Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

Io Spiego

venerdì 12 febbraio 2016

Su alcune particolarità del complesso di S. Pietro in Montorio e da esse il dipinto di “Cristo portacroce”



Antonio Cordini (o Cordiani), detto Antonio da Sangallo il Giovane, riferendosi all’area corrispondente a “S. Pietro a Montorio”, annota che essa “vede” tutta “Roma”. La suggestività del paesaggio, della scena, propria fin dai tempi remotissimi di questa zona collinare, il Gianicolo, ancora oggi in gran parte intatta, fronteggia una nobile amenità, che si dilata in un incantevole sconfinato spazio nel quale si raccolgono evocazioni mitologiche e storiche, andatura di toni lirici che effondono memorie religiose. In questo incanto, così intimo eppure così visibile, si muovono lontane le narrazioni figurate di divinità antiche: Giano – da cui discende il nome del Colle-, antichissimo dio solare; Fons, dio dei pozzi e delle sorgenti; Furrina, dea delle acque correnti; Iside, dea egizia della maternità e della fertilità. Su tale sacralità remota vi s’innesta l’acuto chiarore di una tradizione altomedievale, che, elevando questo fianco del colle tra i protagonisti della Storia del Cristianesimo, inizia a indicarlo come luogo in cui sarebbe stato crocifisso S. Pietro, da qui il ricordo vive testimoniato, tra la fine del secolo VIII e l’inizio del IX, dalla presenza del Fons Sancti Petri, ubi est carcer eius (Fonte –anche in senso figurato- di S. Pietro, dove è la –sua- stessa prigione), forse connesso a un convento edificato con molta probabilità nella medesima epoca, che avrebbe ampliato, secondo alcuni studi, un precedente monastero (VI o VII secolo). La dedicazione dell’area, al solo Apostolo, però avviene più tardi; infatti, sorge nei pressi un altro luogo di culto ma è dedicato ai SS. Giovanni e Paolo (VIII secolo), seguito alla fine del XII secolo dall’oratorio di S. Angelo “in Ianiculo”, sorta di minuta cappella isolata. Nella prima metà del XIII secolo si afferma, definitivamente, il riconoscimento devozionale in loco, del martirio petrino e il complesso monastico viene affidato alle monache benedettine, ma in meno di un secolo giace in rovina, abbandonato ormai da lungo tempo.
Un’aura di enorme misticismo rinnova però il fatiscente sito, grazie all’opera del beato Amedeo di Portogallo, religioso francescano, dalla incerta biografia e dal dubbio cognome. Per volere di papa Sisto IV, già Ministro generale dei Frati Minori, egli diviene il confessore del Pontefice e il responsabile della ricostruzione integrale del complesso che, occupando parzialmente il perimetro di quello antecedente, deve assumere forma monumentale, inno architettonico a S. Pietro Apostolo (1471). Tra il 1472 e il 1482 questo mistico frate, che spesso si ritira nell’ascetica solitudine offerta dallo scosceso sito (la cavernula, che una voce devozionale, datata XVI secolo, la colloca sub crucifixione Petri: piccolo antro posto ai piedi della crocifissione di Pietro) ne inizia lentamente la rifondazione, la quale riceve un forte impulso dal 1481 per il coinvolgimento del re di Francia Luigi XI, a cui dopo la morte (1483) subentrano i reali di Spagna (segmento di un piano di influenza ed espansione in Italia), Ferdinando il Cattolico (II d’Aragona, V di Castiglia e Leon, III di Napoli, II di Sicilia)  e Isabella di Castiglia, fissando da quel momento l’indissolubile presenza spagnola in questa parte del Gianicolo. Le committenze che si susseguono d’ora in poi, volte a illeggiadrire la nuova sede monastica, affidata alla “societas fratrum”, ossia ai Frati Minori seguaci di Amedeo in seguito detti Amadeiti, suggellano il proposito di celebrare l’Apostolo, primo pontefice, attraverso il quale esaltare il papato e la sua sede e, in qualche visibile maniera, quella potente monarchia non italiana. Avviene, per mezzo di questo indirizzo, uno stretto legame tra l’illustre storia, nonché i miti, dell’antica Roma e le memorie della tradizione cristiana, confluendo i relativi segni distintivi nella glorificazione della “Città Eterna”, intesa quale nuova Gerusalemme, compiendosi idealmente la summa ove coincidono la cultura della classicità e la sapienza rivelata del Cristianesimo. Infatti, il lavoro spirituale del beato Amedeo diffonde i suoi esiti anche dopo la morte (1482), essendo ritenuto l’autore del testo Apocalypsis Nova (con buona probabilità scritto intorno al 1502 dal francescano Juraj Dragisic, detto Benigno Salviati), durante la sua permanenza presso, il costruendo, complesso monastico di S. Pietro in Montorio. Testo molto famoso durante il Cinquecento e i primissimi anni del Seicento (mai stampato ma con una straordinaria diffusione manoscritta), dettatogli, secondo le fonti agiografiche, dall’Arcangelo Gabriele  nella cavernula durante i raptus, per svelargli i misteri della Fede e alcuni importanti avvenimenti futuri (in realtà successivi agli stessi accadimenti, secondo la vera datazione dello scritto). 
