Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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lunedì 20 giugno 2016

Il Grand Tour a Roma di Felix Mendelssohn-Bartholdy

Immagine tratta da "Google immagini"




Il viaggio verso le città europee, di maggiore interesse artistico e culturale, appellato Grand Tour, distintivo di uno specifico momento storico, viene stimato come esperienza fondamentale del percorso di maturazione intellettuale dei giovani, sia appartenenti a famiglie estremamente colte, sia dediti all’esercizio dell’arte. Già praticato, nel corso del XVII secolo, dai rampolli di nobile schiatta britannica, si dilata nel XVIII secolo per il favore decretato da altri paesi dell’Europa, godendo di enorme credito e seguito sin quasi alla fine del successivo XIX secolo. In breve tempo, tra le mete da raggiungere, s’impone l’Italia e in particolar modo Roma, che dispiega ai visitatori i suoi suggestivi e monumentali resti archeologici, le sue pregiatissime collezioni di pittura, di scultura antica e di “mano moderna”. In questo elevato alveo si colloca, ad esempio, l’Accademia di Francia istituita nella “Città Eterna” nel 1666 per volere di Luigi XIV, dove perfezionano la pratica artistica giovani valenti borsisti, vincitori del Prix de Rome, o nominati meritevoli dal re e protetti dalla più influente aristocrazia francese. Inizialmente aperta solo ai pittori e agli scultori, nel 1720 vi si aggiungono gli architetti nonché nel 1803 i musicisti e, l’anno successivo, gli incisori.
Di tale fervore caratterizzante quei secoli, in cui “l’Urbe” conferma il suo culmine, non può sottrarsi Jakob Ludwig Felix Mendelssohn-Bartholdy (1809-1847), compositore dall’ingegno ferace, nipote del filosofo Moses (applaudito da Kant) e figlio del ricchissimo banchiere Abraham (convertito al cristianesimo, di osservanza luterana, aggiungendo all’originario cognome un secondo, Bartholdy). Personaggio di straordinaria cultura, di ampissime capacità (padroneggia diverse lingue) e di versatilità talentuosa, tanto da permettergli di cimentarsi, con brillanti esiti, nel disegno e nella pittura, quando giunge a Roma (1830) durante il suo primo viaggio italiano, è già un musicista acclamato. Infatti, egli irretisce il pubblico oltre che per le sue indubbie doti di autore, di pianista, di interprete – come non rammentare il suo grande merito di dare fondamentale impulso alla Bach Renaissance- e di direttore di orchestra (inaugurando tale ultima figura in chiave moderna), anche grazie alla sua inesauribile comunicativa, alla sua congenita simpatia. Per alcuni mesi alloggia in una casa affacciata su Piazza di Spagna (edificio cui è assegnato il numero civico 5) e intensamente partecipa a quelle, “aurate”, feste incorniciate nei bagliori propri dei saloni, che svelano ancor più i palazzi nobiliari romani. Incontra il ventisettenne Hector Berlioz (cui poco prima è stato conferito il Prix de Rome) a Villa Medici (dal 1803 sede dell’Accademia di Francia), consulta la vasta e pregevole collezione musicale del presbitero e compositore Fortunato Santini, s’inebria alla vista delle numerosissime ricchezze architettoniche, di quelle estetiche luci manifeste nelle pitture e nelle sculture, non trascurando la particolare chiarità diffusa dal paesaggio circostante; visioni che rafforzano quel suo sentimento verso l’Italia così espresso: ” E’ quella che ho sempre pensato che fosse la gioia più grande della vita, fin da quando sono stato in grado di pensare …”.
A Roma il suo personale gusto, la sua acuta sensibilità musicale vi trovano dimora, insieme alle sue belle maniere che tanto affascinano. Quelle reali vivaci vedute su cui il suo sguardo si ammalia soffermando su Piazza di Spagna, sulla lucente poesia architettonica di Trinità dei Monti, sul Pincio, su Ponte Nomentano avvolto dalla dolce e struggente campagna romana e su quanto altri diversificati “tesori” mostrano, gli suscitano note di immensurabile bellezza. Viaggiatore “cortese”, anche in questo ambiente continua dunque a musicare, ad abbozzare sue composizioni impregnate perciò di suggestioni, in sé raccolte durante il suo “vagabondaggio” formativo, come dimostra la Sinfonia n. 4 in la maggiore, op. 90 (detta l’Italiana), iniziata proprio a Roma e completata, a Lipsia, agli inizi del 1833. Invero, in una lettera del 21 febbraio 