Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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lunedì 29 dicembre 2014

Il mosaico “Gesù Cristo benedicente” della Basilica di S. Bartolomeo all’Isola


Durante i secoli XI e XII, soprattutto a Roma, l’architettura volta all'edificazione o alla ricostruzione di luoghi di culto, recupera un ordine compositivo che intende riproporre modelli specificatamente proto cristiani, modificandone però alcuni elementi e quindi presentandoli compiuti attraverso il riadattamento medioevale. Quali esempi di questo nuovo clima artistico si possono ricordare le Basiliche di S. Clemente, di S. Crisogono, di S. Maria in Trastevere e di S. Bartolomeo all’Isola (quest’ultima come la precedente oggetto di un mio studio).

La Basilica, che si ammira presso l’Isola Tiberina, è stata dunque rifondata durante il pontificato di Pasquale II (1099-1118), permanendone l’impianto complessivo fino ad oggi, vale a dire la ripartizione dell’interno in tre navate, divise da colonne di spoglio e il presbiterio rialzato. Nel corso dei periodi successivi sono eseguiti soltanto interventi di minime modifiche e di piccoli abbellimenti fintanto che, nel 1557, una rovinosa inondazione del Tevere distrugge la facciata con i suoi mosaici, la navata destra, il presbiterio e l’ornamentazione pittorica e musiva.
 
Di tutto quel complesso decorativo si è salvato, dallo sconquasso, solo un consistente frammento di mosaico del XII secolo, “Gesù Cristo benedicente”, attualmente collocato in un ambiente non compreso nella Basilica (ricostruita dal 1570 al 1625 e seguenti lavori del XVIII e XIX secolo).
Di eccellente qualità formale, esaltata dalla lucentezza dell’oro, questa raffigurazione di Cristo emana uno spesso senso di trascendenza, per lo scintillio “volutamente surreale” del colore quasi decomposto dalla chiarità impressa sulle tesselle, che da queste si diparte non per allontanarsi ma per condurre gli occhi del visitatore verso l’eternità di quel fondamento spirituale, così descritto. Infatti, il Messia nell’atto di benedire, con lo sguardo che abbraccia l’infinito, tiene nella sua mano sinistra le pagine aperte di un passo del Vangelo di S. Giovanni (capitolo 14, versetto 6) “Ego su(m) via veritas et vita”, ponendo in risalto con l’espressione “Ego sum” la pienezza del suo “essere”. Inoltre, la posa che lo ritrae con entrambe le braccia orizzontalmente distese, indica la Sua costante azione nell’accogliere in Sé l’umanità, che in Lui trova quella “pietra angolare” su cui edificare, durante il percorso dell’esistenza, l’ecclesia, la comunità dei fedeli, per congiungersi al termine della vita  con la gloria dell’alto dei cieli. Cristo, centro del cosmo e del tutto creato, ne è la via.      

L’opera esce dai limiti rigorosi della tradizione bizantina -rappresentando una volontà di rinnovamento del linguaggio musivo-, non per ritornare allo schema proprio dell’antica “classicità” romana ma perché comunica il superamento, attraverso un parziale diverso tema cromatico, del bizantismo stilizzato e aulico. Si avverte che, l’elaborazione degli effetti dei colori, appare nei dettagli complessa, come mostra il volto nel quale la colorazione si separa in macchie, create da tessere frazionate, contrastanti; come pure, con medesimo esito, espongono l’adorna tunica e l’irregolare contorno combustivo del libro, tenuto con ferma mano. Tali particolari trovano la loro forza espressiva in questo sparpagliamento, in questa accensione di leggeri eppure intensi fuochi, di bagliori che si corrispondono in zone del campo musivo, secondo un succedersi temporale quasi aritmico e dissonante, echeggiando, non passivamente, gli stilemi della “scuola romana” mostrati nel IX secolo (Basilica di S. Prassede all'Esquilino).   
 
 

lunedì 22 dicembre 2014

I sotterranei della Basilica di S. Sabina all’Aventino

Gli ampi sotterranei, della Basilica di S. Sabina all’Aventino, offrono una testimonianza circa i cambiamenti urbanistici avvenuti nella zona, dal periodo arcaico (VI secolo a.C., circa) alla fine dell’età imperiale (ultima parte del IV secolo d.C.).

Il colle Aventinus, già luogo di antichissime tradizioni, è assegnato definitivamente alla Plebe nel 456 a.C. con la lex Icilia de Aventino pubblicando, legge emanata dai Comitia (organismi assembleari con funzioni legislative), divenendo in modo graduale una zona popolosa abitata dai ceti meno abbienti, da cui i più poveri si trasferiscono durante il I secolo a.C. nell’area oggi compresa tra il Testaccio e il Trastevere, in virtù delle molteplici attività correlate a quella dell’Emporium, il porto fluviale della città antica.
Devastato da due incendi nel 64 e nel 36 d.C., l’Aventino muta aspetto trasformandosi, nel tempo, in zona caratterizzata da fastose dimore patrizie.

La Basilica, situata nel lato nord-occidentale dell’Aventino, sorge tra il 422 e il 432 sugli ambienti di una domus ecclesiae, vale a dire su una casa utilizzata per il culto cristiano.

