Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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mercoledì 31 agosto 2022

Marco Benefial: la ponderata passionalità della Vergine Addolorata con angeli con strumenti della passione e il Volto Santo di Cristo, scena dipinta per la chiesa di S. Maria dei Sette Dolori

Celato da un alto muro su un pendio del colle Gianicolo, il complesso di S. Maria dei Sette Dolori repentinamente appare, nella sua elaborata e distinta architettonica forma, allorché si oltrepassi l’esterno portale (segue immagine).


Imponente edificazione voluta da Camilla Virginia Savelli, la quale nel 1641 acquista uno spazioso fabbricato rurale, situato accanto a un terreno esteso sulle pendici del Gianicolo, già donatole dalla cugina materna, la francescana Giacinta Marescotti, futura santa (ricordiamo l’altare dedicatole in S. Francesco a Ripa Grande). In tale luogo sorgono dunque la chiesa e il monastero delle oblate agostiniane, secondo il proposito della medesima Savelli. Emerge in lei la volontà di poter concretare la vocazione religiosa femminile, espletandola senza la rigidità della clausura più stretta. Pur inglobando dunque quel senso di spiritualità francescana, incentrata sull’intenso interiore sentire, la pia nobildonna desidera concretare un’esperienza religiosa diversa, adottando perciò la regola, meno “aspra”, delle Oblate Agostiniane. Il termine oblato -dal latino oblatus, da oblatus “offrire”- indica, in generale, coloro che, attraverso la vita monastica, agiscono con “dedizione in servitù” (oblatio) nella donazione completa di se stessi a Dio, consacrandosi a Cristo. Infatti, la fondatrice di questo monastero pone quale scopo, delle “sue Oblate”, una forte azione caritatevole, secondo quanto lei stessa si adopera tra poveri, diseredati, infermi, di Trastevere. Progetta altresì la costruzione di un ospedale attiguo, al costruendo complesso, però una serie di avversi eventi e la maggiore presenza di religiose di nobile origine, la indirizzano, prevalentemente, verso l’educandato, vale a dire l’opera di istruzione per le fanciulle soprattutto povere, accogliendo altresì anche quelle sofferenti per qualche infermità, non contagiosa, “rifiutate” da altri monasteri.  

La volontà, della duchessa Savelli, di enunciare la salda elevatezza della sua opera religiosa, che si propone di accogliere un gran numero di donne, sia votate all’attiva spiritualità, sia bisognose di concreto aiuto, individua, nel Borromini, l’architetto a cui assegnare la realizzazione, architettonica, del superbo complesso di S. Maria dei Sette Dolori (1642). I lavori iniziano nel 1643 proseguendo sino al 1646, con edificazione della parte centrale circa il prospetto (compreso il portale) e quella laterale sinistra. Probabilmente, per i concomitanti incarichi inerenti alle fabbriche dell’Oratorio dei Filippini, di S. Maria in Vallicella (Chiesa Nuova) e di S. Ivo alla Sapienza, l’architetto ticinese non cura, adeguatamente, la direzione dell’opera costruttiva di questo complesso, sino ad abbandonarlo (1646 su citato), benché il progetto sia quasi definito -in disegno- in tutti i suoi particolari. L’edificazione, ad ogni modo, in breve tempo riprende -la chiesa è completata nel 1652- per essere finanziata, successivamente, dal duca Pietro Farnese, marito di donna Camilla, attraverso la vendita di una vasta proprietà terriera (1658). Sarà Francesco Contini a completare i lavori (1658-1667), con palese il richiamo al Borromini, sebbene mancanti dell’ornamentazione esterna, proprio -come si reputa- per carenza finanziaria.

Un ambiente celato mostra l’ingenita raffinatezza, degli spazi interni, dell’articolato edificio, formato dalla chiesa e dall’annesso convento -quest’ultimo oggi trasformato in un rinomato hotel-: la Sala Nobile, “condotta” dalle oblate agostiniane come la stessa chiesa (segue immagine). 


Locale allestito dalla duchessa Savelli, per ricevere, “degnamente”, nobili, prelati e così via; funzione che manterrà nei tempi successivi, come attesta la visita di Pio IX (1857, circa) svoltasi nel complesso, al termine della quale il pontefice a lungo sosta in tale particolare stanza. Essa distendendosi con volta rettangolare a botte e vele laterali, conserva sulle ordinate pareti alcuni dipinti, tra cui il ritratto della fondatrice, Camilla Virginia Savelli, di Carlo Maratta (o Maratti), il cui linguaggio pittorico adorna, della chiesa, la cappella di sinistra con il coevo S. Agostino e il mistero della Ss. Trinità (1655-1656). Quasi prospiciente al ritratto marattiano è posta la tela, Vergine Addolorata con angeli con strumenti della passione e il Volto Santo di Cristo, di Marco Benefial. Pittura originariamente collocata nella chiesa, come testimonia altresì la Nuova Guida Metodica di Roma e suoi contorni, aumentata e corretta dal Marchese Giuseppe Melchiorri, Roma 1840: “Quello (il dipinto, N.d.R.) poi di M.V. addolorata sopra la porta interna è del Cav. Marco Benefial”.

