia (sarà chiamato altresì Cecchino del Salviati). Il porporato dispone che il giovane pittore “in Borgo Vecchio avesse le stanze, et quattro scudi il mese et il piatto alla tavola de’ gentiluomini”, come scriverà il medesimo Vasari nelle “Vite dei più eccellenti pittori, scultori et architetti italiani da Cimabue insino a’ tempi nostri”, che, in un altro passo del capitolo dedicato al Salviati, ne evidenzia l’impegnativa attività condotta in sua compagnia, volta a disegnare opere artistiche, sia antiche e sia a essi contemporanee, presenti nella Città Eterna: “ … ambidue di compagnia con molto profitto alle cose d’arte, non lasciando né in palazzo, né in altra parte di Roma, cosa alcuna notabile la quale non disegnassono.” Una lettura dunque che indaga soprattutto Michelangelo e Raffaello.

La sua cifra inizia così a svilupparsi in modo brillante, assumendo in sé antiche lezioni che trasforma, inizialmente, in versi interpretativi accademici non disgiunti però da un’oggettiva abilità pittorica e quest’ultima raggiunge il vertice nella Visitazione (1538) affresco eseguito nell’Oratorio di S. Giovanni Decollato, ambiente attiguo all’omonima Chiesa.

Tale notevole opera è preceduta da un’altra gemma dipinta dal “nostro” pittore, vale a dire l’olio su tavola, Annunciazione (1534/1535), troneggiante sull’altare della terza cappella di sinistra, che conferma le pregevolezze plastiche e architettoniche della Chiesa di S. Francesco a Ripa Grande. Basti rammentare, ad esempio, il monumento funebre della Beata Ludovica Albertoni del Bernini, o la pala S. Anna, la Vergine e il Bambino del Gaulli detto il Baciccia (o Baciccio), o ancora l’impianto edificatorio della Cappella del SS. Crocifisso attribuita a Carlo Fontana. Giorgio Vasari, a questo riguardo, asserisce che Francesco Salviati: “ … fece per la Chiesa di S. Francesco a Ripa una bellissima tavola … d’una Nunziata, che fu condotta con grandissima diligenza”.           

Incomprensibilmente l’identità del suo autore, nel corso dei secoli, cade nell’oblio benché, come si è letto, il Vasari citi il lavoro nelle sue “Vite”; solo intorno al 1951il dipinto è correlato al nome del pittore fiorentino.

Immune da un’ostentata affabulazione imitativa michelangiolesca, il quadro del tempio trasteverino percorre una “maniera” armonica, ben espressa che estrinseca un incipiente innovativo esito, come dimostra l’assetto di quanto vi è raffigurato. 

Un’ampia visione caratterizza l’insieme pittorico che comprende, nell’estremo piano sinistro un lieve affievolire di tinte turchine, mentre una monumentale struttura architettonica imprime equilibrata solennità allo sfondo. Pacata quindi appare la distribuzione compositiva seppur esplicitata con tratti estesi, sui quali appaiono morbide eleganti figure avvolte da una classica nobiltà.

Infatti, la figura dell’angelo mostra una tondezza del volto, enfatizzata dal capace mento, dal pieno collo in “posa allungata” e dalle gote dolcemente pronunciate, che accompagnano le lievi labbra quasi impercettibilmente schiuse. Il mosso panneggio è definito da timbri più marcati che non contrastano la sofficità dell’azione, i metallici azzurri semmai ampliano le pieghe delle vesti, come se quel tenue dialogo, dei due personaggi (la figura angelica e la Vergine), si rivestisse maggiormente di soavità, confermata dai leggeri rossi tessuti. Il colore sensibilmente condotto diviene rosa sulle ali dell’angelo sino quasi spegnersi in un soffuso marrone, bagliori che mutano aspetto ma da cui non sgorgano enfatici sussulti.