I vani ipogei del sito - oggetto di un mio studio, come tutto il complesso della Chiesa, incluso il bellissimo chiostro- interessati da scavi archeologici (l’ultimo dei quali datato 1936-1939) hanno riportato alla luce resti delle mura risalenti, all’incirca, al VI secolo a.C. Esse rappresentato un'oggettiva rarità del periodo arcaico romano; infatti, altre ridottissime parti si trovano soltanto sul Campidoglio, sul Quirinale nonché sul Viminale; invero, se ne notano i blocchi squadrati di tufo granulare friabile (detto “cappellaccio”) di colore grigiastro. La successiva fase di edificazione della difesa muraria è pure qui mostrata dalla massa proporzionata di tufo poroso giallastro, che appare sovrapposta alla precedente. Realizzata nella prima metà del IV secolo a.C. con tale tipologia di roccia sedimentaria, estratta dalle cave dette di “Grotta Oscura” ubicate nel territorio di Veio, oggi è visibile in diversi luoghi “storici” dell’antica Roma. La peculiarità quasi unica di questo ambiente si manifesta, perciò, nell’evidenziare i due distinti momenti di costruzione della cinta muraria romana, avvenuti rispettivamente durante l’epoca arcaica (Regia) e nel corso di quella della “repubblica” (Res publica).
Si osserva un insieme composito di ruderi, che attestano il susseguirsi di diversificate trasformazioni del luogo, accadute durante il periodo romano come, ad esempio, dimostra la presenza nell’area archeologica del piccolo tempio del III sec. a.C., in antis, i cui resti dell’antica facciata mostrano due colonne di peperino fra due ali murarie, per l’appunto “ante”, le quali prolungano le pareti laterali in avanti. Inoltre, s’individuano le strutture in opera incerta -opus incertum, blocchetti piramidali di tufo con differenti basi, apposti contro il nucleo di cemento in filari obliqui irregolari- di edifici situati a ridosso delle mura e in prossimità delle stesse si scorgono residui architettonici di dimore risalenti all’inizio del I secolo a.C. con pavimenti a mosaico. Altre costruzioni della fine del I sec. a.C. in reticolato  opus reticulatum, la “realizzazione edile” più conosciuta; blocchetti di tufo di forma tronco-piramidale a base quadrata, sistemati in linee diagonali che modellano una trama a rete- innalzate oltre la cinta muraria, nella quale quattro passaggi aperti in questa fase storica consentono il transito tra l’interno e l’esterno, documentando il superamento della sua funzione difensiva, essendo ormai Roma quella potenza dominatrice dei territori altrui. Oltre a ciò alcuni di questi vani, restaurati e utilizzati come tempio, contengono pitture e graffiti, attribuibili al II secolo d.C., inneggianti a Iside, divinità dell’antico Egitto che ha un enorme seguito a Roma (e non solo) ove giunge nel I sec. a.C., cui il culto presenta caratteri sincretistici comprendenti, quindi, elementi di divinità autoctone come, ad esempio, gli attributi divini di Cerere.
Ristrutturazioni del III secolo d.C. condotte con materiale laterizio, cambiano ancora l’uso di una parte di questo ambiente, che diviene un piccolo complesso termale. Probabilmente appartiene a una grande e ricca abitazione (domus), di cui restano in loco, all’esterno della Basilica, una colonna di granito bigio incorporata nel muro della Chiesa stessa (angolo destro del portico) e un’altra simile, all’interno, in prossimità della Cappella di S. Giacinto. Pregiati pavimenti in opus tessalatum –quadratini di marmo disposti irregolarmente in base a un disegno prestabilito- rinnovati successivamente in opus sectile –lastrine colorate marmoree di varie sagome formanti disegni floreali e scene figurate- mostrano l’agiatezza dei proprietari della casa.

Quanto affermato in merito all’attribuzione termale alla domus, è suffragato dalle notizie storiche relative all’incremento dell’attività edilizia, “residenziale”, sviluppatasi soprattutto sotto i regni di Marco Aurelio (161-180) e di Settimio Severo (193-211), in cui si assiste all’abbandono di molti santuari in favore di suntuose dimore, che ne occupano l’area, definendo ulteriormente l’Aventino quale luogo aristocratico.


 
Le mura espongono le due fasi costruttive


Il vano delle terme

 
 
 
 


sabato 20 dicembre 2014

Cosimo Fancelli: la pala marmorea dei sotterranei della Basilica di S. Maria in Via Lata


La Basilica di S. Maria in via Lata, dal latino latus (largo), ha quale toponimo l’antico nome della Via del Corso, che dalla Porta Fontinalis, posta sulle pendici del Campidoglio e inclusa nel percorso delle mura repubblicane (378-353 a.C.), si estendeva sino all’attuale Piazza del Popolo, costituendo il tratto urbano della Via Flaminia. La denominazione fu anche mantenuta altresì per la presenza, innanzi alla Chiesa, di una piccola piazza (largo) progressivamente ridotta, fino a scomparire alla fine del XIX secolo con l’ampliamento del Palazzo Odescalchi. 
Gli attuali ambienti del sottosuolo narrano le trasformazioni della zona durante l’epoca romana, la successiva presenza di un’antica tradizione cristiana, l’innalzamento del livello stradale nel corso dei secoli, l’adattamento a cripta, la sistemazione seicentesca di Pietro da Cortona. Questo sito, oggettivamente pregno di particolare archeologico fascino, è stato oggetto di un mio studio, il quale comprende anche la Basilica, che rifulge di pregevolezze architettoniche e d’interessanti testimonianze artistiche dal tardo Barocco in poi.

Nel 5° vano del sotterraneo risalta alla vista dell’osservatore il bellissimo altorilievo, di Cosimo Fancelli (1620-1688), appena restaurato –la cui inaugurazione sarà “celebrata” domani, domenica 21 dicembre-, che corona il grande altare marmoreo raffigurante una “Sacra conversazione” tra Ss. Paolo, Pietro, Luca e Marziale: splendida opera barocca.

Il Fancelli, già allievo e in seguito collaboratore del Bernini, mostrando presto capacità creative autonome entra nell’orbita del Cortona (Pietro Berrettini) sino a divenirne amico, collaborando costantemente con questo grande artista. 
Come in altre occasioni, dunque, anche relativamente all’adattamento dei locali sotterranei di questa Basilica, l’architettura cortoniana è impreziosita dal lavoro del Fancelli stesso, come dimostra l’altare della cappella, diventata quella maggiore, di questo ambiente. Infatti, racchiusa in una cornice del Cortona, la pala marmorea in disamina pur evidenziando l’indubbia caratterizzazione del Berrettini, suggerita dalla straordinaria plastica eleganza dei personaggi ritratti –Marziale i cui tratti sembrano appena pronunciati, è invece compiutamente effigiato con straordinaria abilità- rivela però un considerevole spessore psicologico espresso dai loro volti, da ascrivere al linguaggio dell’autore di tale lavoro. Non può sfuggire il palese effetto chiaroscurale, lo sfondo sul quale sono proiettate le ombre dei volti dei due apostoli, Pietro e Paolo, che, avvicinando maggiormente i loro visi, ne evidenzia ancor di più l’intensa condivisione spirituale, la quale sembra fuoriuscire dalla scena per permeare tutto il vano. Si assiste a un’accentuazione, rivelata con grazia e finezza delle pose, di ciò che caratterizza i modi di Pietro da Cortona, tentando, con successo, di accordarli con quelli del Bernini, come esprime la vivace mediata levità dell’opera, in cui è messa in atto con accurato calcolo una profonda emozione.  
Il rilievo del Fancelli restaurato

   







venerdì 19 dicembre 2014

Andrea Bregno (o artista della sua bottega): il portale marmoreo della Chiesa di S. Cosimato


 
 
