Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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giovedì 5 dicembre 2019

Il “Ritratto di gentiluomo”: una visione dell’interiorità umana raffigurata da Lorenzo Lotto



Lorenzo Lotto nasce a Venezia nel 1480 (morirà a Loreto nel 1556); giunge a Roma alla fine del 1508, dopo aver eseguito notevoli lavori a Treviso e a Recanati. Nella “Città Eterna” viene chiamato nell’ambito dei cantieri voluti da papa Giulio II (1503–1513). Esegue affreschi dunque in Vaticano nella “Stanza dell’udienza” (1509–1510, circa), l’ambiente originariamente ideato per le udienze private del pontefice, oggi chiamato “Stanza di Eliodoro”. Il genio di Raffaello però sopravanza la capacità plastica del pittore veneziano, come quella di altri già impiegati nell’opera decorativa di quello spazio (Cesare da Sesto, Luca Signorelli, Bartolomeo Suardi detto il Bramantino); infatti, il papa rapidamente assegnerà, all’Urbinate, la decorazione dell'intera impresa durante la sua decorazione della “Stanza della Signatura” (1508–1511, circa), non indugiando a voler disfare quanto già eseguito dai precedenti artisti, interrompendone quindi l’opera. Attualmente però sono attribuite alcune sezioni, nelle arcate e nelle grottesche a quei maestri -Bramantino, Signorelli e per l’appunto il Lotto- antecedenti alla mano raffaelliana.
Con tale post voglio percorrere il sentimento che anima la ritrattistica del “nostro Lorenzo”, tralasciando perciò gli altri aspetti della sua magnifica arte, per la quale è altresì appellato “excellente pittor”.
Arte del ritratto, la sua, che esplicita una qualità elevata, rappresentando ciò che l’anima umana conserva, nutre in sé attraverso una singolare abilità di espressione introspettiva. Egli sa cogliere quella particolare vibrazione psicologica dell’uomo, il quale dalla profondità del suo sentire, per mezzo dell’atto pittorico, trascende il limite temporale in cui egli agisce, per consegnare il principio attivo delle sue facoltà interiori agli osservatori di epoche successive alla propria. Da questo principio scaturisce l’immagine che, l’insieme dei ritratti, nella loro ecletticità raffigurano l’animo dell’autore.
La sua ispirazione certamente assume diverse fasi, attestate dalla sua cifra ma permane, sempre, una sincera purezza che costituisce l’elemento fondamentale di ogni dipinto e conseguentemente -esteriorizzando la sua consapevole profondità d’animo- di ogni uomo, divenendo, in tal modo, respiro di quei differenti momenti in cui la vita si piega o si illumina, sino a richiamare perciò, in quei tratti disegnati, la sua esistenza.
Sorta di estensione autobiografica mai evidente, eppure implicitamente pronunciata, privando le figure di qualsiasi gigantismo intellettuale, al contrario tramite la loro naturalezza rendono palpabile la loro umanità, riuscendo in questo modo a travalicare quindi la contingenza del loro tempo. Capacità di saper comprendere, dallo sguardo di chi osserva, il soffuso senso di quel “appena pronunciato”, di quel apparente “non detto”, che invece si evidenzia qualora il guardare si trasforma in vedere, pertanto acume nel superare l’apparenza affinché l’anima del personaggio si sveli; sorta d’invocazione a condividere con lui “affetto” (moto dell’animo) contrapposto all’asettica indagine intellettuale.
Superfluo pertanto si manifesta, in questo peculiare ambito, dissertare circa i contatti “di stile” con altri pittori o influenze da “scuole” o paragoni con altri illustri nomi. Deve essere risaltata invece la sua abilità -non mera tecnica- di scandagliare i numerosi recessi psicologici dell’uomo, modellando la figura ritratta con dettagli aderenti al carattere rappresentato, dunque l’esposizione figurata deve contenere precisione dei tratti somatici, degli abiti, degli arredi, del circostante contesto. In tale fecondo divenire plastico s’innesta, sovrana, la tavolozza la quale, con cangianti colori, imprime la personalità dell’effigiato -la giovinezza espressa con brillante cromia, la vecchiezza ritratta in dissolventi commistioni di scurità- combinandosi con la luce. Quest’ultima non cede a una cristallizzata descrizione bensì, lambendo un’idealizzazione, rivela un significato vivo metamorfosando una diafana aria -per come appare in superficie- in soffuso colore che dona linguaggio poetico alle figure, proiettandovi tenui ombre quali incontri di sentimenti, disserrati da una simbolica tenerezza che non confina il reale, laddove esso sia anima.
