Il
dipinto Morte di Seneca, assegnabile alla bottega di Luca Giordano (1634–1705),
è compreso nel complesso dei beni artistici custodito dalla Camera dei deputati,
vale a dire l’insieme delle opere d’arte presenti all’interno delle diverse sedi
di tale Organo legislativo. L’esclamante cromatica spazialità di questa opera,
distesa in un compositivo respiro, ordina le figure in una successione di moti
trepidanti intorno al morente filosofo, cui lo sguardo, invece ancora sereno,
esprime saggezza trasformandosi da rappresentazione pregna di teatralità a
virtù -la virtus latina, vale a dire la forza-, come narra la cronaca
della sua morte. Così il pensiero corre a Tacito, che negli Annales (XV,
60-64) descrive il trapasso di Seneca, filosofo e scrittore latino, quasi un
epigono, in tal estremo episodio della sua vita, di Socrate -condannato a morte
attraverso autoavvelenamento-, che non altera, altresì in quella tremenda
circostanza, la pacata e chiara espressione del viso secondo quanto descritto
da Platone nel Fedone (114d-118a). Il filosofo greco accetta il verdetto
impostogli, non fugge dal carcere per non distruggere le leggi (Platone, Critone
49a–50a), andrà perciò incontro alla morte, poiché non tiene in massima
considerazione il vivere come tale, bensì il vivere secondo virtù e giustizia (Critone,
46d - 47e).
Lucio
Anneo Seneca (4 a.C.-65 d.C.), addentro alla vita di corte, già arricchito
precettore e successivamente consigliere di Nero Claudius Caesar Drusus
Germanicus, ossia Nerone, sullo sfondo di brutalità, crudeltà mosse da
intrighi, macchinazioni, agisce in un’età che si dimena tra stridenti antinomie.
Egli stesso viene accusato -senza alcuna fondante prova- quale partecipe di un
complotto, ai danni proprio dello stesso imperatore Nerone (65 d.C.), mentre nei
precedenti tre anni è assorto in studi, in profonde riflessioni, nel silente
ritiro dalla vita pubblica, nell’alveo filosofico stoico dove cogliere i modi
con cui conoscere la realtà, unificata dall’azione ordinatrice: la ragione. Il
pensare è facoltà che sostiene la conoscenza e perciò il giudizio, formulato
rapportando gli elementi mostrati dalle figurazioni (considerati valori
astratti), impressioni fornite da ciò che si pone dinanzi all’animo, imponendo
ad esso una mutazione. Conoscendo quindi la realtà si svela l’etica definente i
principi – fondamentali- da seguire, il modo del procedere umano, giacché aderente
al regolare criterio ordinato esattamente dalla realtà stessa.
Lo
stoicismo è scuola di rilevante influenza nella società romana che, nei suoi
intrinsechi accenti, osanna la dignità e la libertà individuale; lo stoico
quindi è, a sua volta, raffiguramento ideale dell’uomo votato a
tale sentire, insensibile al male fisico, saldo nell’affrontare voluta morte, quando
si estrinseca unica via sprezzante “i guasti”, considerati avvelenamenti
esercitati dal mondo a lui esterno.
Il
suicidio di Seneca appare conforme a tale visione ultima, quale morte di
illustre personaggio, che si sottrae a un atto di pena capitale altrimenti concretabile
da “un agente esterno”, come sembrerebbe esplicitato “tra le righe” della
condanna emessa per cospirazione contro l’imperatore.
Con
questo post mi propongo di argomentare alcuni aspetti del suo pensiero
-del su citato dipinto ne accennerò ulteriormente in conclusione-, tralasciando
ora la scena del suo atto estremo, il veglio filosofo che recide le sue vene,
poi avvolto da asfissianti fumi, sicuro nella sua seraficità in attesa di
esalare l’ultimo respiro.