L’ex convento dei SS. Cosma e Damiano in Mica Aurea -detto di S. Cosimato, sorta di commistione dei due nomi-, oggi incluso nella struttura sanitaria, già nosocomio, Nuovo Regina Margherita, può essere considerato uno dei rarissimi angoli nascosti di Trastevere. Luogo suggestivo, oggetto di un mio studio, comprende due chiostri, il più antico dei quali (1234, circa; ampliamento di quello preesistente) appare come uno dei più grandi della Roma medievale, scandito da un ordine di arcate su pilastrini. Attualmente, lungo i suoi corridoi sono posti interessanti frammenti, brani architettonici di varie epoche, che dimostrano la “vivacità” storica e artistica del complesso. Pregevole si manifesta il secondo chiostro, formato da un doppio ordine di pilastri ottagonali, voluto da papa Sisto IV (1475) che riedifica la chiesa di tale insieme di clausura e ne innalza il campanile (1482). Proprio un particolare della medesima chiesa costituisce l’argomento di questo post, vale a dire il portale marmoreo creato da Andrea Bregno (1418-1503) ovvero da un artista della sua bottega che ne ripete la cifra, come dimostra l’elaborata ornamentazione, dai pieni significati simbolici.
Il Bregno rappresenta uno dei “temi” più dibattuti dagli storici dell’arte, poiché molti suoi lavori, soprattutto in ambito architettonico, risultano scarsamente documentati e, dunque, le diverse attribuzioni scaturiscono da giudizi derivati da difficoltose indagini filologiche. Egli influenza il giovane Michelangelo, giunto a Roma, il quale ammira la sua preziosa collezione di reperti dell’antichità, esposta nella sua dimora sita sul Quirinale. Li accomuna, quindi, quell’irrefrenabile creativo impeto che, nell’antico, trova il primario approdo dal quale diparte quella nuova forma artistica, che caratterizza il Rinascimento e che nel Buonarroti trova fulgido apice.
Le opere di Andrea Bregno si esprimono, dunque, attraverso un rielaborato classicismo, presentandosi assai raffinate, nelle quali altresì ogni minimo dettaglio è realizzato con rilevante perfezione tecnica. Accresce la sua fama a Roma ove l’attività della sua bottega è alquanto copiosa, soprattutto con l'elezione al soglio pontificio di Sisto IV Della Rovere (1471-1484). Dell’alta considerazione nutrita nei suoi confronti dai suoi, altrettanto celebri, contemporanei ne dettano testimonianza sia il noto umanista Platina (Bartolomeo Sacchi, 1421-1481), che lo compara a Policleto, sia il Perugino includendolo tra i personaggi del suo magnifico affresco “Consegna delle chiavi a S. Pietro”, che si ammira nella Cappella Sistina.
Ritornando sul portale lapideo inserito nella facciata della Chiesa di “S. Cosimato”, il medesimo offre agli occhi dell’attento visitatore molti motivi propri del registro del Bregno, in virtù dell’impianto generale, in un contesto certamente non monumentale o, a una vista frettolosa, non di “forte presa”. Infatti, gli elementi decorativi elaborati in questo ristretto spazio architettonico mirabilmente si delineano e per tale ragione acquisiscono una concreta, elegante, grandezza, pur nelle ridotte dimensioni in cui sono concepiti.
Dello studio iconologico di questa opera “minore” si può condensare con ciò che della spiritualità, alcune immagini, vogliono “afferrare” per mezzo di un linguaggio artistico rinnovato ma strettamente connesso con espressioni di precedenti epoche. 
Una lineare cornice racchiude un lavoro decorativo riccamente composto, cui i rilievi hanno forma di: brocca (accoglimento dello Spirito di Dio come acqua salvifica), candelabro (alberi della luce divina), ghirlanda (la vittoria sulle tenebre), fiore (accoglimento dei doni divini), mela (in questo caso: il peccato che Cristo materialmente prende su di sé), pera (la forma del frutto rammenta una figura femminile dall’ampio bacino: la discendenza di Eva colta nel fecondo campo della vera conversione), pigna (“infiorescenza” formata nel pino e nell’abete, alberi sempreverdi, allude dunque all’immortalità, all’eternità), uccello (distacco dal mondo, vicinanza a Dio), vaso (da grembo della Terra a vaso spirituale). Inoltre, i motivi che appaiono in entrambe le parti laterali superiori, per come composti, rimandano a un’interpretazione dell’albero cosmico, il quale in alto si protende volgendo i rami in basso, in guisa di asse posta al centro del cosmo, che attraversa la profondità e la superficie terrestre e altresì il cielo, come entità che unisce queste due sfere. Oltre a quanto descritto si notano alcuni tipici ornamenti raffigurati, ad esempio, dai nastri svolazzanti, che ribadiscono la ricchezza iconografica; in aggiunta si scorgono i riferimenti medicidei due martiri titolari del complesso. Un timpano ad arco di pregevole fattura conclude la composizione, nel quale un fievole dipinto raffigura la “Madonna con il Bambino e due angeli”, attribuito a Pier Matteo d’Amelia, all’epoca molto attivo a Roma.
La lettura iconologica -esegesi che conduce “dentro” il contenuto dell’opera figurativa- desunta può tentare una decodifica, la quale svela il possibile significato di quanto si cela nei notevoli intagli.
La luce divina che rischiara l’anima dell’uomo, se pronto ad accogliere il dono dello Spirito di Dio, come affermato da Cristo Dio incarnatosi attraverso la Vergine, seno materno e sommo grembo spirituale, conduce alla vita eterna e alla sommità dei cieli, da dove agiscono l’azione dei Santi e l’intercessione suprema di Maria, posta dalla Trinità -cui la figura geometrica del triangolo simboleggia- come supremo tempio dello Spirito.  
 
 
 
 
 
 
 
 
 


mercoledì 10 dicembre 2014

Francesco Borromini: l’Oratorio dei Filippini (facciata e primo cortile)