Gli argomenti sviluppati nello scritto, attribuito dunque al Beato, s’incardinano sulle memorie dell’Apostolo, munendo di solidi temi le prime fasi costruttive e decorative dei nuovi edifici, una straordinaria progressione di soggetti teologici, respiro donato al voto sostenuto dai medesimi sovrani, Ferdinando il Cattolico e Isabella di Castiglia, come ringraziamento per la nascita del figlio maschio (1478), erede al trono. Questo “impegno di fede” è mantenuto nonostante la morte del, giovane, principe reale Don Juan (1497), prendendo forma per mano di Donato Bramante, che realizza il celebre “Tempietto” -ora anche articolata cappella eretta in memoria del regale personaggio- in due diversi momenti come si ipotizza: nel 1502 crea la cripta e nel 1509, circa, innalza il corpo superiore.   
Il vivido linguaggio simbolico espresso dalla piccola struttura, rappresenta sia concetti strettamente connessi a figurazioni cosmiche, sia simboli alludenti all’eroismo dei martiri cristiani, alla liturgia, alla Chiesa delle origini, a quella militante sulla Terra, a quella trionfante nella gloria dei Cieli.


Il "Tempietto": ambiente superiore


Apocalypsis Nova quindi, ampio trattato teologico e filosofico elaborato in otto raptus (visioni estatiche) e novantadue sermones (rivelazioni spirituali); tra questi ultimi il settimo contiene un’elaborata argomentazione sulla Trasfigurazione di Cristo, contenuta nei Vangeli di Matteo (capitolo 17), di Marco (capitolo 9) e di Luca (capitolo 9), episodio che ritroviamo dipinto nel catino dell’abside della prima cappella, del lato destro, della chiesa. Opera di Sebastiano Luciani, noto come Sebastiano del Piombo, si differenzia da quella ritratta da Raffaello -sino al 1809 orna l’abside maggiore di questo luogo di culto, sopra il coro; oggi incommensurabile gioiello della Pinacoteca Vaticana- rispecchiante, nella rappresentazione dell’intero impianto, l’immagine della seconda venuta del “Figlio dell’Uomo”, prossima quindi al ragionamento sviluppato nella “Apocalypsis Nova”. Quella invece presente ancora in S. Pietro in Montorio, sebbene accolga il significato escatologico della parusia così pregnante nel sermone cui si riferisce, riverbera una metafora sostanziata dal chiarore dell’incarnato e della veste del Messia, sole che, grazie ai suoi rilucenti raggi, toglie i peccati del mondo, come afferma S. Agostino: ” Il Signore in persona si fece splendente come il sole, i suoi abiti divennero bianchissimi come la neve … Sì, proprio Gesù in persona, proprio lui divenne splendente come il sole, per indicare così simbolicamente di essere lui la luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo … I suoi vestiti sono la sua Chiesa … mediante il vestito bianchissimo viene simboleggiata la Chiesa, dal momento che sentite dire dal profeta Isaia: “Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, li farò diventare bianchi come neve …”. Vedete quanto sinteticamente afferma l’Apostolo (S. Paolo): ” … Ora … si è manifestata la giustizia di Dio …”, ecco il sole … ecco lo splendore”. (Discorso 78, Sulle parole del Vangelo di Matteo, capitolo17, versetti da 1 a 8). Osservando il dipinto dunque assistiamo, come dinanzi al Tempietto, all’interpretazione artistica di quanto sia profondo e intenso il legame tra Chiesa militante e Chiesa trionfante. 