Seneca,
il letterato, filosofo e drammaturgo che giganteggia su altre “figure” durante
l’intero I sec. e ancora, successivamente, la sua sarà autorevole voce -di una
cultura stoica- talvolta incoerente per l’altalenante, complicato, drammatico
confronto con il sistema imperiale, che lo spingono in innegabili allentamenti
-se non in cadute e in gravi paternità di eventi tragici- circa “l’impegno
filosofico-morale”, non intaccando però le profondità delle sue convinzioni,
che quindi resistono, avvicinandolo con maggiore interiore intensità alla più
schietta sympatheia, il compiersi, con soggettiva inclinazione
sentimentale, di una comunione universale percepibile per mezzo della buona
coscienza. La sua dialettica è svolta distante dalle erte cime cosmologiche,
metafisiche, teologiche per fondarsi invece sui versanti dei caratteri insiti
nella morale, su un’articolata pragmatistica riva, laddove un’assiepata
casistica è disegnata da intimi enigmi umani, che egli investiga quali arcani
abissi di microcosmi dove si cela una scintilla dell’universale brillante luce.
Uomo rivolto ai suoi simili abbracciando uno spirito di fratellanza, con il
quale trovare saviezza e probità, intessuto di un’avvertita spiritualità che
respirerà pur nei primi secoli del Cristianesimo, scandendosi altresì nel
Medioevo e non abbandonato dall’Umanesimo, che afferma, Seneca, paradigma
ammantato di ethos insieme a Marco Tullio Cicerone, il quale nell’ultimo
suo componimento filosofico -tra i più celebrati-, De officiis, argomenta
su come l’uomo debba agire nell’ambito della morale -moralis-, in quanto
soggetto attivo nello stato.
Spiritualità
pagana, può essere definita, la visuale insita nei concetti senechiani, che
dettero vita alla raccolta -elaborata per lo più nel corso del IV sec.- delle
quattordici false lettere intercorse tra S. Paolo e, per l’appunto, Seneca, che
a lungo sarà considerato, dalla tradizione e non solo, un cristiano con una
fervida amicizia con l’apostolo.
Nella
acclamata opera, Lettere a Lucilio, il filosofo espone un’elevatissima
“sensibilità spirituale” capace di avvertire, di comprendere le incongruenze e
gli abbagli umani -errori copiosi pur e maggiormente negli animi
più sensibili-, individuando però il percorso affinché le contraddizioni e i tracolli,
segnanti le vita dell’uomo, siano sopravanzati. Già l’avvio di questo trattato
-che accorda lo stoicismo con alcuni lidi filosofici, tra i quali il
platonismo- ne scandisce la sostanza:” Comportati così, Lucilio
mio, rivendica il tuo diritto su te stesso e il tempo che fino ad oggi ti
veniva portato via o carpito o andava perduto,
raccoglilo e fanne tesoro. Convinciti che è proprio così, come ti scrivo: certi
momenti ci vengono portati via, altri sottratti e altri ancora si perdono nel
vento. Ma la cosa più vergognosa è perder tempo per negligenza. Pensaci bene:
della nostra esistenza buona parte si dilegua nel fare il male, la maggior
parte nel non far niente e tutta quanta nell'agire diversamente dal dovuto”.
Nel
suo ritiro precorrente la morte, egli scruta le proprie esperienze di uomo
addentro al corteggio imperiale, dirette, in gran parte, a trasmutare i suoi
atti in progetto filosofico, con il quale congegnare la sembianza, del sovrano,
circonfusa dalla perfezione, che permetta allo stesso regnante di adoperarsi,
nella sua assolutezza, per il bene dell’impero, dunque esiliando qualsiasi
manifestazione di volontà, emessa da qualunque ente a lui esterno, come il
senato. L’ideale dell’illuminato governo imperiale viene esaltato, da Seneca,
nel De clementia -dedicato a Nerone-, che ne
disegna l’unicità; un bacino aperto corrispondente al principio di razionalità
universale, alla legge di armonia e alla dinamica opera del divenire che ordina
e governa l’universo: a tale positivo moto il principato deve essere autentica rispondenza.
