Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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lunedì 25 settembre 2017

Giacomo Carissimi nella definizione dell' oratorio


Il termine oratorio indica, inizialmente, il solo luogo di pratiche religiose, di esercizi spirituali compresi nell’ampio programma di riorganizzazione religiosa e devozionale della Chiesa di Roma, scaturito dal Concilio di Trento (1545 - 1563), cui le disposizioni e le norme sancite da quella adunanza conciliare determinano, nel giro di pochi anni, un iniziale cambiamento in ogni aspetto della vita della Chiesa stessa, vale a dire amministrativo, pastorale, missionario, spirituale. In sostanza, sono definiti, in modo sistematico, i punti fondamentali della dottrina cattolica e inoltre sono accolte rilevanti riforme, per ricostituire e accrescere la globalità del corpo ecclesiastico. Anche l’arte, in tale vasto disegno, è considerata, a ragione, uno strumento di propaganda politica e religiosa, divenendo esaltazione corale della Chiesa cattolica, espressione trionfante della centralità spirituale e culturale di Roma nel mondo cristiano (per tale argomento v. mio post I Papi della Speranza. Arte e religiosità nella Roma del ‘600, del 1 dicembre 2014).

Il primo oratorio, in questo nuovo ambito, è voluto da S. Filippo Neri (1515 -1595; nato a Firenze e giunto a Roma nel 1534, circa) che, intorno al 1551, progetta e concreta una comunità di laici e di religiosi dedita a un’attività caritatevole, radunandovi, senza distinzione di sesso, dei giovani sbandati accostandoli alle ufficiature cultuali, al raccoglimento interiore, alle preghiere comuni, ai dialoghi spirituali, introducendo in quel singolare ambiente altresì momenti di serena e densa allegria, non disgiunti da canti. I prodromi di tale aspetto religioso e musicale sono avvertibili già nell’oratorio del Divino Amore, vivida istituzione presso la chiesa dei Ss. Silvestro e Dorotea in Trastevere, dove vi aderisce S. Gaetano Thiene (1480 – 1547), dove l’attività e volta all’elevazione spirituale e a un costante impegno assistenziale a favore degli indigenti. Alle orazioni, alle prediche e alle conversazioni su temi inerenti al sacro, si aggiunge il largo respiro mostrato dai canti delle litanie. L’insieme di questi elementi ispirano quindi, S. Filippo Neri, a creare il suo oratorio, nel quale la musica è insostituibile protagonista, palesandovi natura ricreatrice che educa gli animi avvicinandoli, in modo familiare, alla parola di Dio. (per tale argomento e per gli sviluppi oratoriali v. anche mio post Alessandro Scarlatti: il clima musicale della Roma barocca; l’oratorio; “Il martirio di S. Cecilia del 9 dicembre 2014).

In tale contesto, come in altri insiti nel medesimo XVI secolo, fiorisce una forma musicale non ben definita, che accoglie, comprendendo testi in latino, un repertorio sacro e immediatamente colto e un altro, con esposizioni orali in volgare italiano, esterno all’agire liturgico, il quale mira a una sconfinata interiorità, a un autentico innalzamento spirituale. Questa ultima “corrente” deriva dalla lauda, espressione musicale semplice, cui i primi vagiti si colgono alla fine del XII secolo, per propagarsi nel successivo XIII, raggiungendo l’apice, attraverso l’evoluzione del linguaggio sonoro, nei secoli XIV e XV, nei quali dalle iniziali lodi rivolte a Dio, alla Vergine e ai santi approda a temi comprendenti episodi biblici e a brani agiografici. Da tali riferimenti derivano esposizioni allegoriche e drammatico-narrative, caratteri che costituiscono comunque l’humus di ogni forma oratoriale.