Il variegato valore simbolico leggibile, che attinge alla mitologia classica coniugandola ad elementi iconoci cristiani, è arricchito dalle “Sibille”, che decorano l’arco esterno della terza cappella del lato destro della chiesa; affresco attribuito a Baldassarre Peruzzi, sormonta il vano in cui sono raffigurate scene (di Michelangelo Cerruti) della vita di Gesù Cristo (Presentazione al Tempio) e della Vergine, percepibile rimando di una ispirazione divina delle profetesse, vergini, del mondo pagano, mediatrici particolari tra le divinità e gli uomini. Ritratte con piena levità sottintendono, per come è impostata tutta la scena, la predizione dell’avvento messianico anche nel mondo pagano.     
L’avvicendarsi in S. Pietro in Montorio, come in altre “fabbriche” romane, di trasformazioni del “già edificato” nonché dei relativi lavori di abbellimento ornamentale, vede, principalmente tra la metà del XVI secolo e la metà del XVII, il deciso intervento di altri maestri, cui le opere declamano i nomi, per citarne alcuni, di Giorgio Vasari, di Daniele Ricciarelli detto Daniele da Volterra, di Gian Lorenzo Bernini, di Niccolò Circignani detto Pomarancio; il visitatore perciò è avvolto, da ogni canto, dall’espressiva bellezza che non è breve epidermica grazia, poiché essa incide empaticamente sull’animo.
Questa intima partecipazione e immedesimazione attraverso la quale si compie, quasi misteriosamente, il comprendere estetico e il significato intrinseco di quanto, l’Arte, qui espone, mi conduce dinanzi al drammatico dipinto raffigurante “Cristo portacroce”, di mano fiamminga caravaggesca, che connota la parete destra della quarta cappella del lato sinistro.
A Roma, dagli inizi del Seicento, soggiornano “innumerevoli fiamminghi e francesi che vanno e vengono”, come osserva Giulio Mancini, medico, collezionista d’arte, molto presente nell’ambito intellettuale romano tra la fine del XVI secolo e il primo trentennio del XVII. In effetti, l’opera del Caravaggio conosce un enorme seguito oltre che in Italia, in Francia (tramite Valentin de Boulogne, in Roma verso il 1611, primo caravaggista di quella nazione) e nei Paesi Bassi (il più noto pittore caravaggesco fiammingo, Gerrit van Honthorst, detto in Gherardo delle Notti,  lavora a Roma dal 1610 al 1619) grazie all’esperienza artistica acquisita dai, giovani, autori –che soggiornano prevalentemente nella “Città Eterna”- di ritorno dall’Italia, fonte del seguito altresì “internazionale” del linguaggio del Merisi.
La chiesa del Gianicolo non può essere perciò esente da tale temperie, della quale conserva la decorazione pittorica di quella cappella, dove risalta la pala raffigurante la “Deposizione di Cristo”, di Dirck van Baburen. Egli è interprete personale -appare evidente la morbidezza delle figure e la forte attenuazione dell’oscurità retrostante rispetto alle tele del Caravaggio- del tema già disegnato dal Merisi, “Deposizione” magistrale opera oggi custodita presso la Pinacoteca Vaticana. Questo vano è completamente ornato dunque da pittori fiamminghi: il già citato van Baburen; l’artista non individuato, fra differenti ipotesi, della “Disputa tra i dottori”, che definisce la parete sinistra; l’interprete  di felice e di vigorosa cifra caravaggesca, David de Haen, cui è ascrivibile il “Cristo deriso” della lunetta destra e la “Disputa tra i dottori” della lunetta sinistra. Rimane da osservare un altro pregevole cammeo, già citato, per il denso pàthos che suscita, ossia il “Cristo portacroce”, assegnato generalmente al creatore della pala d’altare, ma per alcuni studiosi attribuibile al de Haen, che giunge a Roma, intorno al 1617, insieme al suo amico van Baburen e ambedue lavorano all’ornamentazione pittorica della cappella.
Da mie ricerche condotte è supponibile identificare nel van Baburen l’esecuzione del primo disegno e nel de Haen l’originale mano del dipinto, come appare dimostrare la “struttura plastica”, discosta dalla “scena di genere”, in cui spesso van Baburen indugia. Il confronto con lo spessore artistico della “Deposizione” tesse, involontariamente –forse-, una trama che sorprende, poiché la pittura laterale sembra quasi relegata in una posizione subalterna, di contorno descrittivo e invece stupisce con la poderosa presa del lavoro, che vuole essere intenzionalmente guardato, non visto.