 
I Filippini (o Oratoniani come sono anche chiamati nel XVII secolo) costituiscono un ordine recente, nel panorama della Roma della prima metà del ‘600. Fondato da S. Filippo Neri (morto nel 1595) ne seguono gli insegnamenti, che all’aiuto caritatevole in favore dei poveri uniscono la volontà di diffondere il sapere presso una platea molto vasta della città, comprendente i ricchi, i miseri, i dotti, gli ignoranti, i potenti ecclesiastici e nobili, i sudditi: l’assoluto valore dello studio e della pratica delle arti, in particolar modo quella musicale, devono essere testimoniati a ognuno.
Già dal 1575 la Chiesa di S. Maria in Vallicella, con un convento appartenuto prima ai francescani, è la sede della Congregazione dell’Oratorio, voluta da S. Filippo; la struttura, però, è quasi in rovina trovandosi, inoltre, in un caotico dedalo, un andirivieni di strade e di vicoli affollati sui quali si affacciano botteghe di artigiani e modestissime case abitate da manovali. I Filippini decidono di edificare una nuova chiesa -da qui nasce e perdura il nome “Chiesa Nuova”- consona alla missione che essi perseguono, la cui costruzione (dal 1575) e il relativo abbellimento comprendono l’opera di Matteo di Città di Castello, di Martino Longhi il Vecchio, di Fausto Rughesi -al quale si deve la facciata barocca inquadrata da lesene-, di Giacomo Della Porta, di Pietro da Cortona, di Peter Paul Rubens, di Guido Reni, di Carlo Maratta, di Alessandro Algardi, di Paolo Maruscelli, di Cosimo Fancelli, di Ercole Ferrata, del Cavalier d’Arpino e di molti altri artisti ancora.
Intorno al 1604 gli Oratoriani, ormai divenuti numerosi, si stabiliscono definitivamente nel rione –denominato fin dal XIII secolo Parione, dal latino paries, vale a dire “parete, muro”, per un massiccio di avanzo di muro antico sito nei pressi dell’attuale Piazza Navona, oggi scomparso- ma gli alloggi da essi occupati, ormai angusti, non riescono a contenerli adeguatamente. A tale aspetto occorre aggiungere uno dei cardini del pensiero di questo ordine, che si identifica con la grande importanza, come già detto, consegnata alla musica, quale arte di persuasione religiosa. L’insieme di tali motivazioni determina la volontà di acquistare un terreno accanto alla chiesa e il progetto di innalzare una “dimora”, che sia la loro nuova residenza, nella quale devono esservi inclusi anche l’oratorio, ai fini di iniziative culturali religiose quindi non liturgiche, la biblioteca, nonché il refettorio.  
Nel 1622 Filippo Neri è canonizzato (papa Gregorio XV), avvenimento che determina una maggiore considerazione “dell’opinione pubblica” nei confronti degli Oratoniani, mentre un giovane aristocratico romagnolo, Virgilio Spada, arriva a Roma ed entra nel loro ordine. Architetto dilettante, ben presto ricopre una rilevante posizione nella cura amministrativa dell’Oratorio, assumendone un ruolo decisivo in merito alla sua edificazione. Diventa, in poco tempo, molto influente riguardo alla politica architettonica della città, essendo, più tardi, anche elemosiniere segreto (1644) di due pontefici che hanno sigillato a Roma magnifiche “affermazioni” barocche: Innocenzo X e Alessandro VII. Per oltre un decennio (1624-1637) collabora con il Maruscelli, l’architetto inizialmente incaricato dall’ordine di progettare la costruzione del nuovo convento, il cui progetto prevede ben 131 stanze. Per quanto, però, quest’ultimo s’impegni nel voler realizzare il complesso, iniziando  dalla Sacrestia della Chiesa Nuova (1621 -1629), condizionando l’ubicazione e la distribuzione planimetrica dell’intero edificio, non è considerato dai Padri Filippini l’architetto adatto a materializzarne il programma costruttivo. Lo Spada, nel frattempo, si accorge della genialità del Borromini, che sta completando la sua opera presso la Chiesa di S. Carlo (chiamato comunemente S. Carlino alle Quattro Fontane). Quasi contemporaneamente i Filippini indicendo un concorso, manifestano la loro ormai innascondibile insoddisfazione circa il lavoro, piuttosto progettuale, prestato al nuovo convento e, quindi, intendono scegliere un altro architetto. Numerosi accorrono nel presentare i propri disegni, tra i quali figura quello del Borromini, il quale, stando a quanto indicano i documenti ufficiali, non gode di alcuna raccomandazione ed è scelto, secondo il bando concorsuale, con il voto segreto. La scelta dunque sarebbe caduta sul suo progetto, senza “l’intervento benevolo” di nessun cardinale, d’importante ecclesiastico o di nobile ma soltanto grazie all’azione delle sue opere, evento innovativo e unico, se rispondente alla verità, avvenuto nella Roma dell’epoca!
Inizialmente egli affianca il Maruscelli, il quale è subito sottoposto alle pesanti e argomentate critiche del giovane nuovo “collega”, che senza indugio propone delle sostanziali modifiche ai disegni sino a quel momento realizzati dallo stesso Maruscelli, che poco dopo rinuncia a sostenere il suo progetto, sopravanzato dal genio creativo del Borromini. Pur rimanendo, quest’ultimo, l’unico architetto, è costretto a lasciare, in virtù di quanto poco costruito sino a quel momento, l’Oratorio nella posizione ideata dal suo predecessore ma imprime alla facciata uno sviluppo più imponente, evitando, però, di gareggiare per importanza con il prospetto in travertino dell’attigua Chiesa. Infatti, ciò che si ammira oggi dal concitato Corso Vittorio Emanuele II, appare come un movimentato insieme architettonico; è una sorta di sagoma rettangolare a tre sezioni, cui il corpo centrale del prospetto è formato da una sola curva lievemente accentuata, esprimendo una composita tensione e mostrando la sua spontanea raffinatezza. Tale effetto è risaltato dalla levigatezza dell’edificio in laterizi – limitatissimi sono gli inserti di travertino-, edificato con mattoni di scarso spessore fissati da un sottile strato di malta.
L’artista nell’Opus Architectonicum, redatto insieme allo Spada nel 1647, pubblicato soltanto nel 1725, scrive a riguardo:” Nel dar forma à detta facciata mi figurai il corpo humano con le braccia aperte com’che abracci ogn’uno che entri, qual corpo con le braccia aperte si distingue in cinque parti, cioè il petto in mezzo, e le braccia ciascun’in doi pezzi dove si snodano”.
La facciata che si sviluppa magnificamente anche in altezza, mostra quale apice un grande frontone, cui le fattezze sono costituite da una riuscita fusione tra linee rette e linee curve, due motivi differenti e opposti ma coniugati in un unico continuo assieme. Tutto il prospetto è colmo di sofisticati dettagli, come dimostrano gli elementi del già citato ingresso centrale sormontato da un timpano, che se rappresenta la versione minuta di quello che corona il sommo spazio di questa complessa opera, differenziandosene per il sapientissimo e originale utilizzo di sole linee rette. Il portale posto a destra, il quale funge da effettivo ingresso all’Oratorio, risulta in asse con il percorso che corre longitudinalmente per tutto il complesso,. Anche in questo caso, riguardo al timpano, il Borromini combina in un unico elemento continuo le differenti linee, in  modo da farle sporgere, rispetto alla parete, per mezzo di un movimento di cangianti cornici.
Tale affascinante visione è riaffermata da due ordinate sequenze di sei pilastri monumentali, i quali si stagliano tra le finestre arcuate dei piani, notando che il profilo si declama in modo differente in ognuno di essi. Al livello della biblioteca è collocata un’alta nicchia concava sotto la quale un elaborato e vivace timpano di pietra impreziosisce la grande porta lignea, cui davanti si apre un balcone ovale. L’aspetto non può non attirare lo sguardo dell’osservatore, preso dalla visibile creatività, sorprendente, del Borromini, seppur non completamente espressa, per i rigidi limiti imposti dai Filippini all’artista, tanto da fargli scrivere nell’Opus:“ Prego chiunque leggerà dette mie observazioni di riflettere ch’io ho dovuto servire una congregatione di anime tal limitate che han tenuto con forza le mani mie via dagli ornamenti e in molti posti ubbidire ho dovuto alla volontade loro anzi all’arte”.   
Il complesso attualmente è oggetto di restauro e di risistemazione, che interessa, per lo più, i bellissimi ambienti interni, cui il grande talento del Borromini è confermato. Almeno, però, il primo cortile può essere ancora ammirato, osservando ad esempio la linea simmetrica, delle finestre, coincidente, altresì nella forma, con l’arcata del cortile stesso mentre il tutto è incorniciato da sottili lesene di pietra e di stucco, che ascendono armoniosamente per i chiari muri, superando le arcuate e vetrate luci.
 

