Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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martedì 24 maggio 2016

La Danae di Correggio


Le “Scuderie del Quirinale” ospitano, sino al prossimo 26 giugno, l’interessantissima mostra “Correggio e Parmigianino. Arte a Parma nel Cinquecento”, che, riguardo al secondo artista, segue quella dedicata a “Raffaello, Parmigianino e Barocci. Metafore dello Sguardo” svoltasi, fino al 24 gennaio di quest’anno, negli spazi di Palazzo Caffarelli.

Tramite questo post intendo volgere l’attenzione a una delle più considerevoli opere esposte nella rassegna in corso: la “Danae” di Correggio, proveniente dalla Galleria Borghese.

Di questo maestro a Roma è conservato soltanto un altro suo lavoro, vale a dire la mirabile “Allegoria della Virtù”, incompiuta tempera su tela (Galleria Doria Pamphilj) definita, in un documento degli inizi del XVII secolo, quale “concerto di varie figure di donne”, probabilmente versione antecedente a quella esposta al Louvre di Parigi.

Antonio Allegri, detto il Correggio (1489, circa - 1534) presente nella “Città Eterna”, come la gran parte degli studiosi oggi suppone, per un breve ma intenso periodo, tanto da apprendere i modi creativi di Raffaello, oltre che di Michelangelo, come dimostra l’impianto iconografico espresso nella “Camera della Badessa” -Giovanna da Piacenza- del Convento benedettino di S. Paolo a Parma (1519, circa), in cui le soluzioni raffaellesche sono rielaborate con un linguaggio personale.

In sostanza, nella sua cifra si avverte il forte respiro della classicità, quell’alternarsi dialogico di proporzioni e di spazi da cui fluisce un rigoglioso confronto con “l’antico”, proponendo una pregevole levigatezza cromatica, la quale conferisce fluidità alle forme circonfuse dalla tenue aura dello sfumato, diffondendo un nuovo e acuto sentire, che supera pose connotate da affettata dolcezza e da astratta grazia, che egli, invece, manifesta attraverso un cambio di visione, in un impianto di squisita classicità, carattere questo che può prendere forma soltanto con il contatto diretto con la grandezza e la maestosità delle antiche memorie artistiche romane, con l’enfatica estensione delle superfici, esterne e interne, architettoniche, risonanze che s’imprimono su quanto realizzano i diversi autori.

La poetica del Correggio accoglie la figurata morbidezza, identificandola però attraverso un’evocativa suggestione, nutrita da una naturalezza interpretata attraverso accostamenti, i quali trasmutano i personaggi raffigurati in “vera carne”, superando, concretamente, l’erudita aulica citazione del modo derivante dall’antichità; i contenuti pittorici perciò dissigillano un sentimento di verità e di vita.

Se il disegno, nella sua epoca, agisce come valore normativo, egli, ammorbidendone e sfumandone i contorni, volge il suo linguaggio verso una figurazione di moti e di “affetti”, espandendo le forme e unendo i personaggi in una sorta d’insieme di graduali sovrapposizioni, sfocianti in una piena circolazione di movimenti affettivi, che coinvolgono lo spettatore sollecitandone i sensi. Questo fecondo ingegno, caratterizzante le opere correggiane, costituisce quasi un proemio di quella vitalità creativa e di spessa presa emotiva, che saranno elementi, tra altri, propri del Barocco. Un prototipo dunque, una traiettoria colma di nuovi contenuti “semantici”, i quali dissuggellano l’afflato artistico esponendo un’intima vocazione affettiva, che congiunge inscindibilmente fra loro i protagonisti raffigurati e questi al circostante ambiente dipinto. L’esito di questa efficacia rappresentativa è compiuto nelle immagini, che sembrano muoversi con vivido animo, dove alloggia un reale sentimento umano, così individualmente irrepetibile.

Della statuaria classica, il nostro pittore, predilige i modelli ellenistici derivanti da quella duratura evoluzione, che sbocca nell’accentuazione curvilinea di profili, di sagome, di contorni così capaci di esprimere “l’affetto”, questo inteso quale penetrante espressione psicologica della figura umana, moto dell’animo pur attraverso soggetti di carattere erotico o più finemente sensuale. Impiegando segni grafici arrotondati e sinuosi, il Correggio riesce a vivificare quell’intimo sentire che sorge nella e dall’azione disegnata, non solo nelle forme carnose e impregnate di luce, tratti distintivi delle immagini “profane” ma altresì in quelle a carattere sacro, -egli è “silenziosamente” eccelso anche in tali temi di riferimento- che ne confermano la prodigiosa poetica tangibilità, organizzando anche semplici però studiatissimi schemi, in cui la tensione emotiva, che avvolge le figure, infonde compattezza e pienezza alle azioni, dove le decorazioni delle vesti –suntuose e ondulate, “empaticamente partecipi” del cardine della scena- o la disposizione dei panneggi, che avvolgono, spesso in parte, le nude membra disegnate in pose composte ed eleganti, sono consegnati alla vista con particolare dovizia e pur gli oggetti più semplici della quotidianità trovano, accurata, dignità interpretativa. Nella sua sacralità dipinta insiste una palpitante naturalezza, assai difforme dalla muta reinterpretazione degli esempi forniti dagli schemi classici.