Padre Filippo, come ancor oggi amorevolmente lo chiamano “i suoi figli”, detti Filippini (Congregazione dell’Oratorio), plasma quindi in Roma uno dei più sentiti luoghi di spiritualità, resi ancor più saldi grazie a specifici innesti musicali, che iniziando in S. Girolamo della Carità, pervengono a una maggiore corposità in S. Maria in Vallicella (riguardo alla genesi edificatoria dell’Oratorio dei Filippini, v. mio post del 10 dicembre 2014, Francesco Borromini, l’Oratorio dei Filippini (facciata e primo cortile). Intorno alla sua figura sono chiamati illustri musicisti come, ad esempio, Giovanni Animuccia (1514 ? – 1571), uno dei primi seguaci del Santo fiorentino, che aderisce al dettato conciliare di Trento permettendo al testo (in volgare) di emergere, pur se inserito in una leggera costruzione musicale contrappuntistica, la  quale sovrappone più linee melodiche, distante quindi dall’omofonia (emissione di medesimi suoni all’unisono di voci e di strumenti), liberando in giochi polifonici (successioni combinate di suoni individuali) i palesi “rimandi gregoriani”. I suoi due libri delle Laudi, che magnificamente interpretano le indicazioni di S. Filippo, concependo la musica quale edificante opera religiosa, sono considerate precorritrici dell’oratorio, con accenti melodici che danno luce alla voce soprana, preludendo, in alcuni passaggi, alla monodia accompagnata (canto a una voce con, in questo caso, il solo accompagnamento vocale, così articolato durante il XVI secolo).

Nello stesso periodo sorgono i primi vagiti del melodramma, avviando un nuovo rapporto tra la parola e il dramma, tra il canto e la musica, sino a giungere, nel successivo XVII secolo, a un’estetica definita, - soprattutto attraverso il mirabile estro di Claudio Monteverdi (1567 – 1643) - nella quale l’espressività sonora accetta, facendola propria, la stretta connessione al testo poetico di tono drammatico, non risolvendo però compitamente la “naturale” conflittualità tra musica e parola, lasciando al singolo autore la risoluzione, in virtù del proprio estro. L’esecuzione della Rappresentatione di Anima et Corpo di Emilio de’ Cavalieri (1550, circa - 1602), si palesa come fondamentale passaggio di tale verso musicale (febbraio 1600), evento posto in scena in due occasioni, proprio all’Oratorio di S. Maria in Vallicella. Infatti, questo lavoro – gemma tra le foci del primo dramma eseguito “ in musica per recitar cantando”- riscuote un rilevante positivo riscontro, in cui il testo nella maggior parte composto (se non completamente) -come da diverse attribuzioni- dallo scrittore, poeta e rinomato predicatore Agostino Manni (1547 – 1618) della Congregazione dell’Oratorio. Invero, l’opera testuale dispiega una cifra poetica di stampo popolare anziché un’articolazione incardinata su modi ricercati, perciò conforme all’intrinseca natura propria di quell’ordine religioso che mira a uno stile, come afferma lo stesso Manni: ”familiare e piano, e senza squisita eleganza e rigida osservanza delle regole, dovendo servire per il popolo e disporlo pian piano, con utile e dilettevole inganno, a ricevere nel cuore la dolcezza e soavità dello Spirito”. La sezione musicale impiega pochi strumenti e questo fattore, unito alla forma utilizzata per il testo, ha determinato l’erronea attribuzione di “primo oratorio”, come “un antenato” di quello che splendidamente si rivelerà in pieno Seicento. Difatti, l’originaria “stesura teatrale”, comprendente anche rapide e concitate azioni, costumi, balli e altri elementi, esula fortemente dalla cornice musicale intesa dalla famiglia religiosa, creata da S. Filippo. L’opera perciò si manifesta, per mezzo della sua struttura, quale primo melodramma sacro, come attestano i lavori dei successivi decenni (sino, circa, alla fine del XVIII secolo) che ne traggono, elaborandolo, il medesimo schema. La “commistione autonoma”, dei due “generi”, ne determina certamente l’assottigliamento delle differenze talvolta minime, come dimostra in questo caso e in successivi, il coro cui la partitura segue un andamento omofonico e omoritmico (si evidenzia nella polifonia con un costante uguale ritmo variandone l’intonazione) ma i “brani a solo”, pur se d’impostazione recitativa, appaiono più melodiosi rispetto a quelli propri della monodia praticata nella musica popolare. Infine, altra caratteristica, dell’Anima et Corpo, sostanzia accuratamente e dettagliatamente il basso continuo, il quale si stende ininterrottamente per tutta la durata della composizione, indicando la parte di basso sul quale si fonda l’intera costruzione armonica dell’accompagnamento, che l’esecutore interpreta e concreta. Costituisce perciò un passaggio primario, che allontanandosi dalla produzione rinascimentale, introduce una particolarità che connoterà il Barocco, in evidente conflitto con la concezione polifonica, che nel Cinquecento ha conquistato il massimo accento. 