 
 



martedì 9 dicembre 2014

Alessandro Scarlatti: il clima musicale nella Roma barocca; l’oratorio; “Il martirio di S. Cecilia”


Alessandro Scarlatti nasce a Palermo nel 1660, trasferendosi a Roma, con tutta la famiglia, in tenera età. Da allievo musicista frequenta l’Accademia degli Incolti, fondata a Roma nel 1658 -tuttora in attività- la cui denominazione scaturisce dal concetto socratico del “non sapere”, vale a dire quel percorso sconfinato del pensiero che definisce il moto perpetuo della diversificata azione intellettiva dell’uomo, verso quell’insieme di complesse evolventi conoscenze, che si manifestano nella profondità del suo animo.
Nel dinamico ambiente artistico romano trova la naturale collocazione il suo estro, tanto da permettergli un’incessante e portentosa attività sino a essere chiamato da Cristina di Svezia, promotrice di una notevole attività culturale, dalla quale deriverà l’Accademia dell’Arcadia.
Trasferitosi nel 1684 a Napoli e nel 1702 a Firenze, in questo medesimo anno ritorna a Roma, assumendo l’incarico di vicemaestro di cappella della Basilica di S. Maria Maggiore; successivamente (1706) è ammesso tra i membri della citata Arcadia. Dopo essersi recato a Venezia, Urbino, Napoli (soggiornandovi dal 1708 al 1717) ricompare nella Città Eterna prendendovi dimora fino al 1722, circa, ma la sua irrequietezza artistica lo riconduce a Napoli, ove, però, rimane inattivo per il sopraggiungere di nuove espressioni musicali; muore nella città partenopea nel 1725.
Scarlatti è tra i massimi esponenti del melodramma tra barocco e primo ‘700 e, soprattutto, della cantata da camera (influenzando Bach e Handel), della musica strumentale, nonché di quella sacra: messe, responsori –composizioni dal testo in latino dove il canto del solista si alterna con quello del coro-, mottetti -creazioni vocali e strumentali cui il tema religioso è esposto con raffinato linguaggio musicale- e oratori.

Quanto finora descritto introduce al clima musicale di Roma, al tempo di questo grande musicista.

Dalla corte pontificia alle dimore delle famiglie nobiliari e cardinalizie, l’offerta musicale comprende ogni filone vocale strumentale. In tale cornice s’innesta la prassi dell’oratorio, al quale la Curia romana affida il compito di contribuire a riavvicinare i fedeli al credo religioso cattolico. Infatti, la Chiesa dimostra un’evidente sensibilità circa il rinnovamento della musica sacra, come per le altre espressioni artistiche, dal periodo della Controriforma in poi. In questo complesso rapporto tra fede istituzionalizzata e creatività artistica, si deve rammentare il ruolo significativo svolto dalla Congregazione dell’oratorio di S. Filippo Neri (1575) –ispirata all’assemblea di laici e di religiosi sostenuta da S. Gaetano Thiene (Roma, 1517)-, costituita dal cenacolo romano di sacerdoti raccoltosi attorno al Santo e approvata da papa Paolo V (1617). Questa iniziativa religiosa, particolarmente vitale, è compresa nell’ambito delle molteplici attività favorite dalla Chiesa romana per riguadagnare gli animi dei credenti molto affievoliti o lacerati dal dubbio o disorientati da quanto affermato, con forza, dalla Riforma Protestante, che demolisce quasi tutti i millenari e secolari dogmi cattolici. Dalle laudi spirituali intonate negli edifici adibiti a oratori deriva il termine del “genere musicale” oratorio (1630, circa), dall’andamento drammatico o epico-narrativo imperniato sul soggetto sacro. Tale novità mostra l’attivismo sorto a Roma, che ha inizio dall’affermarsi della Controriforma a tutto il XVII e alla prima parte de XVIII secolo, periodo nel quale tutte le arti palesano una variegata magnificenza, un oggettivo splendore. Già intorno alla metà del XVII secolo la committenza, la creazione e la fruizione della musica sacra aumentano considerevolmente, cui il motivo riporta alla figura di S. Filippo, che in luogo di premere sulla paura delle pene dell’Inferno, conduce i gusti del secolo, quasi apparentemente assecondandoli, verso il fine religioso, riavvicinando in tal modo i credenti alla Chiesa. Egli forgia una sorta di travestimento spirituale di quanto si rappresenta nei ritrovi mondani, così frequenti presso la nobiltà (laica e religiosa) ma graditissimi anche alle classi meno abbienti. Questa acuta intuizione intende generare, attraverso la musica, un rafforzamento della vita spirituale riuscendo, contemporaneamente, a divertire. S’impone la lauda, quindi, componimento poetico-musicale in lingua volgare e di carattere popolare, religiosa ma non liturgica, canzone spirituale fiorita nel XIII secolo e in voga, con molte trasformazioni, anche durante i secoli successivi, sino a generare, come già detto, l’oratorio nei primi decenni del XVII secolo, che da Roma si propaga in tutta Italia e poi, soprattutto, in Austria (in particolar modo a Vienna), in Francia, in Inghilterra, insinuandosi anche nel territorio tedesco dominato dalla Riforma Luterana. Il clamore da esso suscitato, risiede nella facilità con cui i testi, di carattere religioso, confluiscono nell’espressione vocale musicata; oltre a ciò il canto (in latino e in volgare) a una voce (monodico) con accompagnamento musicale elaborato, ne permette la trasformazione in una vera intonazione drammaturgica. Mancante di qualsiasi apparato scenico ed elementi a esso collegati (azione teatrale, costumi), si contraddistingue quale forma innovativa di sermone musicale, efficace mezzo volto alla preghiera e all’elevazione spirituale, eseguito da almeno due solisti (monologhi e dialoghi), da un coro (commento), da un insieme di strumenti, soprattutto, ad arco e, in molte composizioni, da una voce recitante che narra il soggetto, sia in latino sia in volgare, tratto dalla Bibbia o da testi devozionali. Vi confluiscono, progressivamente, lo stile arioso “operistico”, gli effetti strumentali del concerto grosso, sino a comprendere, all’inizio del ‘700 che palesa il “nostro” Scarlatti tra i maggiori protagonisti, la successione teatrale aria-recitativo, il da capo – la parte in cui l’autore fa riprendere l’esecuzione iniziale della partitura-, i recitativi strumentalmente accompagnati, “l’arrangiamento” orchestrale descrittivo di natura scenica, la precisa stilizzazione della vocalità, che presenta accenti appassionati e, talvolta, veramente erotici affidati a personaggi femminili come, ad esempio, Maddalena, Giuditta, Susanna. Nel contempo sono aboliti o fortemente ridimensionati alcuni tratti originari (voce narrante, coro) e l’italiano prevale, quasi completamente, sul latino. L’oratorio, quindi, da Roma si espande come tra i più significanti eventi artistici, quindi, non solo del Barocco romano nonché italiano ma dell’intera genesi musicale europea.

