Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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sabato 7 novembre 2020

Guido Cagnacci: Maddalena penitente (1621, circa)

 

Nel seno della mostra, Orazio Borgianni. Un genio inquieto nella Roma di Caravaggio, svoltasi a Palazzo Barberini -sede di una delle due “romane” Gallerie Nazionali di Arte Antica- conclusa lo scorso primo novembre, è stata esposta la tela Maddalena penitente di Guido Cagnacci (o Canlassi; 1601-1663), quale pittore tra quelli influenzati, in qualche verso, dall’arte del Borgianni.

Opera conservata proprio nella Galleria di tale fastoso edificio, che la didascalica presentazione   l’afferma come “vera e propria icona di sconvolgente sensualità … tra i dipinti più noti del Seicento”.

Già di questo tema figurativo ne ho trattato nel post, pubblicato il 28 settembre scorso, riguardo a Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino circa la sua Maddalena penitente. Dallo stesso riprendo la genesi e lo sviluppo di questa figura muliebre, che potremmo definire quale santa diffamata e contemporaneamente gloriata sugli altari, imprigionata nel fisso modello di donna, già meretrice, redenta da Cristo. L’intricata calunnia sembra nascere da episodi narrati nel Vangelo di Luca, iniziando dalla “peccatrice perdonata” (capitolo 7, versi 36-50), dove è descritta la conversione di “una donna che era in quella città, una peccatrice”, colei che con unguento profumato  stando ai piedi di lui… piangendo, cominciò a rigargli di lacrime i piedi , e li asciugava coi capelli del suo capo, e gli baciava e ribaciava i piedi e li ungeva con l’olio … egli disse alla donna: la tua fede ti ha salvata, va in pace”. Privo di alcun nesso testuale si è voluto invece congiungere la redenta -cui non è citato il nome-, di questo brano, a Maria detta la Magdalena (nota come Maria di Magdala) menzionata tra le pie donne che seguono Gesù Cristo: “con lui erano i dodici e certe donne che erano state guarite da spiriti maligni e da infermità, cioè Maria detta la Magdalena, dalla quale erano usciti sette demoni (capitolo 8, verso 2). Su questo passo si è poi generato l’abbaglio, insopprimibile, della storia elaborata su tale personaggio. Poiché il numero sette indica, nel codice biblico, la pienezza, in tale caso appare riferirsi a un male molto gravoso, di natura fisica o -seconda supposizione- morale, penetrato nella donna e dal quale Cristo l’ha, in precedenza, affrancata. La tradizione errata però solidifica la sua traiettoria, identificando altresì Maria di Betania (sorella di Marta e di Lazzaro) con la Magdalena (intesa come quella anonima “peccatrice”), in forza del medesimo atto, di venerazione (unzione dei piedi), da ella compiuto nei confronti di Cristo, contenuto nel Vangelo di Giovanni (capitolo 12, versi 1-8), ampliando la stesura dell’episodio compreso nei Vangeli di Matteo (capitolo 26, versi 6-13) e di Marco (capitolo 14, versi 3-9). La santa così individuata sarà riconosciuta nel culto e dunque nella storia dell’arte, giungendo intatta sino alla nostra epoca.

Il Cagnacci probabilmente esegue questa sua Maddalena penitente durante il suo breve secondo soggiorno in Roma, avvenuto nel 1621, come concorda la maggior parte degli studi. In questo periodo la sua cifra si mostra efficace rilettura del linguaggio caravaggesco, in cui viene esaltato un vigore tinto di scuro colore e di caldi aperti spazi, accosti, in parte, alla cifra del Borgianni. La sua tavolozza comprende anche una felice versatilità capace di rappresentare, in modo autonomo, la natura del soggetto raffigurato, rendendo percettibile altresì ciò che, in esso, intimamente è mosso, incorniciandogli scene liricamente naturalistiche, esenti perciò da divagazioni enuncianti labili leziosi effetti. I suoi lavori, che accoglieranno in seguito sia elementi “barocchi” sia pacati accenti volti al classicismo, sono privi di opache ponderosità mantenendo i decisi contrasti -come già mostra il dipinto della “nostra” Maddalena- di avvolgente luce e ampie vive ombrature, che da capacità di pittorica impaginatura ottiene, quale valore, sicura vivacità e caratteristico nitore. 