Il monarca, rischiarato da questa luce, rigetta la dissolutezza,
l’atteggiamento dispotico, instaurando con i sudditi un rapporto incardinato
sulla clemenza, sulla rettitudine:” Tengo nascosta la severità e sempre
pronta, invece, la clemenza; sorveglio me stesso, come se dovessi poi render
conto alle Leggi, che ho richiamato dalla dimenticanza e dalle tenebre alla
luce. Prima mi sono commosso per la tenera età di uno, poi per l’anzianità
dell’altro; ad uno ho perdonato per la sua dignità, ad un altro per la sua
umiltà; ogni volta che non ho trovato una ragione di misericordia, ho
risparmiato per me stesso. Oggi sono pronto, se gli dei mi chiedono il conto,
ad enumerare tutto il genere umano" (De clementia,
proemio IV).
Seneca
influente uomo di corte, pur nell’eminente posizione che gli garantisce
ricchezze e potere, non cessa di evidenziare la superiorità dei principi
spirituali; infatti nel De beata vita (IV) –ove sostiene che la reale
felicità è sostanziata nell’esercizio della virtù e non dal possesso dei beni
materiali- si legge:“ Ma si può definire ancora dicendo felice quell'uomo
per il quale il bene e il male non sono se non un animo buono o un animo
cattivo, che pratica l'onestà, che si compiace della virtù, che non si lascia
esaltare né abbattere dagli eventi fortuiti, che non conosce altro bene più
grande di quello che lui stesso è in grado di procurarsi, per cui il piacere
più vero sarà il disprezzo dei piaceri. E se vuoi dilungarti, si può ancora
presentare lo stesso concetto sotto vari e diversi aspetti, lasciandone intatto
il valore; che cosa, infatti, ci vieta di dire che la felicità consiste in un
animo libero, elevato, intrepido, saldo, che lascia fuori di sé timore e
cupidigia, che considera unico bene l'onestà e unico male la turpitudine e
tutto il resto un vile coacervo di cose che non tolgono né aggiungono nulla a
una vita felice e che possono venire o andarsene senza accrescere o diminuire
il sommo bene? A un comportamento così saldo, si voglia o no, seguirà una
ininterrotta serenità e una profonda letizia che nasce dall'intimo, perché si
rallegra di quel che ha e non desidera nulla di più di quanto le è proprio
Ebbene, tutto questo non ripaga ampiamente i meschini, futili, effimeri moti
del nostro fragile corpo? Il giorno in cui si sarà schiavi del piacere lo si
sarà anche del dolore; e tu vedi a quale spietata e funesta schiavitù dovrà
soggiacere colui che sarà posseduto alternativamente dai piaceri e dai dolori,
i più capricciosi e dispotici dei padroni; quindi bisogna trovare un varco
verso la libertà. E nessun'altra cosa può darcela se non l'indifferenza nei
riguardi della sorte: allora nascerà quel bene inestimabile, la pace della
mente che si sente al sicuro, e l'elevazione spirituale, e, una volta scacciati
i timori, dalla conoscenza del vero una gioia grande e immutabile e l'amabilità
e la disponibilità dell'animo, che di queste cose godrà non in quanto beni, ma
in quanto nate da un bene che è suo proprio”.