Possiamo ora ritornare al “nostro” oratorio che nasce e si sviluppa nel seno della Congregazione filippina, che, come abbiamo osservato, assorbe l’antica lauda e alcuni elementi del contemporaneo melodramma, esponendo il testo in volgare. Del canto monodico ne accetta il recitativo e l’espressivo ma non il rappresentativo, rifiutando “il facile allettamento” offerto dai personaggi in costume, dagli apparati scenici, dalla mimica; la narrazione deve sospingere l’animo a un godimento schiettamente spirituale. Il dialogo tra i personaggi appare diretto come funzione drammatica, le voci del canto corrispondono a quelle dei personaggi biblici o a quelle dei caratteri delle storie devozionali; l’azione viene esposta da un “narratore storico” – in sostituzione della messinscena - e, nel caso di passi del Vangelo, “dall’Evangelista” cui si riferisce il testo, mente un coro commenta e poi conclude in chiave didattica e morale.

Questa semplice costruzione si palesa però non scevra di impliciti, misurati, artifici emotivi, gli stessi che se pur d’ispirazione sacra inevitabilmente si amalgamano, in un altro sfondo, con elementi profani, disegnando quello splendido nascente melodramma che, come in precedenza abbiamo considerato, vede la luce palpabile nella Rappresentazione di Anima et Corpo.    

La giovanissima musica oratoriale, per l’amorevole e notevole impegno dei Filippini, inizia a richiedere solide basi che, nei libretti appositamente scritti, trova l’espressa soluzione, la quale sopravanza la lauda dialogata, che tuttavia non cessa di echeggiare. In questo periodo embrionale si assiste perciò a un magma di eterogenei elementi e riappropriazioni, nei quali vi convergono e in seguito vi si raffrontano oltre e soprattutto la lauda anche, per certi aspetti, il madrigale (contraddistinto da raffinatezza poetica in un intreccio, di voci e di strumenti, eseguito da pochi solisti, ove le note propongono una migliore adesione alle parole) e, per alcuni spunti, il mottetto. Quest’ultimo, cui se ne ascrive l’origine alla temperie della fine del XII secolo circa, espone durante il Quattrocento brani polifonici a cappella (in latino) e su testo religioso, perciò mancante di parti strumentali, in stile imitativo - peculiarità della tecnica contrappuntistica – nel quale viene riprodotto, in una o in più parti vocali, un frammento - già eseguito - variabile in estensione. Nel Seicento, all’alba del “percorso formativo-creativo” dell’oratorio, si nota l’influenza nel mottetto sia della monodia e sia della pratica concertante che, in un insieme sonoro, attribuisce a una voce un ruolo predominante sulle altre; nondimeno feconda è altresì l’esperienza della voce sola con accompagnamento del basso continuo. La scena perciò mostra, del giovanissimo divenire oratoriale,  la profonda duttilità espressiva, grazie anche all’enorme libertà ritmica e armonica che permette, ai diversi compositori, di rendere percettibile, secondo le possibilità offerte dalle combinazioni scelte, il significato poetico e sacro del testo. L’oratorio volgare, in tale multiforme panorama, propone il valore della comprensibilità, da parte del popolo, dell’esposizione scritta e, se presente, della musica.

