Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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mercoledì 23 marzo 2016

Il Kyrios della Basilica dei Ss. Cosma e Damiano in Via Sacra

 
 
 
La Basilica dei Santi Cosma e Damiano è posta sulle rovine del “Foro” della Pace, così definito per la sua forma molto simile a quella degli altri Fori, celebranti il prestigio della Roma imperiale, dei quali costituiva una sorta di ampliamento. In realtà esso era un tempio dedicato alla dea Pace (Templum Pacis), divinità romana, Pax, corrispondente a quella greca, Irène. Edificio costruito tra il 71 e il 75 dall’imperatore Tito Flavio Vespasiano, per glorificare l’avvenuta pacificazione in tutto l’esteso territorio dell’Impero, già percorso da forti rovinose tensioni cessate con la forza, come avvenuto con la guerra contro l’altro acclamato imperatore Aulo Vitellio (68-69), con la rivolta dei Batavari nella Germania Settentrionale e nella Gallia (70). Inoltre, l’assoggettamento definitivo della Giudea (67-68) ribellatosi alla totale potestà romana, nonché l’abbattimento materiale e ideale di Gerusalemme (70), rappresentarono l’inizio di quell’equilibrio politico, economico, sociale intrapreso dal sovrano Flavio, che intese esaltare queste imprese attraverso l’innalzamento di quel complesso monumentale. Il Tempio distrutto da un incendio nel 192 fu ricostruito e in parte trasformato da Settimio Severo (199/201, circa-211) realizzando anche la Forma Urbis Romae, grandiosa pianta marmorea.
Con la caduta di Roma nell’area si evidenziò (nel corso del V secolo) il degrado già originatosi durante gli ultimi “respiri” dell’Impero, ai quali seguì agli inizi del VI secolo l’abbandono della zona. Tra il 526 e il 530 Amalasunta, figlia di Teodorico, il re degli Ostrogoti che esercitava autorità altresì su Roma -secondo il riconoscimento dell’imperatore bizantino Anastasio I- volle donare al vescovo della decaduta “Urbe”, Felice IV, due edifici del Foro: sia un’aula di quanto ancora si ergeva di quel colossale Tempio, ove anticamente era collocata la Bibliotheca Pacis, sia il cosiddetto “Tempio del divo Romolo” affacciato sulla Via Sacra. Quest’ultimo, secondo alcuni studi, in realtà non fu un luogo di culto bensì un nuovo ingresso, costruito in forma circolare intorno al 309, del Tempio della Pace, utilizzando materiale di altri edifici. La maggior parte degli studiosi però identifica, tale ambiente, quale ricostruzione del Tempio di Giove Statore, annullandone così l’individuazione come “Tempio del divo Romolo”, edificio che, Massenzio, avrebbe eretto a perpetuo culto del figlio Valerio Romolo -morto all’età di quindici anni- e come tale considerato per lunghissimo tempo (dall’Alto Medioevo alla fine del XIX secolo), confondendolo con quell’imponente mausoleo posto sull’antica Via Appia, probabilmente poi mutato in sepolcro dinastico, innalzato dall’imperatore, vicino al suo circo e alla sua grandiosa villa, in memoria e in onore del giovanissimo figlio defunto.
Felice IV dunque trasformò quegli ambienti donategli in basilica cristiana, dedicandola ai Ss. Cosma e Damiano, secondo la tradizione gemelli nati in Siria e dediti all’arte medica, martirizzati nel 303; questo papa realizzò il magnifico mosaico absidale e, quasi sicuramente, quello dell’arco trionfale. Ulteriori opere di abbellimento furono volute da Gregorio I (fine VI secolo), da Sergio I (fine VII secolo), da Paolo I (metà VIII secolo) e da Adriano I (fine VIII secolo). Altri interventi furono eseguiti nello svolgersi temporale: al secolo XI apparteneva il bel campanile distrutto da un terremoto avvenuto agli inizi del Seicento; intorno al 1150 fu creato il pavimento cosmatesco e restaurato quello che rimaneva del periodo romano; all’inizio del XIII secolo furono affrescate alcune pareti, lavori attribuiti all’ambito di Jacopo Torriti o di Pietro Cavallini (il dibattito è in corso ma io serbo miei convincimenti); nel 1503 la chiesa venne affidata ai frati Francescani, che ne iniziarono i lavori di ristrutturazione; tra il 1592 e il 1605 furono costruite sei cappelle laterali, restringendo la navata ed edificando sopra di esse altrettante piccole celle destinate ai frati.