L’azione si svolge lungo la salita al Golgota, ovunque s’infittiscono personaggi concitati e atteggiamenti drammatici, la luce indagante trasforma il chiaroscuro in un insieme di colori tenui ma vibranti, che dichiarano una preziosità tutta fiamminga; il Cristo, dolorante, è piegato dalla gravità della croce, gli è vicina la Veronica, che afflitta tende il “sudario” verso il Suo volto straziante. Tutta la scena però non tracima in un tonante pietismo, al contrario in essa viene effigiato quanto può presentarsi agli occhi senza cadere “nell’accademico” realismo, questo termine definito, in maniera ferma e condivisibile, dal celebre critico d’arte Roberto Longhi:” vocabolo utile solo per le spiegazioni di manuali collettivi di storia dell’arte, è ammissibile qualora indichi la forma resa non per ideazione prefissa di organismi energetici, ma, al contrario, per sodezza particolare del tessuto cromatico, del colore alieno sia da favolose divagazioni iridate … sia delle targhe cromatiche …  però sovrapposto in impasti vividi, schietti e delicati e studiato con diligenza nei minimi trapassi locali, come uno stagnare sanguigno sugli zigomi di un martire o nel formarsi di piccole chiazze di cangiante tessuto iridescente su per le vesti … indossate … da figure di santi raffigurate in affastellate scene affrescate” (da “Gentileschi padre e figlia”, 1916).
In questo lavoro, la luce, evidenzia le sezioni dei piani disegnati con brillante veracità, stillata dalla scenografia religiosa, risolta dall’artista con efficacia soffermandosi sui particolari cromatici, sui campi contrapposti che maggiormente risaltano sullo scuro fondo. La scena diffonde una grande finezza, apparendo solida e con un ritmo compatto, combaciando l’oggettiva attendibilità degli atti rappresentati con la spessa tensione, non artatamente esternata, anzi, scevra da qualsiasi enfatizzazione, emana un profondo “tono interiore”, il quale attraversa ogni parte con elementi cromatici omogenei disposti secondo un, intenso, ordine; i mossi riflessi sono irradiati di rosso scarlatto e di celeste e di bianco e di aureo giallo, colori versati fuori dall’inesorabile bruna ombra. Si avverte uno studio, non alterato dalla ridondanza, delle figure e dei piani, dai quali lo svolgimento di questo passaggio, della passione di Cristo, non è stretto tra i preziosi bordi che lo incorniciano ma erompe per imprimersi, vivo, negli occhi dello spettatore, quasi che lo spazio pittorico contenga quello dell’astante, di cui, pur rimanendo integra la dimensione spaziale, la sua padronanza visiva non sembra fermarsi ai lati, esterni, delimitanti la pittura. L’incarnato del Messia ancora resiste sotto lo sferzare del dolore, i pigmenti, le stoffe formano quasi un tutto unico, sebbene distinti rimangano gli eterogenei elementi, sino a lambire una sensazione di concreto che si trasforma in tangibilità. Le forme non illanguidiscono secondo un gusto di vacua appariscenza ma sono raffigurate con veemenza e l’accuratezza che vi permane non cede a, un’inanimata, suggestione figurata, poiché tutte le acute qualità autenticamente s’intessano in una sinfonia, che esprime stringente dolore. Eppure in essa è viva l’armonia nei modellati, nei visi, nelle membra tese degli “aguzzini”, in quelle doloranti di Cristo, il quale nel Suo sguardo è contenuta tutta la compassione per il genere umano, verso cui ancora rivolge parole di esortazione e d’insegnamento che la Sua figurata espressione pronuncia: ” Figlie di Gerusalemme, non piangete per me, ma piangete per voi stesse e per i vostri figli. Perché ecco, verranno giorni nei quali si dirà: “Beate le sterili e i seni che non hanno generato e le mammelle che non hanno allattato”. Allora cominceranno a dire ai monti: ‘‘Cadete su di noi!’’, e alle colline: ‘‘Copriteci!’’. Perché, se fanno queste cose al legno verde, che avverrà del legno secco?»  (Luca, capitolo 23, versetti dal 28 al 31).