A Roma però dimorano colti aristocratici e alti prelati, che vogliono introdurre, quale disegno intellettuale, il nascere parallelo dell’oratorio in lingua latina, il quale vanterà le proprie radici principalmente nel mottetto. Tale aspirazione è soddisfatta dall’Arciconfraternita del SS. Crocifisso - così elevata nel 1559, da Pio IV, con motus proprius redatto da suo nipote S. Carlo Borromeo - che cura nel proprio oratorio (sua sede dal 1563 benché la parte architettonica sia completata nel 1568) un’attività musicale, soprattutto nel periodo della Quaresima. Di tale evento fornisce una considerevole testimonianza, André Maugars (1580 – circa, 1645, circa), virtuoso violinista francese, autore del prezioso scritto “Risposta data a un curioso sul sentimento della musica in Italia” (1639): ” Vi è però un altro genere di musica che non è affatto in uso in Francia e che, proprio per questa ragione, merita bene che ve ne faccia una descrizione particolare: si chiama “stile recitativo”. Il migliore che io abbia inteso fu nell’Oratorio ... dove si trova una compagnia dei Fratelli del Santo Crocifisso, formata dai più grandi signori di Roma, che, di conseguenza ha la possibilità di mettere insieme tutto ciò che l’Italia produce di più raro; e di fatto, i musici più eccellenti si fanno un punto d’onore di venirvi e i migliori compositori brigano per avere l’onore di farvi sentire le loro composizioni e si sforzano di apparire ciò che di meglio hanno allo studio. Questa musica ammirevole e incantevole si fa solo il venerdì durante la Quaresima, dalle tre alle sei … Le voci cominciano con un salmo in forma di mottetto e poi tutti gli strumenti eseguono una sinfonia molto bella (particolare intermedio orchestrale, con la netta esclusione delle voci). Dopo, le voci cantano una storia dell’Antico Testamento in forma di commedia spirituale … Ogni cantore rappresenta un personaggio della storia ed esprime perfettamente la forza delle parole. Dopo di che, uno dei più celebri predicatori propone l’esortazione, finita la quale, la musica recita il Vangelo del giorno … e i cantanti imitano perfettamente i diversi personaggi rappresentati dall’Evangelista. Non saprei lodare abbastanza questa musica recitativa: bisogna averla intesa sul posto per giudicare bene i suoi meriti. La musica strumentale è formata d’un organo, d’un clavicembalo grande, d’una lira, di due e tre violini e di due o tre arciliuti. Una volta un violino suona con l’organo, poi un altro risponde; un’altra volta eseguono tutti e tre insieme diverse parti. Ogni tanto un arciliuto fa molte variazioni sopra dieci o dodici note, ogni nota di cinque o sei battute; poi l’altro suona la stessa cosa, ognuno in modo diverso”.  

Data l’elevatezza culturale di quell’ambiente, come conferma il Maugars, sono impiegati, per il canto e per il suono degli strumenti, i maestri più famosi delle cappelle romane, formate da musicisti e cantori al servizio di una chiesa o di una corte nobiliare e Giacomo Carissimi vi dominerà, quale autore, con la sua potenza emotiva, drammatica e lirica.

Da tale contesto la cultura dell’oratorio si espande in altri luoghi, fra cui Bologna, Firenze, Modena, Venezia e così via. Questo soffio artistico penetra anche all’estero, in particolar modo inizialmente a Vienna, dove gli episodi sacri vengono rievocati in guisa teatrale, in modo pressoché realistico, utilizzando abiti, mimica, scenografie, che nei Filippini - e in genere nell’ambiente romano – non hanno trovano terreno favorevole; nel “circuito” viennese invece tale variegata struttura in breve tempo è acquisita dalle cappelle reali e da quelle della nobiltà. In seguito l’oratorio giunge in terra tedesca, trovandovi poderosi imitatori e geniali “inventori”, rispondenti ai nomi di Johann Kaspar Kell (1627 – 1693, che lo introduce attraverso la lezione di Carissimi), Johann Sebastian Bach (1685 – 1750), Georg Philipp Teleman (1681 – 1767), Georg Friedrich Handel (1685 – 1759; egli in Inghilterra comporrà una forma musicale con una maggiore caratterizzazione scenica), Carl Philipp Emanuel Bach (1713, circa – 1788, secondogenito di Johann Sebastian) e altri. In Francia il modo di Carissimi si afferma per mezzo di Marc-Antoine Charpentier (1634, circa – 1704). Percorrendo tutto il Settecento e l’Ottocento, sia in Italia sia nei paesi esteri, l’oratorio conserverà intatto, pur accogliendo modernità espressive, l'affascinante lirismo sacro terminando, come oggi appare, la sua luminosa parabola nei primi anni del Novecento.