Il soggetto è steso, dal Cagnacci, con intensa possanza pittorica, sfociante nella bellezza che lo abbiglia di poesia. Un’accesa coinvolgente spiritualità da un amore che arde intessendone scena sorprendente, nella quale si materializza la spirituale fusione dell’anima -che conduce altresì quelle leggiadre membra-con l’essenza divina. Tale fisicità erompe da un interiore moto, che ripudia la limitatezza di intorpiditi sensi, per ascendere dalla realtà terrena a quella purissima celeste, divenendo visibile e abbracciabile dimensione. Elevatezza nel fremente intimo sospiro, gemito che sopravanza il circoscritto razionabile sentire, attraverso il compenetrarsi di luce altra per unirsi a Dio. Lo spirito azzittisce la voce alla mente e, nel completo abbandono, giungono sottili raggi divini su quel teso incarnato, impregnato di una forza svelante profondità, che sfugge al sentire materiale.

Certa si manifesta l’evocazione erotica, la quale, per l’appunto, smaterializzandosi si dona a una profondità alta dove l’anima insegue, tramite l’estasi, un’illimitata essenza. La nudità quindi raffigura la rivelazione infinita, che scopre un respiro introvabile altrove, per mezzo di un gioco plastico dimorante nello scoperto corpo, il quale mutandosi in proiezione divina rigenera l’amore nella vita, poco prima di salire i gradini del tempio mistico, tangibile in quella celata aerosfera. L’amore di e verso Dio si trasforma, nella vicenda umana, perciò in una sensazione fisica, non evanescente.

La Maddalena, dal florido nudo seno, è adagiata, presa da una sorta di svenimento, su cui sembra improvvisamente giungere un fulgore, che esalta la concretezza di ciò che sembra impalpabile. Il ruvido panneggio dai laceri bordi, non nega un’ondulata morbidezza del tessuto, su cui s’imprime un rischiarato teschio dai bruni lati, che la formidabile mano compositiva lo congiunge al raffinato brano, di luce, che bacia la protagonista e, contemporaneamente, una velata drammaticità -il flagello libero dalla stretta della mano- assegna intenso sentimento alla muliebre immagine.

Dettata dalla tradizione tutta occidentale -come già osservato nel menzionato post su questo tema dipinto dal Guercino-  le lunghe chiome sciolte della Maddalena -in questo caso coricate sulla scabra superficie- alludono alla donna peccatrice, alla prostituta, che ha asciugato, con i suoi capelli, i piedi di Cristo, dal quale è stata redenta; la fluente libera capigliatura perciò testimonia sia tale intimo contatto con il Messia, sia la sua precedente condizione peccaminosa, poiché, le donne probe, al contrario bene acconciano i propri capelli. Ella già grande peccatrice vuole percorrere la passione del Salvatore -secondo la consolidata voce devozionale- tramite una vita di stretta penitenza, trascorrendola, dopo la resurrezione di Cristo, in estremo eremitaggio.

Altri “segni” individuano la sua stretta esperienza con il piano salvifico, attuato per mezzo del sacrificio messianico, vale a dire la croce e il piccolo vaso rammentante l’episodio pronunciato, in forma piena, dal Vangelo di Luca (capitolo 16, versi 1-2): “Passato il sabato Maria Magdalena e Maria (di Cleofa) madre di Giacomo (il Minore) e Salomè comprarono degli aromi per andare a imbalsamare Gesù”.

Uno scuro, quasi retrostante, indefinito sagomato paesaggio sembra voler penetrare il violaceo cielo, cui arguti tocchi ne sfumano la tonalità; magnifica tenue incidenza del colore e della pennellata, che danno alito vivo alla composizione, opera tra le più acute del Cagnacci.


Immagine tratta da Google

 

 

 

        

 

 

lunedì 28 settembre 2020

Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino: Maddalena penitente (1659-1660)

 

Di Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino (1591-1666) il mio post, del 13 febbraio 2015, ne ha illustrato le tele romane esposte nella mostra “Da Guercino a Caravaggio”, svoltasi a Palazzo Barberini, vale a dire: Et in Arcadia Ego, Incredulità di S. Tommaso, Ritratto del Cardinale Bernardino Spada, Sibilla Persica.

