Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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lunedì 29 giugno 2020

Pierre Legros, detto il Giovane o Pierre II Legros: la statua di S. Francesco Saverio nella Basilica di S. Apollinare, euritmico mosaico di arte e di storia religiosa

L’opera oggetto di questo post è collocata nella Basilica di S. Apollinare alle Terme Neroniane Alessandrine, luogo cultuale così appellato poiché prossimo al sito termale voluto da Nerone. Edificato tra il 60 e il 64, ma ricostruito da Alessandro Severo nel 227, occupa dunque una vasta zona compresa tra la piazza antistante il Pantheon (piazza della Rotonda) e corso del Rinascimento (oggi corrispondente al segmento che giunge a via S. Giovanna d’Arco, dunque limitrofa a piazza delle Cinque Lune). Il riferimento toponomastico deriva molto probabilmente da un documento del X secolo, dove la si menziona chiesa non distante dall’area dell’edificio severiano: “non longe ab ecclesia sancti Apolinaris in templum Alexandrini.
Luogo di culto dedicato al santo che, secondo la tradizione, accompagna S. Pietro da Antiochia a Roma e poi consacrato vescovo di Ravenna (il primo di questa città) dallo stesso apostolo, che pertanto gli affida l’evangelizzazione di quel territorio. L’originaria chiesa in suo onore, eretta in Roma, è costruita tra la metà del VII e gli inizi del VIII secolo, per poi essere riedificata, come si ipotizza, da Adriano I intorno al 780, che altresì vi fonda accanto un monastero, accogliente alcuni monaci orientali rifugiatisi, nella “Città Eterna”, a motivo delle persecuzioni iconoclaste avvenute nell’impero bizantino dall’anno 726 all’anno 842. Dal 1284 vi è attestato un collegio di canonici, ad essi affidato sino al 1573, mentre la basilica diviene parrocchia intorno al 1562 e tale perdura fino al 1824. La sua elevazione a titolo cardinalizio -abolito intorno al 1585 ma ristabilito nel 1935- e la conseguente residenza (XIV-XVI secc.) dei relativi porporati, nell’attiguo edificio, determina che, soprattutto dalla seconda metà del Quattrocento alla prima metà del Cinquecento, essi abbelliscano e arricchiscano tutto il complesso. Il titolo di basilica indubbiamente soddisfa le condizioni, insite in tale appellativo, di antichità e di valore artistico e religioso, con un clero appropriato a un’attività liturgica, richiedente una maggiore solennità; in tale ambito è costante quindi la presenza di rendite cospicue, che danno vita a preziose ornamentazioni e arredi cultuali.
Nel 1560 vi alloggia la prima scuola della Confraternita della Dottrina Cristiana (fondata nel medesimo anno), successivamente trasferita nella Chiesa di S. Agata in Trastevere. Nel gennaio 1574 Gregorio XIII affida sia la basilica sia il palazzo ai Gesuiti quali strutture del Collegio Germanico, cui nel 1580 si congiunge quello Ungarico, costituendosi il Collegio Germanico-Ungarico seminario di giovani destinati alla vita ecclesiastica -nella Compagnia di Gesù- provenienti da quelle terre, istituto che pertanto svolge le sue attività formative (sarà in fertile unione con il Collegio Romano), per l’appunto, nell’edificio contiguo a quello basilicale. Particolare cura è riservata, in quegli ambienti, alla musica; infatti, gli allievi, sapientemente condotti da illustri maestri di cappella, sono molto considerati per le loro esecuzioni nel seno dei sacri riti e nelle rappresentazioni dai temi religiosi. Tra i musici maestri lì in azione si deve rammentare Giacomo Carissimi, del quale ho argomentato nel post del 25 settembre 2017, Giacomo Carissimi nella definizione dell’oratorio, sottolineandone la rimarchevole personalità artistica, tra le predominanti del XVII secolo. 