Questa opera plastica espone, però in cadenza raccolta, meditativa, quella immagine ove la Vergine è attraversata, trafitta -altresì in evocante chiave-, dal dolore quale compartecipe della passione di Gesù Cristo. Per interpretarne dunque la sostanza pittorica, occorre perciò volgersi al culto, a cui essa si volge ed esprime.

La devozione alla Vergine Addolorata scaturisce dalla lettura, di alcuni passi, inclusi nel Vangelo di Giovanni (capitolo 19, versi 25-27), in cui è citata la presenza della Vergine ai piedi della Croce. Culto molto diffuso dalla fine del secolo XI, per l’operato di S. Anselmo (dottore della Chiesa; 1033 o 1034–1109), di S. Bernardo (1090-1153) e soprattutto dello sconosciuto -a tutt’oggi- autore del Liber de passio Christi et dolor et planctu Matris eius (Libro della passione di Cristo e anche del dolore e del pianto di colei che ne è la Madre), erroneamente attribuito in passato allo stesso S. Bernardo. Con il Liber inizia una cospicua esposizione letteraria, in diversi paesi europei, incentrata sul Pianto della Vergine. Da ciò deriva il celeberrimo Stabat Mater (Madre che sta ai piedi della Croce), cui già l’inizio ne definisce la tragicità della composizione, attribuita, ormai definitivamente, a Jacopone da Todi (?-1306): Stabat Mater iuxta crucem lacrimòsa dum pendébat Filius. Cuius ànimam geméntem contristàtam et dolèntem pertransívit glàdius … (La Madre addolorata stava in lacrime presso la Croce mentre pendeva il Figlio. E il suo animo gemente, contristato e dolente era trafitto da una spada …). Densa devozione che si effonde tanto da originare la ricorrenza dei Sette Dolori di Maria Santissima ed infatti, nel XV sec., avvengono le prime cerimonie cultuali della Compassione di Maria ai piedi della Croce, celebrazione poi molto divulgata benché priva del distintivo segno d’universalità, sancita dalla Chiesa. Trascorreranno circa quattro secoli, affinché sia proclamata festa liturgica “universale”, quindi in tutta la stessa Chiesa (1814), da Pio VII, soprattutto quale ringraziamento per l’affrancamento suo e dello stato pontificio dal gioco napoleonico. Fissata inizialmente alla terza domenica settembrina, nel 1913 Pio X ne stabilisce la definitiva data al 15 settembre, consacrandola alla Beata Vergine Maria Addolorata.

Il formidabile eco dello Stabat, durante l’avvicendarsi dei secoli, ispira altresì numerosi musicisti che ne realizzano mirabili componimenti; citandone alcuni si avverte la vastità di tale drammatico tema: Giovanni Pierligi da Palestrina, Alessandro Scarlatti, Domenico Scarlatti, Antonio Caldara, Giovanni Battista Pergolesi , Tommaso Traetta, Agostino Steffani, Joseph Haydn, Luigi Boccherini, Giovanni Paisiello, Saverio Mercadante, Gioachino Rossini, Franz Schubert, Franz Listz, Giuseppe Verdi, Francis Poulenc e altri.

Al dolore della Vergine il portentoso edificio, eretto all’inizio del Gianicolo, si dedica, rammemorando i sette che, durante l’esistenza, l’avvinghiano. Quale proemio che li precede, come squarcio di cieli non più trascendenti ma riversati in una realtà tutta umana, si staglia la profezia dell'anziano Simeone sul Bambino Gesù:A te stessa una spada trafiggerà l’anima” (Vangelo di Luca, capitolo 2, verso 35). Questo è il vaticinio rivolto alla Vergine da Simeone, pronunciato a chiusura del cantico con il quale innalza la sua lode al Salvatore (nell’episodio che narra la presentazione del Bambino, da poco tempo nato, al Tempio di Gerusalemme), alla Sua azione futura di giustizia “causa di rovina” per gli empi, “di resurrezione” per la moltitudine, che a Lui si assegna ascoltandone e praticandone gli insegnamenti. Una lettura “tradizionale” consegnerebbe, a Maria, soltanto il suo strazio a venire, che la percuoterà ai bordi della croce, laddove invece, quell’arma appuntita profetizzata, avrà forza di svelare la purezza o la corruzione “di molti cuori” e a causa di tale agire sorgerà il martirio sul Calvario, da cui s’innalzerà la resurrezione di Cristo prima e, dei giusti in Cristo, alla fine dei tempi:Simeone li benedisse e parlò a Maria, sua madre: Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l'anima. (Vangelo di Luca capitolo su citato, versi 34-35). La Vergine quindi -secondo un’interpretazione scevra di una limitante visione-, nel suo dolore acuto per il martirio del Divino Figlio, col trafiggente sofferenza aprirà, per prima, l’anima alla resurrezione del Messia. La Vergine, che condividerà con il Cristo alcuni “aguzzi tratti” percorrenti la Sua vita umana. Da essi la “doglianza” patita nella fuga in Egitto, durante la strage dei bambini ordinata dal re Erode (Vangelo di Matteo capitolo 2, versi 13-22). L’angoscia per la sparizione di Gesù Cristo, dodicenne, ritrovato, dopo tre giorni, nel tempio di Gerusalemme (Vangelo di Luca 2:41-51). Inoltre, l'incontro tra Maria e Gesù Cristo lungo la salita al Calvario, episodio non indicato nel vangelo di Luca, che fa riferimento a “una gran folla di popolo e di donne”, le quali seguono Cristo battendosi il petto con gran lamento, ma la tradizione ne vuole, come razionalmente ipotizzabile, anche la presenza della Vergine. Ella segue il Figlio sino ai piedi della croce su cui viene crocifisso Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa” (Vangelo di Giovanni capitolo 19, versi 25-27). Ancora un’acutissima afflizione, la Vergine accoglie nelle sue braccia Cristo morto, prima che sia sepolto; scena definita Pietà, descrivente un episodio non contenuto nei Vangeli –ma anch’esso oggettivamente plausibile-, vale a dire quel doloroso raccoglimento della Vergine, sul corpo del Figlio morto. Vicenda composta dal sentimento appartenente alla forte devozione e alla salda spiritualità, soprattutto vivida in Italia e in Germania (per tale argomento rimando al mio post del 23 giugno 2018 “La Pietà, affresco di Perin del Vaga in S. Stefano del Cacco: considerazioni”). Infine, Maria assiste al seppellimento di Cristo Gesù; anche questo episodio non è menzionato da nessun Vangelo -ma ragionevolmente verosimile-, desumendosi solo dal testo di Giovanni, in virtù della presenza della Vergine accanto alla croce, sulla quale è inchiodato il Messia.