Il rosato pavimento striato di sereno grigio sembra svolgersi, con sapiente uso prospettico, in sezioni un poco oblique, donando profondità all’organizzazione visiva dell’ancona. Su di esso sporge “l’antico” sia nella visibile timida ombra che definisce le colonne, sia, in modo più netto, nell’intagliato leggio, echeggiando in lontananza sulla sinistra nel paesaggio di ruderi, dove una pura composita atmosfera di azzurri, di bianchi e di rosa avviluppano, con la loro certa trasparenza, ogni elemento.

Dio Padre, su una candida piena e ondosa nube, manifesta la Sua presenza con il teso braccio sinistro, quasi un’energica benedizione, priva di rigida solennità, tra un cangiante cromatico atto, che introduce la colomba sospesa in una sorta di docile volo.

Il viso della Vergine possiede un’espressione di reale purezza che non comprende una sterile concretezza formale; il Suo atteggiamento di colma grazia accoglie l’intervento divino, sottolineato dal grembo già lievemente gonfio, mentre il Suo sguardo di nobile consapevolezza è assorto, evidenziato dal sereno movimento reclino del capo, dalla bianchezza della pelle e dal gesto della mano sinistra, su cui una timida ombra lambisce parzialmente il mite palmo aperto.                 




sabato 3 marzo 2018

Giovanni Battista Maini: il monumento funebre di Antonio Publicola De Santacroce e Girolama Nari in S. Maria in Publicolis


La misconosciuta e quasi nascosta chiesa di S. Maria in Publicolis è situata nell’aerea limitrofa all’attuale Largo di Torre Argentina e all’odierna Via delle Botteghe Oscure, dove il Portico di Minucio si espandeva tutt’intorno a un’enorme piazza, al centro della quale si ergeva un tempio (non identificabile), costruito dal console Marco Minucio Rufo (Porticus Minucia Vetus) nel 110 a.C., pur se alcuni studi individuano tale ambiente intorno ai templi della - anche così denominata - Area Sacra di Largo Argentina.

Dopo il grande incendio dell’80 d.C. che devasta l’intera zona, avviene un’intensa attività edificatoria, che comprende altresì la costruzione del Porticus Minucia Frumentaria sotto l’imperio di Domiziano (81-96 d.C.), luogo deputato per la distribuzione gratuita del grano a favore del popolo.

La chiesa è menzionata nel cosiddetto catalogo Salisburgense, anteriore al 682, antico documento che cita i luoghi di culto della Roma cristiana e nel codice della biblioteca del monastero di Einsiedein (Svizzera) del secolo VIII, così come in un codice compilato durante il pontificato di Leone III (795 – 816), mentre nella bolla di Urbano III (1185 – 1186) è indicata, quale luogo sussidiario di culto di S. Lorenzo in Damaso, “S. Maria in (o de) Publico”, espressione latina (mettere a disposizione del pubblico) che rimanda, probabilmente, al ricordo dell’antico Porticus Minucia Frumentaria.

Durante il XIII secolo la famiglia Santacroce ottiene, su questo luogo di culto, il giuspatronato, vale a dire il diritto di proteggerla e di mantenerla, dotandola di beni patrimoniali dai quali essa (e soprattutto chi la gestisce) ne tragga rendite. Proprio per decisione dei Santacroce che, nel 1465, la chiesa è ampiamente restaurata.  

L’influenza di tale nobile famiglia romana, – sin dal 1250 definita nei regesti delle famiglie dell’Urbe come “antiquissima”- in questa area della “Città Eterna”, è così predominante da vantare la discendenza dal console Publio Valerio Levino (Publicola Valerius Laevinus), che nel 280 a. C. combatte con successo contro Pirro. Questa forte volontà di nobilitare maggiormente la propria origine, ricongiungendola all’antica Roma quale aulico lignaggio dei Valerii Publicolae, i Santacroce, intorno alla metà del XVI secolo, aggiungono al loro cognome l’altro di Publicola ed essendo anche i proprietari di un vicino palazzo, imprimo altresì alla chiesa il nuovo appellativo, che permarrà, in publicolis”. Nel medesimo periodo, Prospero Santacroce, viene creato cardinale di Santa Romana Chiesa da Pio IV nel 1565, mentre Antonio, suo nipote, lo diviene nel 1629 e Marcello, nipote di Antonio, lo è dal 1652, cui segue nel 1699, in questo alto titolo di prelatura, Andrea il nipote di Marcello.