I Gesuiti reggono il complesso sino al 1773, anno in cui è soppresso questo Ordine. Un decreto di Napoleone emanato nel 1811, durante l’occupazione francese di Roma (1809-1814), vi trasferisce l’Accademia di S. Luca, che nel 1825 viene collocata, da Leone XII, in una parte dell’edificio della “Sapienza” -affacciato sull’attuale corso del Rinascimento-, l’Università di Roma già antico Studium Urbis. Lo stesso pontefice assegna quindi il Palazzo di S. Apollinare al Pontificio Seminario Romano. Nel 1849, nel corso della brevissima parentesi riguardante la Seconda Repubblica Romana (9 febbraio-4 luglio), all’Apollinare è allogato il Ministero delle Finanze.
Nel 1853 Pio IX fa edificare l’ampia sala di lettura sopra la basilica - oggi Aula Cardinal Joseph Hoffner, insigne porporato tedesco - aggiungendo all’edificio due piani -ala del Palazzo prospettante su corso del Rinascimento- per il Seminario Pio da lui fondato, che vi rimane sino al 1913 quando si trasferisce al Complesso del Laterano. Tra questo anno e il 1920 si stabiliscono, all’Apollinare, i Lazzaristi, la Congregazione della Missione voluta, nel 1625, da S. Vincenzo de' Paoli. Essi provengono dalla loro “casa” demolita per l’ampliamento del Palazzo di Montecitorio, sede del Parlamento Italiano. ai quali succede nel 1920, per volontà di Benedetto XV, il Pontificio Istituto di S. Apollinare (liceo-ginnasio), che condivide l'edificio con un'altra istituzione scolastica.
In questo palazzo, in differenti momenti della sua vicenda storica, vi hanno svolto gli studi Eugenio Pacelli (futuro Pio XII) e Angelo Roncalli (futuro Giovanni XXIII), così come i futuri cardinali Ugo Poletti, Agostino Casaroli, Alfons Maria Stickler, Achille Silvestrini e altri. Da rilevare ancora che, Giuseppe Melchiorre Sarto, anch’egli futuro pontefice (Pio X), viene consacrato vescovo di Mantova proprio nella basilica di S. Apollinare, il 16 novembre 1884.
In stagioni più recenti vi sono state ospitate diversi altri soggetti ecclesiastici, finché nel 1990 il complesso –ex territorialità dello Stato della Città del Vaticano- è assegnato alla Prelatura -cui la natura è incentrata su particolari finalità pastorali- della Santa Croce e Opus Dei, struttura che perciò officia la basilica ed espleta nel palazzo contiguo le attività del Pontificio Ateneo della Santa Croce, centro accademico relativo a materie ecclesiastiche.
Luogo quindi dal copioso affluire storico e religioso, da cui l'arte si eleva con musicalità di rime incise nella mura, negli spazi, nelle plastiche partiture, che la riedificazione -voluta da Benedetto XIV- della basilica, eseguita da Ferdinando Fuga (1741-1748), sillaba aprendosi al visitatore con la Cappella della Vergine, piccolo tempio autonomo, rispetto alla navata unica basilicale che prospetticamente incede sino all'altare maggiore. L’affresco della Vergine, col Bambino, Regina degli Apostoli tra i Ss. Pietro e Paolo (seconda metà sec. XV, autore sinora ignoto) con la sua temperata solennità, espone, in modo incisivo, l’intimo sentire dei personaggi rappresentati, testimoniando la vivezza artistica e cultuale già manifestata dall’antica basilica, cui la nuova ne coglie la luce per propagarla, in rinnovata temperie, verso nuove stagioni.