Riguardo ancora ai primordi dell’oratorio, il termine, viene usato per indicare l’esposizione musicale abbinata agli esercizi spirituali, come sancisce la frase che in questo periodo si esclama: ” si va a sentir l’oratorio”. Il suo significato di particolare - e innovativa- musica sarebbe attribuibile, secondo alcuni, a Francesco Balducci (1579 – 1642), poeta palermitano attivo anche a Roma dopo il 1605, autore dei testi di due oratori: Il Trionfo o L’Incoronazione di Maria Vergine; La Fede o Il Sacrificio di Abramo, composti intorno al 1630 ma pubblicati postumi nel 1646. Principalmente il secondo titolo rende, vivida, la drammaticità della vastissima azione redentiva, per mezzo dei personaggi e dello svolgersi della storia, cui si accompagna il Coro delle Vergini e il Coro dei Savi. Le musiche però sono andate perdute e, come in molti altri casi, il relativo autore resta anonimo. Ancora sul vocabolo oratorio, altre “indagini” sostengono la prima ipotesi non veritiera, assegnando la “parola tecnica” al solo letterato romano Pietro Della Valle (1586 – 1652), autore del “Discorso sulla musica dell’età nostra” (1640). 

Di Giacomo Carissimi (1605 – 1674) si è accennato in precedenza circa la sua cifra stilistica, cui i modelli producono lo sviluppo del ”genere”, rapidamente innestati altresì nell’oratorio in volgare. La sua presenza a Roma è documentata dal 1629; egli in poco tempo diviene uno dei protagonisti del clima musicale della “Città Eterna”. Regnanti di paesi europei lo vorrebbero maestro nelle loro corti, desideri inattuabili – a essi risponde solo con saltuari lavori realizzati “nell’Urbe”  - poiché il musicista preferisce la metodica attività e il quieto ritiro nelle “stanze romane”, situazioni confacenti all’austerità della sua laboriosa vita imperniata sulla stretta osservanza religiosa, tanto da ricevere, nel 1637, la tonsura e in un secondo tempo gli ordini minori, potendo così servire le funzioni liturgiche. Nel frattempo la sua fama di prodigioso musicista attira numerosi allievi, appartenenti alle più influenti famiglie nobili di Roma e, di queste, intrattiene frequenti rapporti con quella dei Barberini, non tralasciando i suoi solidi contatti con il circolo di Cristina già regina di Svezia; prestigiosi “territori”, dove la freschezza e la bellezza espressiva delle sue composizioni destano grande ammirazione. Nel 1649 è nominato dall’Arciconfraternita del SS. Crocifisso, una prima volta, maestro compositore di un oratorio, da eseguire durante la Quaresima del successivo 1650, anno santo, con altri musicisti tra cui Benedetto Pasquini (1637 – 1710), virtuoso clavicembalista e anch’egli pregiato autore e introdotto sia negli ambienti della nobiltà romana e sia in quelli ecclesiastici e artistici. 

Tale considerevole incarico segue l’eco assunto dal suo oratorio Iephte (1646), - si imprime nella memoria il coro finale a sei voci così fulgido, tormentoso e nel contempo dolce - talmente eclatante che l’erudito ed enciclopedico gesuita, Athanasius Kircher (1602 – 1680), dedica una sezione del suo studio sulla musica, Misurgia Universalis Sive Ars Magna Consoni et Dissoni (1650), proprio a questo oratorio, inserendovi con caldo plauso una parte.

Non seguiremo gli avvenimenti fluiti nel corso della via del “nostro” eminente compositore, giacché l’intento, di tale post, non risiede nella volontà di elaborarne una sorta di biografia, ma di coglierne la sua peculiare elevatezza artistica.