Nel 1643 ormai fatiscente e preannunciando una tremenda rovina, la chiesa è demolita e riedificata per volontà dell’alto prelato, all’epoca ancora non cardinale, Marcello Santacroce, che ne affida i lavori a Giovanni Antonio De Rossi, che interamente la edifica.

Le trasformazioni avvenute altresì nell’ambito ecclesiastico cittadino, dovuto pur agli avvenimenti storici succedutesi (Repubblica Romana filofrancese 1798 – 1799; occupazione napoleonica 1809 – 1814), costituiscono i presupposti di quanto Leone XII, con l’enciclica Super universam del 1° novembre del 1824, compie circa la riforma della struttura delle parrocchie romane, già avviata da Pio VII, abrogando nei confronti di questa chiesa la “cura delle anime”. Tale attività religiosa si esplica nell’assistenza personale spirituale nelle differenti situazioni della vita pratica, attraverso la confessione, la cura devozionale, i colloqui e gli aiuti materiali; l’impegno pastorale è perciò attribuito alle vicine parrocchie dei Ss. Biagio e Carlo ai Catinari, di S. Maria in Monticelli e di S. Maria in Campitelli.

Nel 1858 la famiglia Publicola Santacroce consegna la chiesa a S. Gaetano Errico (1791 – 1860), fondatore nel 1833 della Congregazione dei Missionari dei Sacri Cuori, cui lo scopo è imperniato sulla diffusione della devozione dei Sacri Cuori di Gesù e Maria. La Congregazione ancora oggi officia la chiesa.

Un’unica navata accoglie il visitatore; spazio definibile come una grande cappella gentilizia, dove sono sepolti membri della famiglia Santacroce. Spazio che appare quale equilibrato e gradevolissimo armonico insieme.

Una piccola ma preziosa gemma artistica, che sembra congiungersi con l’altra, la pala dell’altare maggiore (Natività della Vergine, di Raffaele Vanni, 1660, circa), è concretata dal monumento funebre, all’inizio del lato sinistro della navata, eseguito da Giovanni Battista Maini (1690 – 1752) nel 1750, con le quasi “mezze figure” marmoree di Antonio Publicola De Santacroce e di Girolama Nari.

Il Maini è scultore che evidenzia, nei suoi lavori, eloquente finezza e brillante gusto con cui modella le figure scolpite. Vivaci combinazioni ritmiche e una raffinata trattazione delle superfici marmoree, realizzate con delicati tratti di ombre e di luci, personale trattazione del linguaggio tardo barocco mostrato con vivace e trepidante plasticismo.

La sua capace abilità creativa ed esecutiva è testimoniata, ad esempio, nel 1727 quando il principe Camillo Pamphilj lo incarica di compiere il monumento funebre – in S. Agnese in Agone - del suo avo Innocenzo X (1644 – 1655), il quale, oltre alla statua del defunto pontefice, comprende le due statue della Fede e della Giustizia (gruppo scultorio terminato nel 1730). Inoltre, nel 1728 è tra gli appartenenti all’Accademia di S. Luca e nel 1730 è indicato quale “primario scultore di Roma”. Tra i successivi incarichi affidatagli, spicca quello del 1731, che lo vede membro della commissione, esaminatrice dei progetti, per il nuovo prospetto principale della basilica di S. Giovanni in Laterano (esecuzione assegnata ad Alessandro Galilei). Proprio in quella Basilica innalza la sua somma opera: il monumento funebre del cardinal Neri Corsini (1733-1734), non tralasciando la preziosa statua bronzea di Clemente XII, posta nella medesima Cappella Corsini.