Nei lavori, il Correggio, riversa una cultura pittorica e mitologica avanzata, nella quale convergono, in una personale e originale sintesi, i “rimandi” a modi raffaelleschi e a “misure” michelangiolesche, la conoscenza della scultura antica, -paradigmatica dei corpi belli e floridi- gli echi leonardeschi per la finezza espressiva e il “metodo” veneto, che dalla fine del XV secolo inizia a esporre una nuova stesura del colore. Questi “dati” assieme acquistano un notevole personale spessore negli argomenti delle sue pitture, dagli accenti d’innocente tenerezza, di sensuale leggiadria e di felice immediatezza, complessità “animata” non da tutti compresa durante l’intero scorrere del XVI secolo. Proprio la percezione dell’intelletto per mezzo dell’esperienza dei sensi, rappresenterà quasi un primigenio margine di ciò che svilupperà, come detto, il verso espressivo barocco.

Il Vasari descrive “Antonio da Correggio” come “suggetto alle fatiche di quella (dell’arte) e grandissimo ritrovatore di qualsivoglia difficultà delle cose … Et egli fu il primo, che in Lombardia (così identificata altresì la parte della Pianura Padana a sud dell’attuale regione lombarda e dunque anche Correggio, città natia dell’artista) cominciasse cose della maniera moderna … nessuno meglio di lui toccò colori, né con maggior vaghezza o con più rilievo alcun artefice dipinse meglio di lui, tanta era la morbidezza delle carni ch’egli faceva, e la grazia con che e’ finiva i suoi lavori … per questo il Correggio merita gran lode avendo conseguito il fine della perfezione ne l’opere … le quali … vedendo Giulio Romano, disse non aver mai veduto colorito nessuno ch’aggiungesse a quel segno: l’uno era una Leda ignuda (Leda e il cigno, oggi allo Staatliche Museseen di Berlino) e l’altro una Venere, (da identificarsi con la Danae “romana”) sì di morbidezza colorito e d’ombre di carne lavorate, che non parevano colori ma carni … né mai lombardo fu che meglio facesse queste cose di lui, et oltra di ciò, capegli sì leggiadri di colore e con finita pulitezza … condotti, che meglio di quegli non si può vedere”.

Il Correggio, pittore dell’amorevolezza spirituale, della storia sacra calata in maniera convincente in una profonda atmosfera d’intimità quotidiana ma anche d’intenso e vivo dolore. la cui lettura unisce, nobilmente, la sofferenza interiore con l’afflitta voce esteriore che è udibile dallo spettatore, come asserisce Francesco Scannelli (Microcosmo della pittura, 1657), è anche l’autore di un erotismo ideale, anticipando molti artisti anche dei secoli successivi. Infatti, la sua pittura rispecchia quell’interesse, generatosi con ” dotto respiro” nel corso del Rinascimento, per l’estasi e la pratica amorosa; in quest’epoca gli amori degli dei divengono un mezzo fissato con autorevolezza dall’ambiente intellettuale, che ha riscoperto, particolarmente, l’Ars Amatoria di Ovidio, fine opera didattica composta tra il termine del I secolo a. C. e l’inizio del I secolo d. C., già bene accolta da tutta la società raffinata della Roma antica, il cui argomento è incentrato sulla conquista dall’amata e dell’amato e sulla “metodica” per serbare acceso l’amore. Quel lodato testo, proveniente dal passato, assume carattere di praticabile possibilità di figurare, con libertà, degli episodi sessuali, altrimenti inibiti dall’èthos corrente; proprio da tale temperie il nostro artista trae ispirazione e l’amore sensuale diviene un soggetto molto frequentato dalle sue raffigurazioni; il “clima” erotico viene realizzato in sue numerose opere, oltre che dalle azioni e dagli atteggiamenti, dalle espressioni estatiche. Una palese fusione tra sensualità, mai lasciva, e immagine del sesso nel contesto amoroso; il gesto dell’erotismo non si palesa nella nudità, quale valore autonomo, poiché il Correggio offre visivamente quella carnalità illustre attraverso una visione grandangolare seducente e la solida sensazione d’imminenza dell’atto, scena creata per essere guardata da vicino, in una stanza, solitamente appartata dal resto dei vani della dimora nobiliare. Su quel medesimo “obiettivo” convergono quegli incarnati così reali e dai levigati profili, che sembrano ammantati soltanto di “dolce aria” grazie a un virtuosismo, non soltanto “tecnico”, tale da dirigere la sua mano, con bravura massima, nelle difficili masse pittoriche, come annota di nuovo il Vasari: ” E fece della pittura grandissimo dono ne’ colori da lui maneggiati come vero maestro, e fu cagione che la Lombardia aprisse per lui gl’occhi, dove tanti belli ingegni si son visti nella pittura, seguitandolo in fare opere lodevoli e degne di memoria; perché mostrandoci i suoi capegli fatti con tanta facilità nella difficoltà nel fargli, ha insegnato come e’ si abbino a fare. Di che gli debbono eternamente tutti i pittori …”. I capelli nei suoi dipinti sono morbide ciocche d’oro ramato, o di oro chiaro e brillante di morbidi riccioli, o ancora d’oro brunito, come le chiome della “Danae” che lievemente cadono su una spalla. Sua è la capacità illusionistica che raccoglie dal “mondo naturale”, tradotto con forte intensità, dalla sua poetica, con sorprendenti esiti.

