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Il viaggio verso
le città europee, di maggiore interesse artistico e culturale, appellato Grand Tour, distintivo di uno specifico
momento storico, viene stimato come esperienza fondamentale del percorso di
maturazione intellettuale dei giovani, sia appartenenti a famiglie estremamente
colte, sia dediti all’esercizio dell’arte. Già praticato, nel corso del XVII
secolo, dai rampolli di nobile schiatta britannica, si dilata nel XVIII secolo
per il favore decretato da altri paesi dell’Europa, godendo di enorme credito e
seguito sin quasi alla fine del successivo XIX secolo. In breve tempo, tra le
mete da raggiungere, s’impone l’Italia e in particolar modo Roma, che dispiega
ai visitatori i suoi suggestivi e monumentali resti archeologici, le sue
pregiatissime collezioni di pittura, di scultura antica e di “mano moderna”. In
questo elevato alveo si colloca, ad esempio, l’Accademia di Francia istituita
nella “Città Eterna” nel 1666 per volere di Luigi XIV, dove perfezionano la
pratica artistica giovani valenti borsisti, vincitori del Prix de Rome, o nominati
meritevoli dal re e protetti dalla
più influente aristocrazia francese. Inizialmente aperta solo ai pittori e agli
scultori, nel 1720 vi si aggiungono gli architetti nonché nel 1803 i musicisti
e, l’anno successivo, gli incisori.
Di tale fervore
caratterizzante quei secoli, in cui “l’Urbe” conferma il suo culmine, non può
sottrarsi Jakob Ludwig Felix Mendelssohn-Bartholdy (1809-1847), compositore
dall’ingegno ferace, nipote del filosofo Moses (applaudito da Kant) e figlio
del ricchissimo banchiere Abraham (convertito al cristianesimo, di osservanza
luterana, aggiungendo all’originario cognome un secondo, Bartholdy).
Personaggio di straordinaria cultura, di ampissime capacità (padroneggia
diverse lingue) e di versatilità talentuosa, tanto da permettergli di
cimentarsi, con brillanti esiti, nel disegno e nella pittura, quando giunge a
Roma (1830) durante il suo primo viaggio italiano, è già un musicista acclamato.
Infatti, egli irretisce il pubblico oltre che per le sue indubbie doti di
autore, di pianista, di interprete – come non rammentare il suo grande merito
di dare fondamentale impulso alla Bach
Renaissance- e di direttore di orchestra (inaugurando tale ultima figura in
chiave moderna), anche grazie alla sua inesauribile comunicativa, alla sua
congenita simpatia. Per alcuni mesi alloggia in una casa affacciata su Piazza
di Spagna (edificio cui è assegnato il numero civico 5) e intensamente
partecipa a quelle, “aurate”, feste incorniciate nei bagliori propri dei
saloni, che svelano ancor più i palazzi nobiliari romani. Incontra il
ventisettenne Hector Berlioz (cui poco prima è stato conferito il Prix de Rome) a Villa Medici (dal 1803
sede dell’Accademia di Francia), consulta la vasta e pregevole collezione
musicale del presbitero e compositore Fortunato Santini, s’inebria alla vista
delle numerosissime ricchezze architettoniche, di quelle estetiche luci manifeste
nelle pitture e nelle sculture, non trascurando la particolare chiarità diffusa
dal paesaggio circostante; visioni che rafforzano quel suo sentimento verso
l’Italia così espresso: ” E’ quella che
ho sempre pensato che fosse la gioia più grande della vita, fin da quando sono
stato in grado di pensare …”.