 
L’oratorio “ Il martirio di S.Cecilia” e osservazioni sulla figura della Santa in ambito del culto romano

 
Questa composizione, eseguita per la prima volta il 6 marzo 1708 (giorno della seconda settimana di Quaresima), presso l’Oratorio dei Padri Filippini, mirabile edificio del Borromini, solo dopo quattro giorni dal suo completamento, dimostrando la grande abilità dei cantanti e degli strumentisti di porla in atto in così brevissimo tempo, prassi all’epoca assai frequente.
Anche durante il pontificato di Clemente XI (1700-1721) le rappresentazioni di opere non religiose sono spesso vietate, ne discende che il “melodramma sacro” assume per i compositori, perciò anche per Scarlatti, una fondamentale importanza.
La storia di S. Cecilia, fanciulla romana martire, tra il 222 e il 230, è narrata nella “passio” del VI secolo, mentre il culto è attestato soltanto dal V secolo. Secondo la tradizione è una fanciulla nobile divenuta cristiana che, segretamente votata alla verginità, la sera delle nozze esplicita allo sposo, Valeriano, questa ferrea volontà inducendolo alla conversione. La sua storia confluisce così nella “passio” dei martiri Massimo, Tiburzio e Valeriano (suo sposo), che la precedono nel martirio, ordinato da Turcio Almachio prefetto di Roma durante il regno di Alessandro Severo. A causa dell’inesistenza di citazioni, di documenti datati III e IV secolo relativi alla Santa, si è ipotizzato il carattere leggendario del personaggio, la cui storia devozionale è scaturita forse dalla presenza della sepoltura, presso le Catacombe di S. Callisto, di una componente della nobile famiglia romana dei Cecilii. La spoglia mortale della Santa, o di colei che così si è inteso identificare, è traslata da tale cimitero nel IX secolo -per volere di papa Pasquale I- e posta nella basilica ad ella dedicata (Basilica di S. Cecilia in Trastevere). La ricognizione del suo corpo del 1599 la mostra pressoché intatta e la notizia, in poco tempo percorre la città, destando una forte emozione. All’avvenimento si lega un’impressione quasi miracolistica, suggellata dalla Chiesa alla vigilia dell’Anno Santo del 1600. Lo scultore Stefano Maderno, probabilmente, ha occasione di vedere quel corpo, che dipoi rappresenta con notevole finezza, secondo lo stato del particolare accertamento: sdraiata, le braccia stese, le ginocchia sollevate, il capo voltato dalla parte opposta rispetto all’osservatore, con il taglio della scure ben inciso sul collo.
Il Medioevo non conosce il rapporto tra S. Cecilia e la musica. Invero, il protettore di quest’arte, come del canto, è S. Giovanni Battista, poiché alla sua nascita il padre Zaccaria, riavuta la parola, prorompe in un cantico benedicendo Dio (Vangelo di S. Luca, cap. 1, vers. 64). L’assimilazione della Santa con la musica risale all’inizio del XV secolo, apparendo come un errore di interpretazione. Nella sua “passio”, infatti, si legge che il giorno delle nozze “mentre gli organi suonavano, Cecilia, nel suo cuore cantava al Signore”. Questo sorta di travisamento determina un forte impulso devozionale popolare, il quale la elegge patrona della musica; s’inizia a raffigurarla con un organo come suo attributo iconografico e spesso, accanto, compare un angelo mentre stringe in mano uno strumento (organo, liuto e così via).
Queste considerazioni ci riaccompagnano verso l’oratorio creato dal “nostro” Scarlatti.
Il libretto de “Il martirio di S. Cecilia” manifesta un’osmosi compositiva tra la tragedia sacra e le caratteristiche proprie “dell’opera”. Come non notare la figura del prefetto Almachio, perdutamente innamorato di Cecilia, anche a costo di essere considerato un traditore da Alessandro Severo, il sovrano. La vergine, pregna di desiderio mistico, anela di ricongiungersi al suo sposo Valeriano in paradiso, dinanzi alla gloria divina. Il suo “non è martirio/ciò, che a rendermi felice/ si fa oggetto del pensier”. Cecilia, quindi, rappresenta l’esempio di un comportamento che nel XVII secolo indica la virtù cristiana della eroica costanza, la quale libera, purifica l’anima; la creazione artistica formula una visione nella quale gli spettatori possono (ri)trovare il coraggio di affrontare le vicissitudini più gravi dell’esistenza.
Infine, Scarlatti adatta a larga parte dei testi originalissimi recitativi e arie di rilevante effetto.  
 
   
S. Cecilia; particolare dell'organo "Tronci", appartenente al Rev. Franco Amatori; Basilica S. Maria in Via Lata

 
 
 
S. Cecilia; Stefano Maderno; Basilica S. Cecilia in Trastevere (immagine tratta da "Google Immagini") 
 

 

venerdì 5 dicembre 2014

Dedalei tratti di Roma: le cupole, simbologia (in breve)