Il complesso (basilica-palazzo) però già alla fine del XVI sec. si palesa, nell’insieme, in condizioni degradate e interventi costruttivi sono realizzati in quel periodo, insufficienti però a salvaguardarne l’effettiva consistenza strutturale, l’aulico decoro. Paolo Marucelli (autore del progetto dell’attuale facciata di Palazzo Madama) è l’architetto incaricato, dai Gesuiti, a riedificare quasi completamente il palazzo, cui ne dà forma tra il 1638 e il 1642, circa (ma l’edificio sarà ancora ricostruito dal Fuga durante i lavori della basilica), mentre nel 1690 la stessa Compagnia di Gesù inizia ad ideare il rifacimento dell’adiacente tempio. Sarà, come già accennato, soltanto Benedetto XIV il quale, durante una visita al Collegio Germanico-Ungarico avvenuta il 25 luglio 1741, pronuncia, secondo una testimonianza dell’epoca, un “lungo discorso sopra la poca proprietà, oscurità, humidità della chiesa, che per essere antichissima era veramente miserabile … mostrò desiderio che si rifabbricasse di nuovo, e però talmente che poco vi mancò che non la comandasse, et esortando a rifabbricarla aggiunse che lui havrebbe fatto a sue spese l’Altar Maggiore” , come realmente per esso sosterrà.
Viene scelto dunque il Fuga, già architetto, dal 1730, dei Palazzi apostolici e, tra altri autorevoli incarichi, sarà Architetto del Popolo romano (1747) -nel 1762 sarà altresì nominato primo architetto della corte Borbone a Napoli-, come lo sono stati ad esempio Michelangelo, Giacomo Della Porta, Girolamo e Carlo Rainaldi. Egli possiede arguta capacità di sostanziare, nei corpi architettonici, le aspettative scaturite dalle esigenze tipiche di preminenti istituzioni, poiché la sua valente esperienza gli consente di padroneggiare tipologie edificatorie ove articola un sapiente controllo tecnico, giovandosi anche di un’attitudine che lo estrinseca quale formidabile organizzatore di “fabbriche”. Queste sue caratteristiche sono incise nell’attuale insieme basilica-cortile-palazzo, dove l’ampio sviluppato spazio include visibili elementi barocchi, impaginati con sintesi di motivi in rigorosa ornamentazione, che, per la basilica medesima, si modella in riuscita rilettura di quanto architettonicamente “codificato” -seconda metà del Cinquecento- dalla Chiesa del Santissimo Nome di Gesù (all’Argentina), nota come Chiesa del Gesù.
Dalla demolizione -e dispersione dell’insieme ornamentale- circa il precedente sito cultuale, titolato a S. Apollinare, sono risparmiati il citato affresco della Vergine, diversi reliquiari e la statua di S. Francesco Saverio, scultura del parigino Pierre Legros, il Giovane, detto anche Pierre II Le Gros (1666-1719).
Egli muove i primi passi nella scultura quale allievo, soprattutto, del padre, Pierre Legros. Arriva in Roma nel 1690 -successivamente al riconoscimento di miglior giovane scultore (1686) - ai fini del suo perfezionamento artistico presso l’Accademia di Francia; “l’Urbe” diverrà poi la sua definitiva residenza. La sensibile poeticità di quanto inizia ad esprimere la sua cifra, configurante composite incidenze, traccia distinguibili segni artistici, che non sfuggono a una perspicace committenza, quale in tal periodo si manifesta l’Ordine dei Gesuiti. Difatti, la sua prima notevole opera è realizzata esattamente nella Chiesa del Gesù (transetto di sinistra), vale a dire il gruppo statuario -di veemente sentimento “barocco” in rilevante chiave “ classicista”-, la Religione che flagella l’Eresia (1696, circa), che gli suscita un rapido favore, confermato dall’assegnazione della monumentale -ma non enfatica- scultura argentea di S. Ignazio di Loyola contornato da Angeli (1697, circa); essa purtroppo sarà fusa al termine del Settecento, nel corso dell’occupazione francese proclamante la Repubblica Romana (1798-1799), rimanendone solo la