La rimarchevole personalità artistica di Carissimi si staglia fra quelle protagoniste, in ambito musicale, del XVII secolo, accostandosi come importanza, ad esempio, al melodramma di Claudio Monteverdi (1567 – 1643), per il comune merito di aver creato un tono declamatorio, molto espressivo, colmo di liriche emozioni e di sentimenti liberati, scevro di giochi meramente virtuosistico-vocali; anche l’orchestrazione è sobria, improntata a una severità e a una semplicità (solitamente organo solo, pochi archi, basso continuo) quali insopprimibili riferimenti. Ritorniamo perciò, come lucente paradigma, allo Iephte. Lo scritto scaturisce dal capitolo XI del libro biblico dei Giudici, dove emerge la figura di Iephte, giudice e capo d’Israele, vittorioso sugli Ammoniti, tuttavia stretto dal suo voto che conduce al sacrificio della sua unica figlia: sentimento di acutissimo dolore, contrastante con il gaudio per la sconfitta subita dal popolo nemico. Le tre sezioni dell’oratorio (battaglia, gli inni festosi per il favorevole esito del conflitto, il drammatico epilogo dell’episodio) stendono cambi di tonalità ascendenti e discendenti, pause di eloquente espressività, brevi dissonanze sul basso continuo, irti e poliformi intervalli, in un succedersi armonioso di arie, di cori e di recitativi. Lavoro intenso e penetrante, unitario nella sostanza, dove il recitare ha foggia di protagonista, senza però soffocare la musica, che, al contrario, strettamente unita alle parole disegna il completo aspetto del tragico epilogo. Domenico Alaleona (1881 – 1927), musicista e letterato, nel suo volume “Studi sulla storia dell’oratorio musicale in Italia” (1908) a riguardo scrive: ” è nell’espressione del dolore che l’oratorio più eccelle: il dialogo tra Iephte e la figlia e i loro lamenti … sono fra le pagine più efficaci e commoventi che il dolore abbia ispirato all’arte musicale”.

Carissimi esilia dal suo lessico sonoro la convenzionale superficialità di certo artificioso “tecnicismo”, modellando e creando elementi musicali in una combinazione brillantemente insolita, riuscendo a imporre, in Europa, l’oratorio latino, per lo sprigionare di una felice e geniale padronanza talentuosa, che si incide nell’animo.

Imprevedibile aureo secolo, il Seicento, avvia linee artistiche nuove, ridonando alla musica sacra, grazie al “nostro” musicista, quella vivace dignità, altrimenti negata dal rigido e sterile schema che, impropriamente, si richiama al Palestrina (Giovanni Luigi da, 1525 – 1594), in realtà molto discosto dalla schietta e austera icasticità musicale palestriniana, in cui vi alberga una consonanza di radianti colori e di incisivi stupori sonori. Inoltre, il panorama si affaccia su una vista inondata dalla musica strumentale, accolta con favore e ricca di fascino, tale da conquistare, in misura crescente, “platee” sempre più ampie.

Carissimi, che della musica sacra magnificamente ne rinnova i capisaldi, manifesta la sua autentica e generosa creatività anche nel campo della cantata (composizione vocale e strumentale su testo di argomento sacro o profano), mostrando una densa varietà formale e un pregiato livello, tanto da essere considerato anche l’artefice di tale accento musicale, cui alcuni tratti si annodano ai suoi oratori. Artista eccelso, cui la produzione pur distende mottetti, dispiega organici vocali privi di limiti linguistici, come esemplifica splendidamente la sua Messa a 5 e a 9 voci (1670, circa), non dimenticando i Sacri Concerti Musicali (1672, circa), e altre messe nate dal suo genuino fervore creativo.