A Roma il suo
personale gusto, la sua acuta sensibilità musicale vi trovano dimora, insieme
alle sue belle maniere che tanto affascinano. Quelle reali vivaci vedute su cui
il suo sguardo si ammalia soffermando su Piazza di Spagna, sulla lucente poesia
architettonica di Trinità dei Monti, sul Pincio, su Ponte Nomentano avvolto
dalla dolce e struggente campagna romana e su quanto altri diversificati
“tesori” mostrano, gli suscitano note di immensurabile bellezza. Viaggiatore
“cortese”, anche in questo ambiente continua dunque a musicare, ad abbozzare
sue composizioni impregnate perciò di suggestioni, in sé raccolte durante il
suo “vagabondaggio” formativo, come dimostra la Sinfonia n. 4 in la maggiore, op. 90 (detta l’Italiana), iniziata proprio a Roma e completata, a Lipsia, agli
inizi del 1833. Invero, in una lettera del 21 febbraio 1831, scritta dalla
“nostra Città”, così egli rivela riguardo a questa composizione: ” Essa procede alacremente; è il lavoro più
gaio che io abbia mai finora composto, specialmente nel finale”. Le sue quattro parti esemplificano la
riuscita bilanciata sintassi tra un brioso sentimento derivato dalla
travolgente natura italiana (primo movimento Allegro vivace; quarto e ultimo movimento Saltarello, Presto) e un temperato sentire nordico (secondo
movimento Andante con moto; terzo
movimento Con modo moderato). Felicissima
combinazione dove respirano cangianti sentimenti, densi dialoghi, vibranti
duetti, consistenti andamenti contrappuntistici ma anche inafferrabile grazia e
lievi toni. Nel tempo più distintivo e paradigmatico di tutta la sinfonia, il Saltarello, viene liberamente espresso e
rievocato il movimento rapido e quasi frenetico di tale danza tanto popolare a
Roma (e in altre zone dell’Italia Centrale), dal vivace ritmo, riprodotto
attraverso un tema magnificamente esuberante che fluisce su una cadenza di note
reiterate, in una spigliatissima atmosfera colma quindi di brio e di gioioso
eccitato moto. Questo ballo così stilizzato rappresenta una vera prova di
abilità strumentale, caratterizzata dall’ondoso tumulto delle terzine degli
archi, dagli audaci brani in staccato dei legni, dal trionfo ritmico che però
non deborda in toni di incontrollata ebbrezza.
Mendelssohn
s’immerge in quei marcati turbini di corpi associati alla musica, osservandoli
negli angoli dei quartieri popolari di Roma, in cui uomini e donne erompono
l’innata esuberante vitalità, misurando la loro fisica prontezza nell’agilità
“tersicorea”. Lo immaginiamo seduto nella più rinomata osteria di Trastevere, Cucciarello alla Scentarella di Piscivola,
sita fino al 1870, circa, nell’odierna Piazza in Piscinula, frequentata non
soltanto dai trasteverini ma altresì da coloro che vogliono conoscere, de visu, i veridici costumi di quei
romani, poiché essi vi ballano, per l’appunto, il “Saltarello e ve cantano” (come riporta una cronaca dell’epoca).
Quanto
fortemente s’imprima nell’animo, del musicista tedesco, la vicenda incisa dalla
“Città Eterna”, lo testimonia un’altra lettera (8 novembre 1830) indirizzata
alla sua famiglia, dove afferma: ” Oggi
dovrei scrivervi dei primi otto giorni passati a Roma, di come procede la mia
vita … quale impressione sulle prime abbiano suscitato in me questi divini
dintorni … provo un senso di tranquillità, di gioia e anche di serenità, che
non vi saprei descrivere. Non so neanche dirvi esattamente che cosa produca in
me questa sensazione. Il terribile Colosseo, il luminoso Vaticano e la dolce
aria primaverile vi contribuiscono e così pure l’affabile popolazione … Per
farla breve, mi sento diverso: sono felice e in buona salute come mai da lungo
tempo, provo una tale gioia e sento una tale energia per quanto concerne il mio
lavoro che penso di portare a compimento qui molte cose che avevo iniziato,
poiché mi sento veramente in forma … Immaginate una piccola casa con due
finestre al n. 5 di piazza di Spagna, che per l’intero giorno è illuminata dai
caldi raggi del sole … la mattina me ne sto alla finestra e guardando verso la
piazza vedo come ogni cosa alla luce del sole si stagli nitidamente contro il
cielo azzurro. Quando la mattina presto … appare il sole splendente … ciò
suscita in me una sensazione infinitamente piacevole, poiché invero siamo già
in autunno inoltrato e chi da noi potrebbe pretendere ancora il caldo, il cielo
sereno, grappoli d’uva e fiori? Dopo colazione, mi metto a lavorare e suono,
canto e compongo fino a mezzogiorno. Poi mi rimane l’obbligo di godere tutta
l’immensa Roma; mi dedico a questo impegno con estrema lentezza e ogni giorno
scelgo qualcosa di diverso in questo patrimonio della storia del mondo. Un
giorno vado a passeggio tra le rovine della vecchia città, un altro alla
Galleria del principe Borghese o al Campidoglio, oppure a S. Pietro o al
Vaticano. Ogni giorno è così indimenticabile e, a mano a mano che il tempo
passa, ogni impressione si fa più forte e intensa … Quando mi trovo là, non
vorrei andarmene via e così ciascuna delle mie impressioni mi procura la gioia
più pura e un piacere si sussegue all’altro …”.
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Gaetano Cottafavi: Piazza di Spagna. Acquaforte, prima metà terzo decennio XIX secolo (immagine tratta da "Google immagini")
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