pianeta. Ciò che oggi si vede è, delle parti sottratte, il ripristino, conforme all’originaria impostazione, in stucco argentato, lavoro eseguito intorno al 1817 dallo studio di Antonio Canova. Tali lucenti opere si incastonano nel pregevolissimo altare (1695-1697, circa), vetta tra gli apici del gesuita Andrea Pozzo. Ancora con “Fratel Pozzo”, come spesso questi viene appellato (ha professato i voti religiosi nel 1676), Pierre Legros è il coprotagonista nell’ulteriore mirabile vertice architettonico -l’altare dominante il transetto destro della Chiesa di S. Ignazio di Loyola- con la sua ariosa e lucentissima opera scultoria: Gloria di S. Luigi Gonzaga, pala marmorea dell’altare, dedicato per l’appunto a questo santo. Altare compiuto, con tutto il complesso apparato, dal 1697 al 1688; se ne ammira la foggia leggermente concava, l’insieme di magistrale capacità compositiva, che, della creatività di Andrea Pozzo, rappresenta un’eclatante novità dell’ultima fase del “barocco”, riportando clamore altresì fuori dall’Italia. Soltanto come inciso, in questa sede, rammento la complessa ed eccelsa impresa pittorica che il Pozzo stesso immortala in tale chiesa (dal 1685), cominciando dalla celeberrima finta cupola, soluzione pittorica consona calla maestosità architettonica (e ornamentale) dell’edificio. L’idea però è già stata avanzata da Carlo Maratta, il pittore di sinfonici accordi cromatici, ma la verosimigliante dipinta struttura viene fattivamente concepita e messa in opera da “Fratel Pozzo”, risultato di sue ardue valutazioni prospettiche. Egli sino al 1702 -anno in cui lascia Roma- in tale tempio effigia altre sommità quali sono i pennacchi, l’imbotte e il catino dell’abside, la grande volta illusoriamente aperta alle profondità celesti e altro ancora. Chiesa ove si presentano, come un particolare arcobaleno, registri e semantiche completezze che distribuendosi risolvono superbamente il suddividersi degli imponenti volumi, generando variazioni cromatiche e morfologiche, vertiginose modulate spazialità. Con il mio post imperniato sulla “Chiesa di S. Ignazio di Loyola in Campo Marzio (cenni su Antonio Pozzo): l’affresco della “Annunciazione” della Sacrestia “(26 settembre 2015), ho affrontato parte di queste artistiche peculiarità, così vibranti in quegli ambienti. 
Legros, chiamato a collaborare strettamente in alcune opere del religioso artista, quindi non può che padroneggiare, scolpendo il marmo, capacità modellante armonici piani con vitalità pittorica, in una lucida sintesi di ritmi briosi, di sfumante slancio e di commossa dolcezza.  
Ora però, abbandonando lo sguardo su altre opere dello scultore francese, rivolgendoci nuovamente alla Basilica di S. Apollinare, è maggiormente percepibile, a mio avviso, che in essa vi sia la testimonianza, di uno scultore, indubbiamente non secondario e che, il vasto “preambolo” finora scritto, ha inteso rilevare, come in precedenza affermato, l’importanza storico-artistica di questo tempio, all’epoca affidato, come si è detto, alle cure dei Gesuiti. In Roma perciò esso si pone in forte dialogo con il “Gesù” e con “S. Ignazio”.
La navata unica, della Basilica, è percorsa da un fervido silenzio, spalancato sull’ampio presbiterio; in entrambi i lati stanno tre cappelle, l’ultima del fianco destro è dedicata a S. Francesco Saverio già nel 1696, quando comprende altra ornamentazione. La nuova, concernente la volta, viene eseguita intorno al 1742, come i due Putti collocati sul timpano, cui la forma sembra suggerire, quale autore fra diversi nomi, Bernardino Ludovisi. Nella nicchia dell’altare è posta la statua di S. Francesco Saverio di, per l’appunto, Pierre Legros, il Giovane (segue immagine), eseguita entro il 1702, anno coincidente, come precedentemente scritto, con la partenza, da Roma, di Andrea Pozzo. 