Proprio l’anima, che vive tra i profondi marosi dell’esistenza, si erge intensa con movenze di partitura musicale, diversificata da improvvise tonalità calorose e quasi sature come palesano alcuni suoi azzurri, gialli, celesti, viola, rossi e così via. Subitanea emozione di un artista, che in sé accoglie gli accadimenti generati dinanzi al suo vivere, che la sua mente apprende sviluppandone il “senso” nella sua attitudine compositiva. Nessuna disperazione vi compare ma l’espressività, così in e da lui palesata, possiede versi ancor oggi attuali.  
L’ispirato equilibrio delle pose, la squisitezza dei gesti, la densa spiritualità -nelle sue plurime “sagome”- effusa, non declamano alcuna epicità sottraendosi a un, pur sempre incombente, esacerbamento intellettuale, che giustappunto rinunciando a qualsiasi sfolgorio, ostentante una formale pregevolezza di stile, viene così allontanato dal Lotto. Questa sua singolarità si estende altresì negli ampi dipinti, dove la sacralità del tema (pale d’altare) viene esposta rispondente al suo desiderio, di rimare l’anima dei committenti inseriti nel quadro, accarezzati perciò dalla dolcezza, o confitti nel dolore, o presi dalla malinconia, o poggiati sulla quiete, permeandone in tal maniera la scena rappresentata.
Se il suo dipingere sostanzia un’esposizione di elementi multiformi, componendo una sorta di luminosa sintesi, pur non soggiorna in un accademico fare ma, all’opposto di tale algida capacità, dimora nelle percezioni da cui si estrinseca la sua arte, costante movimento verso quel nobile patrimonio, costituto dall’intimo sentimento umano, che ne genera il fondamento.
Di tale compiuta efficace espressione, è pregno il Ritratto di gentiluomo conservato presso la Galleria Borghese, cui nei depositi è, attualmente, posta la tavola della Vergine col Bambino tra i Ss. Flaviano e Onofrio, altro lavoro realizzato dal Lotto.
Riguardo specificatamente a tale Galleria, rammento i miei post: la Danae del Correggio (24 maggio 2016); il Ritratto d’uomo di Antonello da Messina (17 ottobre 2017).
Il Ritratto di gentiluomo dunque, esposto nella Sala delle Baccanti, eseguito intorno al 1535 raffigurerebbe il principe dell’Epiro, Mercurio Bura, divenuto in seguito comandante della Repubblica di Venezia, stanziatosi quindi a Treviso con la sua corte e i suoi uomini d’arme. Il gentiluomo è rappresentato all’interno di un ambiente interno, in un tratto però aperto su un paesaggio, sul cui sfondo è raccolta una città, che alluderebbe proprio a quella città veneta. La minutissima scena cavalleresca richiamerebbe l’episodio di S. Giorgio contro il drago, Santo del quale il Bura, secondo notizie storiche, è particolarmente devoto. La sua esistenza è marcata da tragedie, fatti luttuosi come la morte delle sue due mogli e di due suoi figli.    
L’identificazione del personaggio, ad ogni modo, non appare basilare rispetto alla portata “dell’affetto” vibrante nell’opera.
L’uomo di mezza età ritrae un senso di densa commozione, un’invulnerabile tristezza da cui egli guarda l’osservatore, chiamato a condividerne l’acuta infelicità, l’inarrestabile dolore. L’abito nero allude, forse, a una vedovanza, come attesterebbe la mano sinistra -tenuta sul fianco- con i due anelli, probabilmente sponsali, calzati al mignolo e all’indice; la mano destra – anch’essa impreziosita da un anello gentilizio, in questo caso al pollice- è stesa sopra un teschio minuto, posto in una natura morta -reale memento mori- composta di petali di rosa (dal composito significato simbolico di morte ma anche dell’amore sopravvivente al terribile trapasso) e di gelsomini sparsi (ancora un’allusione all’amore). Egli è fermo dinanzi a chi l’osserva, mentre una lieve luce laterale sembra abbandonarlo; sul volto s’imprime una tormentante melanconia, acuminata tristezza avvertita come piena sofferenza, che evidenzia il suo atteggiamento espressivo. Una desolazione apparentemente muta, in un tono di prostrazione psichica che priva, a quelle silenti lacrime, il calore di un consolatore raggio. Quella folta barba, del reclinato viso, è stata -e sarà- irrigata da quelle dolenti stille fuoriuscite dagli occhi ed è talmente espanso il gravoso patimento che altresì la, ritagliata, veduta comprende un cielo rannuvolato, racchiuso in sé.
Lorenzo Lotto sprigiona il colore di tale stato emotivo, la sua implacabile asprezza dilaniante l’anima, sola nel suo silenzioso pianto, che vorrebbe ora effluire da quel viso, ove le labbra sembrano pronte a scandirne la cadenza. Una resa di un uomo avvezzo all’imprese guerresche, eppure sguarnito di ogni difesa, supplichevole verso l’osservatore e del suo mistero ne restano minimi lembi, poiché molto viene rivelato con questo loquace silenzio.
Nel personaggio il pittore, considerato a lungo un autoritratto, svela sé stesso, la forte mestizia, la caducità che grava sulla vita, riducendolo a flebile figura sino a diventare un’ombra svanente.   
  

              Immagine tratta da "Google immagini"