1831, scritta dalla “nostra Città”, così egli rivela riguardo a questa composizione: ” Essa procede alacremente; è il lavoro più gaio che io abbia mai finora composto, specialmente nel finale”. Le sue quattro parti esemplificano la riuscita bilanciata sintassi tra un brioso sentimento derivato dalla travolgente natura italiana (primo movimento Allegro vivace; quarto e ultimo movimento Saltarello, Presto) e un temperato sentire nordico (secondo movimento Andante con moto; terzo movimento Con modo moderato). Felicissima combinazione dove respirano cangianti sentimenti, densi dialoghi, vibranti duetti, consistenti andamenti contrappuntistici ma anche inafferrabile grazia e lievi toni. Nel tempo più distintivo e paradigmatico di tutta la sinfonia, il Saltarello, viene liberamente espresso e rievocato il movimento rapido e quasi frenetico di tale danza tanto popolare a Roma (e in altre zone dell’Italia Centrale), dal vivace ritmo, riprodotto attraverso un tema magnificamente esuberante che fluisce su una cadenza di note reiterate, in una spigliatissima atmosfera colma quindi di brio e di gioioso eccitato moto. Questo ballo così stilizzato rappresenta una vera prova di abilità strumentale, caratterizzata dall’ondoso tumulto delle terzine degli archi, dagli audaci brani in staccato dei legni, dal trionfo ritmico che però non deborda in toni di incontrollata ebbrezza.
Mendelssohn s’immerge in quei marcati turbini di corpi associati alla musica, osservandoli negli angoli dei quartieri popolari di Roma, in cui uomini e donne erompono l’innata esuberante vitalità, misurando la loro fisica prontezza nell’agilità “tersicorea”. Lo immaginiamo seduto nella più rinomata osteria di Trastevere, Cucciarello alla Scentarella di Piscivola, sita fino al 1870, circa, nell’odierna Piazza in Piscinula, frequentata non soltanto dai trasteverini ma altresì da coloro che vogliono conoscere, de visu, i veridici costumi di quei romani, poiché essi vi ballano, per l’appunto, il “Saltarello e ve cantano” (come riporta una cronaca dell’epoca).
Quanto fortemente s’imprima nell’animo, del musicista tedesco, la vicenda incisa dalla “Città Eterna”, lo testimonia un’altra lettera (8 novembre 1830) indirizzata alla sua famiglia, dove afferma: ” Oggi dovrei scrivervi dei primi otto giorni passati a Roma, di come procede la mia vita … quale impressione sulle prime abbiano suscitato in me questi divini dintorni … provo un senso di tranquillità, di gioia e anche di serenità, che non vi saprei descrivere. Non so neanche dirvi esattamente che cosa produca in me questa sensazione. Il terribile Colosseo, il luminoso Vaticano e la dolce aria primaverile vi contribuiscono e così pure l’affabile popolazione … Per farla breve, mi sento diverso: sono felice e in buona salute come mai da lungo tempo, provo una tale gioia e sento una tale energia per quanto concerne il mio lavoro che penso di portare a compimento qui molte cose che avevo iniziato, poiché mi sento veramente in forma … Immaginate una piccola casa con due finestre al n. 5 di piazza di Spagna, che per l’intero giorno è illuminata dai caldi raggi del sole … la mattina me ne sto alla finestra e guardando verso la piazza vedo come ogni cosa alla luce del sole si stagli nitidamente contro il cielo azzurro. Quando la mattina presto … appare il sole splendente … ciò suscita in me una sensazione infinitamente piacevole, poiché invero siamo già in autunno inoltrato e chi da noi potrebbe pretendere ancora il caldo, il cielo sereno, grappoli d’uva e fiori? Dopo colazione, mi metto a lavorare e suono, canto e compongo fino a mezzogiorno. Poi mi rimane l’obbligo di godere tutta l’immensa Roma; mi dedico a questo impegno con estrema lentezza e ogni giorno scelgo qualcosa di diverso in questo patrimonio della storia del mondo. Un giorno vado a passeggio tra le rovine della vecchia città, un altro alla Galleria del principe Borghese o al Campidoglio, oppure a S. Pietro o al Vaticano. Ogni giorno è così indimenticabile e, a mano a mano che il tempo passa, ogni impressione si fa più forte e intensa … Quando mi trovo là, non vorrei andarmene via e così ciascuna delle mie impressioni mi procura la gioia più pura e un piacere si sussegue all’altro …”.


    


Gaetano Cottafavi: Piazza di Spagna. Acquaforte, prima metà terzo decennio XIX secolo (immagine tratta da "Google immagini")