Al Pozzo sono attribuiti due raffigurazioni -dagli oggettivi caratterizzanti tratti “pozziani”- nell’originaria biblioteca dell'attiguo collegio, trasformata poi in cappella (attualmente adibita a sala di riunioni), sita al piano primo dell’adiacente palazzo (oggi del Pontificio Ateneo della Santa Croce). In tale locale vi campeggia sul soffitto un dipinto a tempera, Incoronazione della Vergine, mentre un quadro, Immacolata Concezione (già pala d’altare), infiora una parte. Forse Del Pozzo ne sono solo i disegni, ascrivibili agli ultimi anni del periodo romano, pittoricamente realizzati, in seguito, da un suo collaboratore.
L’intervento plausibile di “Fratel Pozzo” altresì in questo ambito, dimostra il pieno coinvolgimento del “nostro“ Pierre nei progetti della Compagnia gesuitica, grazie alle splendide opere che già si ammirano nelle più volte citate Chiese del Gesù e di S. Ignazio, discendendone pertanto -come inversa e indiretta prova- la quasi certezza della “presenza” di Andrea Pozzo nella su citata cappella.
Ora lo sguardo si posa sulla scultura di S. Francesco Saverio, rivelandosi opera che in sé racchiude ogni verso della poetica di Legros, benché, apparentemente, si presenti con un respiro dimesso, rispetto alla potente resa plastica, magnificamente vibrante nelle precedenti menzionate opere. Anche questa invece emana una rimarchevole sensibilità modellata in forma, che svela profondità psicologiche così indaganti il personaggio raffigurato.
Lo spagnolo Francesco Saverio, cardine della Societas Iesu, è nel suo primigenio nucleo. Straordinario missionario, espone il Vangelo alle eminenti culture orientali, adeguandolo, con erudita e schietta consapevolezza evangelica, all'animo delle diverse popolazioni locali. Secondo alcune fonti, egli avrebbe battezzato oltre 30.000 persone.
La statua in S. Apollinare lo rappresenta con l’amato crocifisso -copia moderna- e con un granchio ai suoi piedi (segue immagine), richiamando un episodio fronteggiato dal santo gesuita. Nominato da Paolo III nunzio apostolico di tutti i paesi asiatici, nell’aprile del 1541, egli salpa dal Portogallo per le Indie. Il circumnavigare l’Africa però si evidenzia evento sommamente tribolato, poiché il durevole perdurarne (13 mesi circa) causa penuria di cibo e anzitutto d’acqua; penosa condizione affiancata da una canicola estrema oltre che da bonacce e da improvvise burrasche. La nave -Santa Croce- resta immobile in pieno mare, senza che spiri minimo alito di vento; ogni persona a bordo patisce la sete per l’acqua potabile ormai mancante. Francesco Saverio però non cessa di pregare, esortando tutti ad unirsi al suo fare. Divinamente ispirato, scende, con alcuni membri dell’equipaggio, dall’imbarcazione e su una scialuppa ordina di immergere un recipiente nell’acqua marina, che poi benedice. Quell’acqua diviene miracolosamente dolce e perciò bevibile; tra giubilanti grida si riempiono tutti i contenitori stivati nella nave ma, durante i relativi frenetici generali movimenti, il missionario gesuita smarrisce in mare il suo crocifisso. Sconfinato dolore lo percuote tanto da muovere a compassione Cristo stesso, il quale consente che un granchio, recuperandolo, glielo porga sulla riva, una volta sbarcato. Questa scena è rappresentata in una lunetta dell’atrio afferente all’Oratorio detto del Caravita -prossimo alla Chiesa di S. Ignazio-, tratta dalle Storie di S. Francesco Saverio dipinte da Lazzaro Baldi (1671-1673).