Riguardo a questo ultimo dipinto lo storico dell’arte, Giovanni Morelli, nel suo libro Della pittura italiana, studi storico critici. Le Gallerie Borghese e Doria Pamphili in Roma (1897) asserisce che: ” Non conosco nessun’opera moderna la quale per questo rispetto (l’espressione del sentimento) abbia più diritto d’essere posta accanto alle creazioni artistiche dei Greci. Probabilmente l’opera (compresa nella “serie” degli Amori di Giove) è commissionata da Federico II Gonzaga, duca di Mantova e marchese del Monferrato, ed eseguita tra il 1531 e il 1533; essa ulteriormente mostra un eminente equilibrio fra contenuto e forma, come se, la vicenda artistica corregesca, volesse concludersi (egli morirà intorno ai 45 anni, il 5 marzo 1534) con le cadenze di un erotismo esplicito però soffuso, in una gloria durevole ove si aduna l’ammirazione di molte voci tra cui quella di Stendhal, il quale nella sua Histoire de la peinture en Italie (1817) ne esalta “la gràce” e anche “la volupté” e “le beau idéal moderne”. 

L’azione svolta in questa tela s’ispira a un brano mitologico, secondo il quale Danae figlia di Acrisio, re di Argo, è rinchiusa in una torre dal padre, affinché non concepisca un figlio, avendo saputo da un oracolo che questo lo ucciderà. Vana però si rivela la sua precauzione poiché Giove, innamoratosi della giovane donna, a lei si unisce sotto forma di pioggia d’oro, rendendola madre di Perseo.  

L’episodio è “allestito”, dal Correggio, in una stanza da letto aperta da una spaziosa luce, spalancata su un etereo e indefinito paesaggio, che rappresenta uno dei suoi rari lavori in cui la raffigurazione non sia narrata “all’aria aperta” -mostrando ugualmente convincenti sfumature di luce e naturale compiutezza- e il solo a essere del tutto disegnato in un interno domestico. Questa particolarità consente di scandire il “tratto antico” dell’immagine nella sua interezza, come esplicita la minuziosa descrizione del letto, reminiscenza reinterpretata di quel mondo greco-romano. Proprio in quell’antico  lido l’artista conduce lo spettatore, cui si svela Danae come candida Voluptas, -figlia di Cupido (Eros) e di Psiche- dove ella colta nell’atto di congiungersi, con il re degli dei, non esibisce alcuna movenza volgare, nessuna aria provocante la pervade né lei diffonde, pur se completamente opposta a qualsiasi immagine che mostri pudicitia.