Nell’oratorio si svela ancor più le, assolute, vette della sua originale vena, in tale forma musicale strettamente italiana, figlia di quel pulsante vasto spazio in cui fermenta la cultura e l’arte in Roma, luogo elettivo di gran parte della eccezionale vivacità creativa, che contraddistingue l’Italia in quelle stagioni insostituibili. La naturale attitudine a vivere in questo immenso e operoso lido, dove novità di nature differenti e nuovi alati squilli artistici si susseguono senza tregua, determina probabilmente in Carissimi l’esile cura di affidare, alle stampe, le sue creature musicali manoscritte, dovendo invece ringraziare l’amorevole attenzione di qualche suo ammiratore e di taluni allievi, per le pubblicazioni (purtroppo esigue rispetto a quanto composto) a noi pervenute e degli oratori conservati. Egli, uomo di elevata cultura, di alcuni testi ne è, come ipotizzabile, l’autore, per l’evidente spessore letterario in essi evidente, superiore a quello piuttosto convenzionale di scrittori coevi, che, se presenti, la sua musica affranca dalla pochezza, rendendo concreta la plausibilità dell’azione nella “sostanza scenica degli affetti” e infondendo un coerente alto valore artistico, a quanto unitamente viene rappresentato.     

A proposito di allievi, molti musicisti - e aspiranti tali- giungono a Roma, per ricevere illuminanti lezioni e preziosi consigli dal Carissimi; importanti artisti che rispondono ai nomi di: Antonio Cesti (1623 – 1669, molte voci concordano nell’indicarlo studente del “nostro musicista”), Marc-Antoine Charpentier (1634, circa – 1704, già in precedenza citato), Johann Kaspar Kell (1627 – 1693, già in precedenza citato), Johann Philipp Krieger (1649 – 1725), Alessandro Scarlatti (1660 – 1725, secondo alcune fonti), Agostino Steffani (1654 – 1728, vescovo dal 1706, influenzerà il giovane Handel), e altri; illuminati artisti che ne legittimano la notorietà e l’autorevolezza musicale.

Nell’osservare l’organica inventiva di questo maestro, non deve essere omesso anche quel fine senso umoristico, incisivo elemento del suo linguaggio; ne forniscono prove le cantate, - con testi in volgare, in francese e in latino – Histoire des Cyclopes, Crolla il Mondo, Requiem Burlesque Latin et Français, I Filosofi, e così via.     

L’animo pregno di una sincera religiosità, riflettono la sua concezione artistica, senza dubbio sobria ma densa di raffinata semplicità, che allontana qualsiasi impoverimento dal tessuto sonoro; i caratteri distintivi dei suoi oratori saldamente poggiano sulla narrazione dell’avvenimento biblico o sacro, condotto sia dallo “storico” - come si è già considerato, tipico elemento oratoriale – sia dal coro esposto in chiave personalissima e priva di vacui effettismi polifonici. Oltre a ciò, la spontanea naturalezza, nel sublimarsi, dissigilla una sintesi di palpabile tragicità, capace espressione impressa sui personaggi scolpiti con singolare emotiva intensità, che rendono distinguibili anche le più lievi sfumature del sentire umano. L’intellettiva destrezza di Carissimi offre, all’auditorio, le immagini delle differenti vicende, attraverso i “colori psicologici” del suono, senza l’ausilio di apparati teatrali, di costumi e di luci, creando quello che si definisce “rappresentazione auditiva”. Infine, la meditazione, quando il compositore affida anch’egli il coro alla “voce del popolo”, lasciando che le parti si intreccino vivacemente e secondo collaudate formule contrappuntistiche ben controllate, dipinge uno smagliante momento riassuntivo dell’oratorio, nel quale sfociano unità vocali e sonore antiche e moderne.


Giacomo Carissimi (1605 - 1674); immagine tratta da "Google Immagini"
Frammento della partitura dell'oratorio Iephte; immagine tratta da "Google Immagini"
Prospetto dell' Oratorio del SS. Crocifisso
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Riporto di seguito i post di argomento musicale sinora pubblicati.
·      Arcangelo Corelli, il paradigma musicale dell’ambiente aristocratico e artistico romano (18 luglio 2015)
·       Handel nello splendido vivore artistico di Roma (6 febbraio 2015)
·      Il Grand Tour a Roma di Felix Mendelssohn-Bartholdy (20 giugno 2016; attualmente nono post dei più letti)
·      Mozart a Roma (27 novembre 2014)
·      Alessandro Scarlatti: il clima musicale della Roma barocca; l’oratorio; “Il martirio di S. Cecilia” (9 dicembre 2014)