Accadimento dalla densa andatura devozionale, però dalla salda valenza simbolica strettamente coniugata alla figura del Saverio. Discende, tale sottile segno di riconoscimento, da quanto avviene allo scudo dorsale del granchio. Invero, il suo carapace viene, in alcune specie, periodicamente perso e mutato e rinnovato, in contemporaneità con la primavera e con l’autunno, raffigurando dunque, nella simbologia cristiana, la resurrezione dal sepolcro, pertanto la rinascita attraverso il battesimo fondato sulla certezza della anàstasi, precisamente la resurrezione, alla fine dei tempi, dei morti, come asserisce S. Paolo: “… ignorate voi che … siamo stati battezzati in Cristo Gesù, che siamo stati battezzati nella sua morte? Noi siamo dunque stati con lui seppelliti mediante il battesimo nella sua morte, affinché come Cristo è resuscitato dai morti, mediante la gloria del Padre, così anche noi camminiamo in novità di vita. Perché, se siamo divenuti una stessa cosa con lui per una morte somigliante alla sua, lo saremo anche per una resurrezione simile alla sua …” (epistola ai Romani, capitolo 6, versi 3-5). Questa precisa immagine simbolica del granchio guida al parallelismo, paolino, Adamo-Cristo:” Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita(I epistola ai Corinzi, capitolo 15, versi 21-22). A tal riguardo, S. Tommaso d’Aquino, l’illuminato filosofo e teologo del XIII sec., argomenta che” Gesù Cristo non è venuto sulla terra … per morire; egli è venuto per unirci a lui e per associarci al suo trionfo … La morte non è che la metà dell’opera redentrice, che reclama la risurrezione come suo complemento necessario … Senza la risurrezione la fede non ha il suo vero oggetto; senza la risurrezione il battesimo non ha il suo completo simbolismo”.  Si evidenzia, percorrendo l’irto ma chiaro sentiero dell’intera figurazione, del senso in essa contenuto, quanto sia, come detto, attinente all’operoso fervore del santo gesuita.
La statua evoca una morbida enfasi pittorica -decisamente ancora di respiro seicentesco- nell’ondeggiante panneggio (segue immagine); contraddistingue, il volto, una luminosa plasticità aperta ad un armonioso ed efficace sentimento, preso da un’eloquente comunicazione divina (segue immagine). L’ammirevole perizia, dello scultore, ne esclude l’impostazione di scontata passionalità, al contrario effonde un sublime -ma frenato- momento di contatto, misterioso, con il divino attraverso un’avvolgente meditazione.   



La sua è un’osmosi in cui affluiscono, con fini elementi accademici, l’impeto derivato dalla scuola berniniana e la sensibilità classicista pronunciata da Alessandro Algardi, che pure a sua volta non è scevra, talvolta, di influssi derivati da Gian Lorenzo Bernini.
In tal modo si legge quella sembianza densamente plastica del viso e le mosse pieghe dei tessuti; ogni particolare è pervaso di una luce, che ne intride la forma instillando alla scultura un intenso carattere pienamente espressivo, che ne muove una transizione, continua, da scultura a pittura e viceversa.
Abile dosaggio delle attitudini artistiche di Pierre Legros, il Giovane, volte a elevare un’evidente profondità psicologica, anche in questo caso, della rappresentazione, in una mistica atmosfera, in un atto di reale contemplazione, per la particolare consistenza della trama scultoria, che ne mostra l’icastica intuizione condotta con accenti delicati ma vividi, dettagliatamente studiati ma schietti in ogni passaggio dell’opera, che rende tangibile l’immaterialità della fede.
 
Ringrazio il Rev. don Antonio Rodríguez de Rivera, Rettore della Basilica di Sant'Apollinare, 
per la gentile autorizzazione circa la pubblicazione delle immagini comprese in questo post


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