L’imperturbabilità
è dote del sapiente, colmo della sua coscienza morale, che estraniandolo dal
male lo ripara da ogni vituperazione (De costantia sapientis); serenità
del sapiens preparato dalla coscienza medesima a rinunciare con serenità
ad ogni bene -e pur alla vita in alcune circostanze-, poiché nulla gli
appartiene se non la rettitudine posta al servizio della comunità, anche nelle
funzioni più modeste:” Eppure c'era Socrate e consolava i senatori affranti,
esortava quanti disperavano della repubblica, ai ricchi che temevano a causa
delle loro ricchezze rimproverava il tardivo pentimento di una cupidigia
foriera di pericolo e a quanti erano desiderosi di imitarlo andava portando un
grande esempio, col suo incedere libero fra i trenta dominatori. Tuttavia
quest'uomo la stessa Atene lo uccise in carcere, e la Libertà non tollerò la
libertà di colui che aveva sfidato la schiera compatta dei tiranni: sappi pure
che anche in uno stato oppresso c'è la possibilità per un uomo saggio di
manifestarsi, e in uno fiorente e felice regnano la sfrontatezza l'invidia e
mille altri vizi che rendono inerti. Dunque, comunque si presenterà la
repubblica, comunque lo permetterà la sorte, così o esplicheremo le nostre
possibilità o le contrarremo, in ogni modo ci muoveremo e non ci intorpidiremo
paralizzati nel timore. Anzi, sarà davvero un uomo colui che, mentre incombono
pericoli da tutte le parti, mentre intorno fremono armi e catene, non
infrangerà la virtù né la occulterà; nascondersi infatti non significa salvarsi. A buon diritto, a quel che penso, Curio
Dentato (Manio Curio Dentato, console del III sec. a. C. considerato
l’emblema dell'antico romano incorruttibile, invincibile) diceva di
preferire la morte alla vita: è l'estremo dei mali uscire dal novero dei vivi
prima di morire”.
Dissolta
la visione, attraverso la sua iniziale guida, di Nerone illuminato sovrano e filosofo,
donandogli gran parte del suo patrimonio, Seneca nell’appartato asilo -decisione
scaturita dal deterioramento del rapporto con l’imperatore- converge tutte le energie
intellettuali nel rielaborare le sue teorie, portando a termine il suo
orizzonte saldato sulla morale. Essa si esplicita sapienza e non mera
erudizione, discernimento acuto unente azione concreta “nella società” ed ozio
-l’otium, l’indefinito stare nella profondità degli studi e delle
relative attività- ambedue imprescindibili per raggiungere l’intima quiete,
una sorta di stato spirituale, che non soltanto rinuncia a individuate vacuità,
ma sottomette le passioni con razionale austerità.
La
sua dipartita si veste di tragicità scenica, che il pregevole olio su tela,
ascrivibile alla florida ed eminente bottega di Luca Giordano -come citato
all’inizio del post- efficacemente sprigiona. In deposito presso una
delle dipendenze dalla Camera dei deputati, proviene dal partenopeo Museo di
Capodimonte. Brevemente vi sostiamo dinanzi, completando quanto inizialmente
esposto.
Di
autore sinora ignoto, l’opera estende, senza alcuna esitazione, la cifra del
Giordano nell’accostarsi a una parziale rilettura caravaggesca per la
dialettica tra luce e ombra, abbinata a una tavolozza fermamente pittorica e accuratamente
cromatica. Un’originale narrazione prospettica rievoca l’arditezza espressa nei
lavori del Giordano, che il telo (a sinistra), quasi veementemente mosso da un
arcano soffio, sembra accendere; accanto, sull’asta, è posato un pappagallo
-alludente all’imitazione della voce umana-, elemento simbolico confermante la
“spiritualità senechiana”, ricollegabile a un passo delle Regole di S.
Basilio Magno, il vescovo e dottore della Chiesa del IV sec.:” Imita la vita
dei giusti per diventare degno anche tu di conseguire i loro splendidi troni
immersi nella luce”. L’elegante gusto pittorico offre pienezza espressiva a
tutto l’impianto e le positure agitate dei personaggi, che contornano il
morente filosofo, non cedendo a logori effettistici atteggiamenti, imprimono,
all’insieme della raffigurazione, intensa ed efficace drammaticità. Il felice
brio esecutivo e inventivo determina una, frenata, suggestione virtuosistica,
che adeguatamente esalta la cadenza chiaroscurale nel sentimento doloroso,
mentre la morte sembra far levitare il robusto corpo di Seneca, contrastando la
lama bagnata di sangue che lambisce un tomo poggiato su altri tra sparsi cartigli,
coerente parafrasi testimoniante quanto postulato in vita dal morituro,
assumendo significato di innalzata lode nei suoi confronti.
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