Il livello stradale però si era sollevato, durante il correre dei secoli, di circa otto metri (recenti studi dimostrerebbero che il pavimento della Basilica fu rialzato più volte), determinando una difficoltosa frequentazione del luogo, a tal punto da necessitare il compimento di, un’enorme, scavatura del terreno innanzi all’ingresso basilicale. Per consentire un agevole e razionale accesso, il pontefice Urbano VIII volle perciò concretare un totale rinnovamento di tutto l’ambiente (1626-1638), attraverso la posa di un secondo pavimento corrispondente al livello stradale dell’epoca, sostenuto da pilastri e da una volta; ne conseguì la relativa sopraelevazione dell’antico portone bronzeo e degli elementi esterni architettonici ad esso connessi, che mantennero in tal modo la funzione di ingresso della Basilica. Questa sistemazione rimase immutata fino al termine del XIX secolo, quando per gli scavi archeologici e di recupero dei Fori, quell’insieme formato dai battenti di bronzo, dalle due colonne di porfido rosso con capitelli corinzi in marmo bianco, dalla preziosa architrave, dall’ornato fregio e dalla brillante cornice, fu ricollocato come lo era in epoca romana, vale a dire nuovamente a otto metri, circa, in basso, come si mostra oggi. L’ingresso attuale, aperto sulla Via dei Fori Imperiali, è stato creato nella risistemazione del 1947, sostituendo quello posto sul fianco destro dell’edificio, utilizzato per l’appunto dalla fine del secolo XIX sino a tale anno.
L’estremo mutamento, attuato da quel celebre papa seicentesco, sancì la definizione della nuova Basilica, verso cui il “Tempio del divo Romolo” fungeva ancora da atrio, munito però di una piccola cupola e di un lanternino al vertice (1638) rispondente all’antico foramen romano, simile a quello del Pantheon, per garantire l’illuminazione del vano. Il complesso architettonico perciò fu diviso orizzontalmente in due parti, in due chiese distinte: un grande spazio  ipogeo (all’epoca, oggi forma la cripta) e un vasto ambiente superiore, che compone l’odierna Basilica.
Entrando in questo luogo di culto si nota, tra le lucentezze conservate, la piccola cappella del lato destro della navata, che occupa lo spazio ove sorgeva il campanile rovinato agli inizi de XVII secolo. La volta decorata nel 1637 da Giovanni Battista Speranza, rappresenta scene della “Passione di Cristo” eseguite con buona mano pittorica, voluminosa nei tratti dipinti e con una raffigurazione ambientale accurata e vigorosa, riflettente aspetti stilistici barocchi. L’ancona che risalta dall’altare, sotto la cui mensa è riposto un pregevole vaso di porfido, quasi un piedistallo, contenente reliquie di martiri e già conservato nella chiesa inferiore, raffigura il Kyrios, il Signore, il Cristo vivo e regale sulla Croce (particolare Christus Trimphans), raro affresco del secolo VIII (un altro coevo esempio è visibile tra le rovine della chiesa di S. Maria Antiqua al Foro Romano, poco distante) anch’esso proveniente dalla cripta e qui posto nel 1638, circa, incorniciato da due raffinatissime colonnine di pietra lumachella rosata. La figurazione, nel cui bizantinismo s’interpone una monumentalità echeggiante l’antica arte romana, mostra il Messia abbigliato di una lunga tunica. Questa, pregevolmente ornata, disegna sul davanti una striscia fissata al tessuto e una chiusa cintura, dispiegandosi con evidenza la sagoma della Croce sulla veste di Cristo, che indossa altresì una corona quale Re del Cosmo (ordine universale), poiché Egli ha sconfitto definitivamente il caos (spalancata voragine) introdotto nella creazione dal peccato (smarrimento della retta via). Quel “legno” (strumento di pena mortale) appena accennato dietro la nobile figura del Salvatore, viene trasformato elevandolo a cardine dell’intera armonia universale, attraverso il supremo sacrificio del Messia, ribadito su quel solenne abito; la Croce quindi, al cui centro sta il Figlio di Dio, si protende per i quattro punti cardinali cosmici.
Questo dipinto sospinge verso una riflessione, che ci introduce in quel particolare accento compositivo proprio della tradizione bizantina, così presente a Roma soprattutto tra il VII e il X secolo.