Il Lomazzo, nell’ammirare l’interrotta attrattiva di quest’opera, scrive nel suo “Trattato dell’arte de la pittura, scoltura et architettura di Giovan Paolo Lomazzo milanese pittore, diviso in sette libri ne’ quali si discorre de la proportione, de’ moti, de’ colori, de’ lumi, de la prospettiva, de la pratica de la pittura, et finalmente delle istorie d’essa pittura” (1584) che “per l’eccellenza de’ lumi sono non meno meravigliosi due quadri di mano d’Antonio da Correggio … nell’altro Danae e Giove che gli piove in grembo in forma di pioggia d’oro, con Cupido et altri amori, co’ lumi talmente intesi, che tengo di sicuro che niuno altro pittore in colorire et allumare possa agguagliarli …”. Personaggio di risalto della cultura artistica italiana, della seconda metà del XVI secolo, nelle Rime (1587) ancora egli elogia la liricità plastica del Correggio con questi versi: ” Te sopr’human pittor nominar posso,/ tanto nel colorar fosti primario./ Ciò mostrar … di Danae con l’oro addosso./ … in viso gaio con amor gode de l’or c’ha nel scosso./Questi son tali, che da mortal mano/non paion pinti ma da man celeste./E in lodar, lor ogn’un s’adopra in vano./Ne meno son l’altre opre vaghe e deste,/che sono uscite dal Correggio humano./Ma fan l’altre del mondo restar meste”.

Il pittore sceglie di raffigurare, la protagonista, come una giovane poco più che adolescente, ponendo al suo fianco un “genio”, lo spirito d’amore -richiamo a Cupido, arguta felice idea del Correggio- sul cui viso, rivolto verso il cielo, è impressa una “serena vicinanza affettiva”; egli è l’intermediario celeste di questo incontro altro, sollevando con la mano sinistra il niveo lenzuolo e, con l’aperta palma di quella destra, sembra “avvertire” le aure gocce indicando il pube della fanciulla. Questa a sua volta, con lieve gesto, tiene il candido telo, delicatamente trattenuto per un istante; non esprime né paura né stupore per l’evento straordinario che sta per concretarsi, mentre le sue eburnee nude membra, così scoperte, sono percorse dai suoi quieti occhi. Sollevata da molli cuscini, un accennato sorriso accompagna il suo sguardo in un’armonia di tenui seni, di ventre adagiato, di aperte gambe che stanno per essere, completamente, “liberate” dal panno. L’azione scenica viene assolta per mezzo di un sapiente dosaggio dei colori limpidi, che sui tessuti stesi sul talamo accrescono il suo perlaceo colorito. Tutto canta alla letizia e alla tenue, delicata gaiezza che scaturisce da una sottile profondità psicologica, la quale vuole Danae attiva spettatrice del suo stesso snudare e nel contempo dilettata ammiratrice, forse un po’stupita, del suo morbido corpo. Ignara della presenza dello spettatore (che si pone innanzi alla tela), sorride appena tra sé e sé accingendosi ad accogliere il signore di tutti gli dei, tanto vicino all’osservatore medesimo da essere segretamente percepito nella sua intimità. I capelli della mitologica principessa, come li abbiamo già ammirati, sono ordinati entro boccoli ma non rigidamente, anzi cadono con soave naturalezza giù dalla nuca posandosi sulla spalla destra: ella è veramente viva e non apparenza immaginata.

L’intera atmosfera si rivela incantevole, serena, piena di nitido tepore, che la presenza, non ovvia, dei due amorini amplia, i quali, citando ancora il Vasari: ” … che de le saette facevano prova su una pietra, quelle d’oro e di piombo, lavorati con bello artificio …”.  Essi ritraggono una colta citazione del pittore, rivolto all’episodio di Apollo e Dafne incluso nelle Metamorfosi di Ovidio, ove, per volontà di Cupido, è consegnato al dardo d’oro il suscitare dell’amore e a quello di piombo il rifuggire di questo sentimento. Fine dicotomia effigiata dalla seria laboriosità dei due amorini, interamente presi dalla loro “prova” esercitata su una “lavagnetta” di ardesia, resi, molto gradevolmente, indifferenti allo stupefacente accadimento in atto alle loro spalle.

Il gioco dei putti è un tratto particolare nella maggioranza delle opere correggiane, di carattere mitologico, mutuato dalla tradizione antica, ben visibile e sviluppato in modo autonomo; i fanciulli sono raffigurati in diverse pratiche, con il visetto tondo e serio, il piccolo naso, l’ampia fronte, i riccioli dorati, tratti fisionomici ricorrenti e confermati nel “nostro” quadro, in cui la spontaneità espressiva e gestuale risalta da quell’angolo estremo inferiore, così posti a chiusura della tela per evidenziare la continuità spazio-temporale dentro e davanti alla scena dipinta.

L’intatto fascino della Danae scorre negli animi delle generazioni artistiche e non solo, attrattiva sgorgata da quella cifra stilistica che Anton Raphal Mengs, uno dei maggiori riformatori della pittura in gusto neoclassico, esalta con questa frase: ”niuno, se non è Michelangelo seppe al pari di Correggio la scienza delle forme e la costruzione della forma umana".


Immagine tratta da "Google immagini"