 
Quando lo sguardo si slancia su Roma, da qualsiasi belvedere, un’improvvisa suggestione coglie l’attento osservatore, cogliendovi il serrato acuto dialogo architettonico fra le numerose cupole, che disegnano lo sconfinato prospetto della Città.
La cupola è stata perfezionata e largamente usata dall’architettura romana, che ha il merito di averne risolto i complicati problemi strutturali, trasmettendo alle epoche successive modelli e impianti costruttivi.
Il paradigma di tale antica alta destrezza è mostrato, tutt’oggi, dalla cupola del Pantheon, monumento riedificato, dopo essere stato distrutto da due incendi, nel 120 d.C. per volere di Adriano, imperatore dal 117 al 138 d.C. Già la dedica del Tempio a tutte le divinità, che il termine Pantheon indica, può ricollegarsi, secondo un’interpretazione derivata da approfonditi studi, a un solo poliformo dio. Infatti, il pensiero di tale grande personaggio storico non cela una sorta di gnosticismo ellenistico, fiorito e mutuato, con proprie caratteristiche, in alcuni ambienti dell’antica Roma. Siamo dinanzi, secondo tale lettura, a una visione di un tutto nel quale sono fuse ogni divinità, emanazioni molteplici di una stessa forza che si manifesta attraverso la natura suprema.
L’insieme della costruzione è basato sulla tecnica che utilizza sapientemente l’arco di scarico, come ben evidenzia la muratura del cilindro supportante la cupola. L’interno -aperto al cielo per mezzo dell’oculo, quest’ultimo tramite dell’epifania della divinità e dell’espansione cosmica- descrive un mirabile gioco di luce globale, che palesa una magnifica proporzionalità dei volumi, richiamando il concetto di divino equilibrio, dal quale scaturisce l’armonia della sapiente audacia architettonica.
Durante il Medioevo, anche a Roma, questa struttura a volta assume dimensioni contenute, mostrando, rispetto a quanto costruito durante il periodo classico romano, una parziale diversa forma; infatti, è posta sopra un cubo (o sopra altro poliedro) a copertura degli spazi di battisteri, oratori ed edifici simili. Altresì in questo caso si manifesta un significato simbolico, che la configurazione obliqua descrive nel richiamare il verso triangolare, il quale rimanda all’unità dell’Uno attraverso le tre dimensioni dello spazio, vale a dire lunghezza, larghezza e profondità, mentre all’interno la volta disegna l’emisfero celeste.
Nelle piccole cupole medievali il relativo oculo è rappresentato dalla pietra angolare, che richiama, come figura geometrica, una piramide a base quadrangolare, il cui vertice si riflette quale raggio solare in ogni angolo della base medesima. Questo elemento architettonico, dunque, compie il coronamento dell’edificio, ne completa la sommità, raffigurando l’azione salvifica di Cristo “pietra angolare”, discesa dal cielo, sulla quale poggia tutto l’edificio della Chiesa, intesa come ecclesia ossia l’insieme dei fedeli.
Filippo Brunelleschi venuto a Roma, una prima volta nel 1402 (con il suo amico Donatello) per ritornarvi successivamente, con il fine di osservare, studiare l'antica architettura romana da cui scaturisce la sua fondamentale tecnica, che gli permette di voltare la grande cupola di S. Maria del Fiore di Firenze senza l’impiego di armature, costituendo un enorme salto qualitativo, dà un impulso alla intensa realizzazione di tale tipologia di copertura –per la maggior parte di grandi dimensioni- impiegata per i luoghi di culto dal Rinascimento in poi. Questa particolare struttura, sviluppata altresì in altezza, comprende un elemento terminale, la lanterna, che richiama il significato architettonico - simbolico dell’apertura circolare, adottata dall’architettura romana per illuminare l'interno dell'edificio, come nel caso del Pantheon. Si mostra quale piccola costruzione generalmente circolare che conclude la cupola. Pur presente durante l’età medioevale, soltanto con il Rinascimento entra nell'uso costante dell'architettura per divenirne elemento comune, come confermano le numerose cupole del tardo Cinquecento e del Barocco. Gli architetti, di questo ampio periodo della storia dell’arte, creano dunque questo “piccolo edificio” come la foggia della cupola stessa, che sormontano, divenendone un completamento imprescindibile. All’interno delle basiliche e delle chiese le notevoli misure della volta, la sua fuga prospettica verso l’alto, configurano la “sommità dei cieli” (insieme delle sfere celesti). A tale riguardo basti pensare, ad esempio, alla cupola della Basilica di S. Pietro, opera magna di Michelangelo, terminata da Giacomo Della Porta in forma più slanciata, sotto la quale è collocato l’altare centrale, incorniciato dal maestoso baldacchino del Bernini, insieme architettonico che allude alla linea retta cosmica, la quale collega il cielo alla terra e viceversa, riconducendo il pensiero alla Divinità incarnata in Cristo, creatore e redentore, che agisce nelle due dimensioni così visibilmente e strettamente unite.
 
 


lunedì 1 dicembre 2014

La mostra “I Papi della Speranza. Arte e religiosità nella Roma del ‘600”: riflessioni





 
 
 

 


Questa esposizione in corso presso il Museo Nazionale di Castel S. Angelo, che ha avuto inizio il 16 maggio di quest’anno -prorogata fino all’11 gennaio 2015-, è articolata in tre sezioni attraverso la Sala di Apollo, l’entrata della Cappella dei SS. Cosma e Damiano, le Sale della Giustizia e di Clemente VIII. La suddivisione dello spazio espositivo illustra, dunque, tre temi: Roma Sancta, il recupero del Cristianesimo delle origini; I Giubilei; Arte e Devozione.

La temperie argomentata trae la sua origine dal Concilio di Trento (1545-1563). Infatti, le disposizioni e le norme sancite dall’adunanza conciliare determinano, nel giro di pochi anni, un iniziale cambiamento sia in ogni aspetto della vita della Chiesa, vale a dire amministrativo, pastorale, missionario, spirituale, nonché nell’espressione artistica a essa correlata. In sostanza, sono definiti, in modo sistematico, i punti fondamentali della dottrina cattolica e inoltre sono accolte rilevanti riforme per riorganizzare e accrescere la globalità del corpo ecclesiastico. Dopo un periodo di acuto travaglio, contenuta con relativo successo la diffusione della Riforma protestante, sono poste in atto grandi iniziative, finalizzate a testimoniare il trionfo della Chiesa Romana, regina del credo cattolico. I papi da Gregorio XIII (1572-1585) ad Alessandro VII (1655-1667), non trascurando Clemente IX (1667-1669), definiscono la nuova forma di Roma, imprimendo nel suo tessuto urbano un forte significato sacro, sottolineando, però, con tale azione la propria “magnificenza” e, spesso, la potenza acquisita dalla propria famiglia nella Città Eterna. L’arte è considerata, a ragione, uno strumento di propaganda politica e religiosa, divenendo esaltazione corale della Chiesa, espressione trionfante della centralità spirituale e culturale di Roma nel mondo cristiano. Gli interessi del nuovo clima si concentrarono nella riscoperta delle origini della comunità dei fedeli e della sua progressiva organizzazione, della vera storia dei martiri, operazione in cui è determinante la figura del cardinale Cesare Baronio (1538-1607) con la sua Historia ecclesiastica controversa, imponente testo noto come Annales ecclesiastici (12 volumi per gli anni 1-1198, elaborati dal 1588 al 1607), autore anche del Martyrologium Romanum (1583). Agli scritti della tradizione, quale fonte di culto, si sostituiscono i documenti, considerati storici, della vita dei primi cristiani, nonché i testi dei grandi santi e mistici, che sorgono intorno alla metà del secolo del XVI secolo: S. Filippo Neri, S.  Teresa d’Avila, S. Carlo Borromeo, S. Giovanni della Croce, S. Maria Maddalena de’ Pazzi e altri. Tra gli ultimi anni del Cinquecento e per quasi tutto il Seicento, la Chiesa, pur abbandonando in modo sempre più evidente il rigore e la semplicità di vita, come intesi negli anni iniziali della Controriforma, passa rapidamente, almeno nelle intenzioni, a un’attività, ancor più intensa, di propaganda e diffusione dei temi cattolici. Ne discende, perciò, il manifestarsi di un rinnovato ardore circa il culto dei santi e quello delle reliquie; oltre a ciò, hanno maggiore impulso le confraternite e le associazioni religiose, si accentua l’attività missionaria. In questo insieme di slanci spirituali, si vuole affermare la continuità storica della Cattolicità Romana con la vita del Cristianesimo dei primi secoli. Da tale concezione scaturisce il restauro della Chiesa dei SS. Nereo e Achilleo (terminato nel 1599), finanziato dal cardinale Baronio, attraverso il quale è realizzato l’intero presbiterio, comprendente i plutei, gli amboni, l’altare e la cattedra, riutilizzando i resti degli antichi elementi architettonici; inoltre, sono realizzati gli affreschi che adornano tutt’oggi l'interno di questo luogo di culto. Un intervento, dunque, “programmatico”, inteso a ricostruire una marcata atmosfera strettamente congiunta con le originarie radici della Religione Cristiana.
Questa corrente idealistica religiosa non può che favorire la ricerca delle remote memorie cristiane, giacenti e nascoste proprio nel “seno” della Città Eterna, sede, riaffermata, del Principe degli Apostoli: il Papa. Tale attività è condotta dall’erudito Antonio Bosio (1575-1629), considerato il primo ricercatore nell’ambito dell’archeologia cristiana. Infatti, esplora e identifica, rischiando talvolta la vita, trentuno, circa, catacombe romane (1593-1629) di persa memoria. Le sue ricerche, corredate da immagini –a cura dei disegnatori costantemente presenti nelle sue “indagini sotterranee”- degli ambienti, delle pitture murali e di quanto rinvenuto, sono pubblicate postume nel 1633 (Roma Sotterranea), successivamente alla revisione del testo e al riscontro dei rilievi, dei monumenti e dei disegni.
 
