Durante i secoli XI e XII, soprattutto a
Roma, l’architettura volta all'edificazione o alla ricostruzione di luoghi di
culto, recupera un ordine compositivo che intende riproporre modelli
specificatamente proto cristiani, modificandone però alcuni elementi e quindi
presentandoli compiuti attraverso il riadattamento medioevale. Quali esempi di
questo nuovo clima artistico si possono ricordare le Basiliche di S. Clemente, di
S. Crisogono, di S. Maria in Trastevere e di S. Bartolomeo all’Isola
(quest’ultima come la precedente oggetto
di un mio studio).
La Basilica, che si ammira presso l’Isola Tiberina, è stata dunque rifondata durante il pontificato di Pasquale II (1099-1118), permanendone l’impianto complessivo fino ad oggi, vale a dire la ripartizione dell’interno in tre navate, divise da colonne di spoglio e il presbiterio rialzato. Nel corso dei periodi successivi sono eseguiti soltanto interventi di minime modifiche e di piccoli abbellimenti fintanto che, nel 1557, una rovinosa inondazione del Tevere distrugge la facciata con i suoi mosaici, la navata destra, il presbiterio e l’ornamentazione pittorica e musiva.
La Basilica, che si ammira presso l’Isola Tiberina, è stata dunque rifondata durante il pontificato di Pasquale II (1099-1118), permanendone l’impianto complessivo fino ad oggi, vale a dire la ripartizione dell’interno in tre navate, divise da colonne di spoglio e il presbiterio rialzato. Nel corso dei periodi successivi sono eseguiti soltanto interventi di minime modifiche e di piccoli abbellimenti fintanto che, nel 1557, una rovinosa inondazione del Tevere distrugge la facciata con i suoi mosaici, la navata destra, il presbiterio e l’ornamentazione pittorica e musiva.
Di tutto quel complesso decorativo si è salvato,
dallo sconquasso, solo un consistente frammento di mosaico del XII secolo, “Gesù Cristo benedicente”, attualmente
collocato in un ambiente non compreso nella Basilica (ricostruita dal 1570 al
1625 e seguenti lavori del XVIII e XIX secolo).
Di eccellente qualità formale, esaltata dalla
lucentezza dell’oro, questa raffigurazione di Cristo emana uno spesso senso di
trascendenza, per lo scintillio “volutamente surreale” del colore quasi
decomposto dalla chiarità impressa sulle tesselle, che da queste si diparte non
per allontanarsi ma per condurre gli occhi del visitatore verso l’eternità di
quel fondamento spirituale, così descritto. Infatti, il Messia nell’atto di
benedire, con lo sguardo che abbraccia l’infinito, tiene nella sua mano
sinistra le pagine aperte di un passo del Vangelo di S. Giovanni (capitolo 14,
versetto 6) “Ego su(m) via veritas et vita”,
ponendo in risalto con l’espressione “Ego
sum” la pienezza del suo “essere”. Inoltre, la posa che lo ritrae con
entrambe le braccia orizzontalmente distese, indica la Sua costante azione
nell’accogliere in Sé l’umanità, che in Lui trova quella “pietra angolare” su
cui edificare, durante il percorso dell’esistenza, l’ecclesia, la comunità dei fedeli, per congiungersi al termine della
vita con la gloria dell’alto dei cieli.
Cristo, centro del cosmo e del tutto creato, ne è la via.
L’opera esce dai limiti rigorosi della tradizione bizantina -rappresentando una volontà di rinnovamento del linguaggio musivo-, non per ritornare allo schema proprio dell’antica “classicità” romana ma perché comunica il superamento, attraverso un parziale diverso tema cromatico, del bizantismo stilizzato e aulico. Si avverte che, l’elaborazione degli effetti dei colori, appare nei dettagli complessa, come mostra il volto nel quale la colorazione si separa in macchie, create da tessere frazionate, contrastanti; come pure, con medesimo esito, espongono l’adorna tunica e l’irregolare contorno combustivo del libro, tenuto con ferma mano. Tali particolari trovano la loro forza espressiva in questo sparpagliamento, in questa accensione di leggeri eppure intensi fuochi, di bagliori che si corrispondono in zone del campo musivo, secondo un succedersi temporale quasi aritmico e dissonante, echeggiando, non passivamente, gli stilemi della “scuola romana” mostrati nel IX secolo (Basilica di S. Prassede all'Esquilino).
L’opera esce dai limiti rigorosi della tradizione bizantina -rappresentando una volontà di rinnovamento del linguaggio musivo-, non per ritornare allo schema proprio dell’antica “classicità” romana ma perché comunica il superamento, attraverso un parziale diverso tema cromatico, del bizantismo stilizzato e aulico. Si avverte che, l’elaborazione degli effetti dei colori, appare nei dettagli complessa, come mostra il volto nel quale la colorazione si separa in macchie, create da tessere frazionate, contrastanti; come pure, con medesimo esito, espongono l’adorna tunica e l’irregolare contorno combustivo del libro, tenuto con ferma mano. Tali particolari trovano la loro forza espressiva in questo sparpagliamento, in questa accensione di leggeri eppure intensi fuochi, di bagliori che si corrispondono in zone del campo musivo, secondo un succedersi temporale quasi aritmico e dissonante, echeggiando, non passivamente, gli stilemi della “scuola romana” mostrati nel IX secolo (Basilica di S. Prassede all'Esquilino).
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