Abbandoniamo ora le vicende biografiche di questo scultore, che, quando “giunge” nella chiesa di S. Maria in Publicolis, è da molto tempo maestro di nobile fama e ormai prossimo a terminare il suo percorso di vita. Infatti, nel 1749 inizia a lavorare sulla “nostra” scultura completandola - tra diversi lavori cui si dedica- nel 1750 (egli morirà, come già in precedenza indicato, nel 1752).

Opera che echeggia, in tono molto minore e parzialmente, i personaggi defunti che assistono, quali viventi, all’Estasi di S. Teresa, uno dei magnifici culmini dell’acutissimo ingegno di Gian Lorenzo Bernini, che rifulge dalla Cappella Cornaro in S. Maria della Vittoria, completata intorno al 1652. Nella “nostra” chiesa la scultura del Maini evoca un organismo architettonico, una risplendente nicchia che espande lo spazio retrostante alle due figure principali, mentre ai lati della composizione due putti rappresentano il pungente dolore causato dalla morte, attraverso espressioni quasi contrapposte. Invero, quello di sinistra emana un sentimento di fonda ma controllata afflizione; al contrario quello di destra è compenetrato da un irrefrenabile dolore manifestato dal pianto, che sembra invadere la piegata mano sinistra. Il nero mortale drappo, su cui sono incisi i riferimenti ai due nobili defunti, è nella parte inferiore sollevato da un teschio, dal quale proviene tutto il movimento di quel panno che presto ricoprirà le sembianze di quei defunti, eppur ancora ritratti viventi.

La figura muliebre è presa da uno sguardo altro rivolto verso l’altare maggiore, una silenziosa preghiera, attestata dal libro delle ore - comprendente brani tratti dalla Sacra Scrittura, cantici, inni, preghiere, salmi e così via per la preghiera quotidiana - che saldamente tiene con la mano destra, fuoriuscente, come l’altra, da un lucido panneggio, lambito da un soffio leggero.

La figura maschile è ancor più protesa verso il fulcro del presbiterio, e il gesto della mano sinistra, posta sul torace dove pulsa il cuore, manifesta la sua vivida fede in Dio, la sua palese fiducia nella Vergine. Le sue ricche vesti, la nobile parrucca settecentesca ne sottolinea il blasone.

Dalla penombra sono queste sculture, con il loro bianco marmo, a catturare lo sguardo del visitatore; l’insieme scultorio riesce a sostanziare la commemorazione della famiglia Publicola De Santacroce, quale costante presenza nella vita del luogo di culto. Esempio ritrattistico proprio della storia dell’arte, dove si evidenzia un classicismo permeato di tardo barocco, combinata osmosi di diversi caratteri e tendenze entro un sistema compositivo, inteso quale fondamentale connessione tra le figure e l’ambiente circostante, ponendo in rilievo il pieno significato di quanto l’opera allude.      

  
 

 

 

 

 

martedì 23 gennaio 2018

Torquato Tasso: la sua presenza nel convento di S. Onofrio al Gianicolo


Immagine tratta da Google immagini: ritratto di Torquato Tasso, 1864, Giovanni Pezzotta, Bergamo, Accademia Carrara 
La chiesa e il convento di S. Onofrio, ancora oggi appartati e avvolti da un’aria altra, consegnano al visitatore perspicace un silenzio di eloquenti versi, tra mistiche memorie e luci di estri artistici sino ad accompagnare lo sguardo verso la loggia esterna, che mostra arcate, chiuse nel secolo XVIII e tamponate con riquadri rivestiti con stucco, parte dell'antico monastero attualmente sede del Museo Tassiano (Stanze Tassiane).   