Arte
Gli artisti sono chiamati a rispondere alle nuove esigenze della Chiesa e ad adottare un linguaggio rispondente a tre concetti basilari: Docere, Delectare, Movere (insegnare, dilettare, suscitare commozione). La loro arte riesce, in via generale, a interpretare compiutamente questo indirizzo di fissare i relativi temi, con resa formale e ideologica protesa a superare, quell’eleganza –che in altra forma comunque permane- considerata artificiosa, mostrata dall’arte rinascimentale sino a quel momento. Si vuole, dunque, favorire un’espressione chiara, comprensibile, pacata e misurata. In sostanza, si desidera rinnovare il linguaggio artistico verso forme più sobrie ed essenziali; la raffinatissima bellezza e le spettacolose libertà formali proprie del Manierismo, affermatosi durante la prima metà del ‘500, sono quindi abbandonate in ambito religioso. Da questa nuova corrente di pensiero discende la copiosa presenza di quadri di devozione privata, destinati all’intimità della meditazione,  il cui stile “arcaicizzante” richiama le opere dell’area franco-fiamminga, raffigurando un intenso patetismo con il proposito di coinvolgere emotivamente l’osservatore. Nel clima di austerità che si vuole instaurare, s’inserisce il  trattato del cardinale Gabriele Paleotti (1522-1597), “Discorso Intorno alle Imagini Sacre et Profane” (1582), nel quale pur difendendo l’importante funzione “esplicativa” concretizzata dalle immagini sacre, indica una riforma della prassi stilistica “de catholici”, la quale deve permettere una lettura più immediata e comprensibile, capace di muovere a profonda devozione gli osservatori, poiché, secondo il suo pensiero gli artisti fino in quel momento hanno “in varii modi corrotto et difformato la dignità”. Inoltre, afferma “l’artista deve sforzarsi di rendere la sua opera idonea a dare diletto, ad insegnare e movere l’affetto di chi la guarda”.
In tale periodo l’azione della Chiesa Romana deve affrontare con vigore, in tutto il suo vasto complesso, le divisioni generate dalla Riforma Protestante; essa stessa è attraversata da profonde riconsiderazioni, dalle quali, ritrovato successivamente parte del suo enorme potere ecclesiastico –ma non di centralità politica- per mezzo di un nuovo sistema organizzativo ridefinisce il suo particolare ruolo e da questo aspetto nasce un’espressione artistica intensa, emozionale e teatrale, che soprattutto a Roma, in quanto sede del Papa, si rileva nelle chiese, nelle cappelle, negli oratori e nei palazzi, ridisegnandone l’aspetto per mezzo di quell’apice fastoso che si definisce nel Barocco.
 
Opere esposte
 
La Mostra comprende volumi, incisioni, monete, sculture, dipinti, bozzetti e così via, che presentano al visitatore una felice composita veduta d’insieme, delle molteplici forme artistiche, quali espressioni del culto religioso.
Tra gli autori con opere in mostra, cito l’Algardi, il Lanfranco, il Borgognone, l’Albani, il Guercino, il Caracciolo, il Pesarese, il Volterrano, il Pozzo (modello per l’altare della Cappella di S. Luigi Gonzaga, presso la Chiesa di S. Ignazio di Loyola), Carlo Rainaldi (tabernacolo per l’altare maggiore di S. Lorenzo in Lucina).
Voglio soffermarmi su due realizzazioni di pittori, generalmente poco frequentati, comprese nell’esposizione. La prima, “S. Caterina da Siena bacia il costato di Cristo” (1580 circa, proveniente dalla Chiesa di S. Lorenzo de’ Speziali in Miranda, luogo oggetto di un mio studio) è un quadro già attribuito a Francesco Vanni (1563–1610) ma da alcuni studiosi ascritto, attualmente, a Giovanni de’ Vecchi (1536-1615) di cui il Vanni è stato allievo.  Vi si ammirano i ricchi colori, i contorni delle figure, che sembrano passare da una composizione di luce all’altra. Il dipinto raffigura un episodio della vita della Santa, accaduto durante una visione estatica in cui, ella, vedendosi accanto al Cristo ne bacia il costato ferito. Il senso simbolico, del fatto mistico raccolto, pone in evidenza il valore salvifico del sangue del Figlio di Dio, uno dei temi principali della dottrina divulgata da Caterina da Siena. Il quadro dispiega, pur con sobrietà compositiva, una scena intensamente drammatica e profondamente spirituale, incentrata sulle due figure primarie, nella loro simultanea azione: la bocca socchiusa della Santa che si avvicina a quel costato con espressione estatica, mentre il viso del Cristo accoglie quel gesto con atteggiamento amorevole, protettivo. Il quadro, recentemente restaurato, ha rivelato una splendida qualità, anche per il pregevole ritratto del committente, nella posizione nota dell’orante in contemplazione della sacra scena, adottata da molti pittori altresì durante l’ottavo e il nono decennio del Cinquecento.
La seconda opera, “S. Carlo Borromeo che adora la SS. Trinità” (1611-1612, proveniente dalla sacrestia della Chiesa di S. Carlo alle Quattro Fontane, altro luogo oggetto di un mio studio), è il capolavoro di Orazio Borgianni (1578-1616). L’immagine, fortemente evocativa, rivela che nell’adorazione del Santo è insita la sua intercessione presso la Trinità a favore dei fedeli. Infatti, egli è raffigurato con la mano sinistra sul petto e quella destra aperta in segno d’implorazione. Il capitello e il rilievo di età romana sottintendono sia l’erudizione di S. Carlo sia il definitivo trionfo del Cattolicesimo sul paganesimo. La tela rappresenta una fase creativa che manifesta l’apice raggiunto dallo stile del Borgianni, per l’evidente pathos, per il magnifico brio  di luce e di colore -in felice dialogo con i toni chiaroscuri-, per la pura lirica soggettività, mossa dal suo sentire, che pervade tutto il dipinto. Infine, per come il protagonista è ritratto in primo piano, avvicina l’artista a una grandiosità pittorica, ove si distingue una mediata cifra caravaggesca. Le immagini delle due tele sono tratte da “Google-Immagini”.