Cristo restituisce agli uomini, ormai così lontani dall’Eterno Padre, l’immagine palpabile della gloria divina per mezzo del “Suo essere”, come viva icona di Dio secondo quanto proclama S. Paolo nella Epistola ai Colossesi, capitolo 1, versetto 15: ” è immagine dell’invisibile Dio”, affermando al capitolo 2, versetto 9: ”poiché in Lui abita corporalmente tutta la pienezza della Deità”. Nella Epistola agli Ebrei, capitolo 1, versetti 3-5, la definizione dell’unicità dell’elevatezza di Cristo è ancor più argomentata: ” il quale essendo lo splendore della Sua gloria (di Dio) e l’impronta della Sua essenza (di Dio) e sostenendo tutte le cose con la parola della Sua potenza (di Dio), quand’ebbe fatta la purificazione dei peccati, si pose a sedere alla destra della Maestà nei luoghi altissimi, diventato così tanto superiore agli angeli, di quanto il nome che ha ereditato è più eccellente del loro”. Il Salvatore quindi oltre a permettere all’umanità di guardare nuovamente il Dio Padre, attraverso la Sua immagine reale perciò non confusa nel mito, ne effonde la gloria, la potenza, la somma autorevolezza poiché possiede il carattere (impronta) dell’Eterno Padre.
Il distintivo tema iconografico, del Kyrios, sembra trovare dunque la sua fonte in questi testi, che sono espressi, visivamente, adoperando uno schema iconografico alquanto rigido, un’idealizzazione dello spazio, una nobilitazione della figura, una presenza di elementi simbolici, con i quali espandere una “ferma apparizione mistica”, uno sguardo verso una realità alta che, altrimenti, sfugge ai sensi, i quali invece possono cogliere, almeno in superficie, quella inintelligibile verità divina attraverso un linguaggio cromatico e una combinazione di preziosità ornamentali. 
L’affresco quasi integro è stato eseguito, come già detto, nel secolo VIII; il Cristo trionfante si mostra privo dei piedi sovrapposti,  ha gli occhi aperti “segno di riconoscimento” della conoscenza assoluta, che tutto comprende e a cui nulla gli è estraneo (posto fuori); sguardo del “Fedel testimone, il Primogenito dei morti e il Principe dei re della terra. A Lui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati col Suo sangue e ci ha fatti essere un regno e sacerdoti all’Iddio e Padre Suo” (Apocalisse, capitolo 1, versetti 5-6). Egli è stato chiamato da Dio che: ” ha dato tutto il giudizio al Figlio affinché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre. Chi non onora il Figlio non onora il Padre che la mandato”. Quegli occhi così vivi testimoniano il Suo trionfo dal legno e ugualmente al serpente di bronzo issato sull’asta, da Mosè, nel deserto (Numeri, capitolo 21, versetti 8-9), prefigurazione del Salvatore crocifisso, Egli dona la salvezza e la vita eterna a chi con fede a Lui si volge. Un esterno fondo azzurro contorna la scena, colore ripreso dal disegno della veste; simbolo visibile della spiritualità, esso è il colore che rappresenta l’immaterialità dell’aria, dell’incorporeità della verità celeste manifestata dal soffio dello Spirito. Una rossa formella inquadra il Crocifisso, colorazione del Suo sangue sacrificale, della forza spirituale che Egli irradia, del Suo fervido amore verso le creature umane, di cui conosce la fragilità; i numerosi fiori in essa contenuti sono il segno della benevolenza di Dio che sconfigge la morte. Le preziosità, fermate sulla tunica del Sacro Personaggio, rappresentano la luce e la perfezione celeste.
Continuiamo ad osservare i dettagli stilistici di questa antica opera; si nota una stilizzazione simmetrica mitigata però, come si è detto, da un recupero parziale della precedente antica “scuola” romana, che non evita, in maniera volontaria, una dichiarata e salda ieraticità, favorendo atteggiamenti figurati e modelli decorativi, i quali danno forma all’eternità dell’evento. Astrazione piuttosto marcata e senso ornamentale dell’impianto pittorico ne manifestano la figurazione, il cui bizantinismo dunque non si mostra di contenuta portata, anzi la staticità gestuale lega compositivamente e psicologicamente a quello spesso senso di assolutezza, reso tangibile in un culmine cromatico. Il disegno segue una prefissata cadenza ritmica, una ferma compostezza dei contorni; in tal maniera il colore viene slegato da ogni empirismo che possa modificare l’universalità così rappresentata, asserendo un canto di acuto bagliore spirituale, sancendo l’unità fra l’atto artistico eseguito e il pieno pensiero sorto nell’osservatore sulla scena esposta.