L’immagine quindi di Maria, attraversata da un vorace patimento, ha dato vita alla voluminosissima mole devozionale e artistica, espressa attraverso rappresentazioni poetiche, musicali, plastiche, versante in cui, come già in precedenza accennato, altresì il Benfial (1684-1764) si cimenta su commissione, però secondo un particolare sentimento.

La sua nascita in Roma -da genitori francesi -, essendo incline alla pittura sin da bambino, lo consegna alla bottega di Bonaventura Lamberti, pittore molto attivo in ambito romano, dall’impronta linearmente “classica”, che interpreta la formidabile lezione soprattutto di Annibale Carracci. Perciò il quattordicenne Benefial dirige il suo imberbe percorso verso lo studio di Raffaello e della scuola bolognese, cui i Carracci sono tra gli apici. Successivamente al 1703 iniziano i primi timidi passi della sua autonoma realizzazione pittorica, seppur in modo graduale e difficoltoso; infatti, solo nel 1716 emerge, nella “Città Eterna”, il suo estro in “divenire” eseguendo il S. Saturnino per la basilica dei Ss. Giovanni e Paolo al Celio. In tale periodo si rivela densa la sintassi marattiana nei suoi lavori, come dimostra anche la tela in S. Maria dei Sette Dolori.

Lavoro eseguito nel 1721 che, seppur pregno del respiro, come detto, soffuso da un verso del Maratta, già però annuncia il suo vivido rappresentare, con peculiare compattezza, l’insieme degli elementi cromatici, stesi in colori scevri di esagerate “iridescenze” che emettono soltanto vacui effetti; al contrario il Benefial combina una pittura delicata, schietta e misurata. Si avvia così la sua cifra stilistica a contraddistinguersi in quegli anni, a Roma, attenta al particolare, senza mai perciò a cedere a divagazioni meramente decorative, a futili orpelli.

In tale dipinto il Volto Santo si mostra decisamente scuro, pressoché nascosto, in una sorta di rossastra macula, mentre la Vergine, nel suo composto e raccolto dolore, è attorniata da angeli, che come un coro tengono, teneramente, tra le mani gli strumenti della Passione; misurato insieme da cui scaturisce però un’originale potente intensità drammatica, un acceso commosso sentimento affettivo, che non tracima in un’artefatta compassione estetica.

L’evidente tendenza classicheggiante -nell’artista viva molto- inizia a non imprigionarsi nel freddo e “corretto” formale disegno accademico. Quel rossastro funebre panno, retto dalle delicate -non languide- figure angeliche, sembra unirsi al manto della Vergine. La ricercata dolcezza, lo studiato amabile aspetto non straripa in una morbidezza descrittiva, al contrario la trama delle suggestioni, sapientemente articolate, ne appalesano la sostanza di pittura governata con padronanza, tra   armoniosi scelti accordi cromatici, rifuggenti da intenti meramente celebrativi.

Tutta la composizione appalesa il ponderato tenore emotivo, nobilmente contegnoso, attraverso una vibrante grazia, la quale poeta la sobrietà, di quell’alato coro, che cinge in levità la Vergine, raffigurata con posa di profonda meditazione, svellente ogni artificiosa tragicità, mostrando, all’osservatore, quanto sia consapevole compartecipe a quel sacrificio messianico, che sul Golgota si è compiuto (segue immagine tratta da Google).