In questi ambienti vuole far vibrare i suoi ultimi respiri, Torquato Tasso (1544 – 1595), ormai stremato da quella oscura malattia, che disfa la sua forza e perfora il suo nobile petto. Egli vuole essere lì, non in Vaticano, vicino a quella quercia dove raccogliendosi, la sua inquieta Musa, come si può immaginare, lo guida tra il suo strazio, il suo tormento, il suo affanno dello scrivere, del correggere, del cancellare e ancora ricorreggere, completare la Gerusalemme liberata, ora Gerusalemme conquistata, dedicata all’ultimo mecenate che accoglie il suo afflato, il cardinale Cinzio Aldobrandini, nipote del pontefice Clemente VIII (1592 – 1605). Il papa gli concede l’erogazione di una costante e cospicua somma di denaro, ma il morbo ha più forza di ogni sua volontà di vita, tale da impedire la sua incoronazione, quale poeta sommo, in Campidoglio, fulgente riconoscimento successivo a quello tributato al Petrarca, avvenuto tra l’8 e il 17 aprile del 1341. Infatti, nel marzo del 1595 il Tasso viene ospitato nel convento, all’epoca affidato ai Girolamini, morendovi il 25 aprile e le sue spoglie giacciono onorate nella chiesa, mentre la corona d’alloro, quale coronamento poetico, è posta sul suo sepolcro.

Poeti, scrittori, letterati visiteranno la sua tomba nel corso dei secoli sostandovi, come, per citarne alcuni, Johann Wolfgang Goethe (2 febbraio 1787), Giacomo Leopardi, il quale dal novembre 1822 al maggio 1823 è a Roma da dove scrive al fratello Carlo:” fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e unico piacere che ho provato a Roma”, François Auguste René de Chateaubriand, ambasciatore nella “Città Eterna” dal 1828 al 1829.    

Torquato Tasso dunque nella sua inquietudine e nella sua mutabilità di proponimenti, inflitte al suo animo già dal 1575, non appena ultimata la Gerusalemme liberata, in cui lo splendore lessicale affronta una sensualità incatenata alla coercizione estetica, quasi moralistica, sino a cedere a un contenutismo, a un’esacerbata ricerca della perfezione stilistica sfociando in un formalismo esteriore, che si ammanta di estenuante dolore.

Proprio l’intensa sofferenza però sprigiona quel moto che realizza quell’apice poetico, proprio del linguaggio tassiano, il quale acquista coscienza di quanto il mondo, con le sue creature umane, sia intessuto del canto dell’anima.

Roma accoglie il tratto del suo estremo impeto nel 1593, dopo averlo ospitato altre volte: 1576 circa, 1587, 1589 circa, - compone il Rogo amorosopicciolo poema pastorale”- 1590, 1591 circa.       

Il Rogo amoroso, steso per il nobile Fabio Orsini in memoria della sua donna amata, Corinna, morta improvvisamente, raffigura lo slegarsi dell’anima dai vincoli incardinati sulla dimensione umana, anima così libera nella divina luce, in quel regno di insondabile felicità. Contrasto tremendo con il tormentato acuto gemito dell’innamorato uomo (Aminta): ” Piangea dolente e sospiroso Aminta/lungo le rive del famoso fiume/che dividendo la città di Marte/già se ‘n portò nel suo profondo seno/ …/piangea Corinna in lacrimoso canto,/e nel pianto canoro i sette colli/rispondean Corinna”.

Nel silente spazio del chiostro, di S. Onofrio, sembra appalesarsi quella visione d’amore, del Tasso, individuata come fonte di qualsiasi impeto e di ogni certezza, che rendono vivida e distinta quella spessa virtù fondata sulla consonanza di intensa finezza, pur vibrante nell’esistenza umana, scandendo contemporaneamente – e in ogni istante - il dinamico processo, pregno di tensione, volto al soddisfacimento di quella sete individuale di affetti. Viaggio del sentimento, quasi onirico, talvolta contorto, impresso nell’animo dal desiderio di amanti ignorati o disprezzati, afflitti o smarriti in un sogno, cui la naturalità dei loro istinti abbatte però tutte le restrizioni.   


Verso il sagrato della chiesa, sulla destra la loggia (particolare) delle Stanze Tassiane

Il portico e la loggia (particolare)


Il chiostro

Il monumento funebre di Torquato Tasso (particolare), 1857, Giuseppe Fabris