Egli è chiamato a Roma dal neo eletto papa Gregorio XV (Alessandro Ludovisi), già arcivescovo di Bologna, poiché suo pittore favorito. Nella “Città Eterna” (1621-1623) il Barbieri, nato a Cento -nel ferrarese-, esprime la pittura degli affetti –che non scade in un accademico sentimentalismo-, con la quale il nitore delle scene o il “lume” dei personaggi ha fondamento nella suprema idea di bellezza. La sua entità artistica è magnificata dall’enfasi della sostanza pittorica, materia avvertita come colma di luce, viva nella propria morbida espressività, in un costante contrapporsi di toni caldi-freddi come lo è “il sentire” che scorre nell’esistenza umana, reso con cifra piena di effetti, risaltata dal celebre suo affresco a tempera (con la collaborazione di Agostino Tassi), raffigurante “Aurora che avanza su un carro spargendo fiori”, testimonianza della sua felice deflagrazione luministica pittorica. Opera realizzata nella villa -dove esegue altri dipinti- acquistata dal cardinale Ludovico Ludovisi (nipote del regnante pontefice), esempio di densa liricità e di pregevole plasticità colma di armonico moto. In questo lavoro però -come in altri suoi- non alberga soltanto un magnifico “atto decorativo”, esaltante la committenza, svolgendosi in esso altresì un articolato tema concettuale con rimandi ermetici, così vividi tra intellettuali, artisti e anche in taluni ambienti religiosi.

A Roma sono conservati alcuni suoi lavori, che si raffrontano con l’ambiente culturale caratterizzante la città, in cui culminano quella mobilità del “verso atmosferico”, quella sorta d’impeto che traduce il respiro del sentimento, affiorando, in alcuni dipinti, un naturalismo non disgiunto da un’idealizzazione vibrante di alcune figure, soprattutto femminili. Il suo particolare “macchiato” quasi palpitante, inoltre, vuole aggiungere alla “tessitura”, delle opere, toni di suggestiva poeticità.

La Maddalena penitente (1559-1660, Roma, Fondazione Sorgente Group), argomento di questo post, manifesta tali artistici tratti del Guercino; soggetto abbastanza frequentato dal suo repertorio, come ad esempio la Maddalena con la corona di spine (1632, Roma, Collezione Mainetti nella Fondazione Sorgente Group, segue immagine tratta da Google), o la Maddalena in preghiera dinanzi ai chiodi della Passione (1644, circa, Mosca, Collezione privata), opere attraverso le quali scandisce versi ove s’innalza un’ammirevole partitura di assorto sentimento. L’essenza muliebre è protagonista nella magnifica, ordinata, successione di note in intima religiosità, che eludono forme, anche larvatamente, devozionali per esprimere affetto incarnato.  

Nei dipinti del Guercino, la donna, nelle diverse espressioni rappresentate, vi riflette una concretezza che diviene musica, contenuto costruito su un concetto morale, accento pacatamente mistico, aspetto esoterico; perciò la raffigurazione della donna sostanzia il tramite per una vasta visuale escludente la quotidianità, un modo appropriato per rappresentare il divino, l’idealità.

Tale visione distingue, nel divenire della vita - transizione da uno stato all’altro-, ciò che sorge insolito come ardente esposizione cromatica, che eleva l’esistenza, tale da donare reale respiro a quel sentimento di pieno affetto, che la donna svela. Insieme di virtù (eletta forza) palesi e alte, così espresse dalla bellezza fisica, sino a mostrarsi sovrana concreta condizione, della realtà altra, nella sua assolutezza muliebre, percezione piena nella conoscenza, luce colma di giovinezza mai offesa dal tempo.

Prima di ammirare, nella sua completezza, la tela della “nostra” Maddalena, occorre trattenerci sulla sua figura religiosa, per meglio coglierne tutti gli elementi che la compongono.

Potremmo definirla quale santa diffamata e contemporaneamente gloriata sugli altari. Imprigionata nel fisso modello di donna, già meretrice, redenta da Cristo. L’intricata calunnia sembra nascere da episodi narrati nel Vangelo di Luca, iniziando dalla “peccatrice perdonata” (capitolo 7, versi 36-50), dove è descritta la conversione di “una donna che era in quella città, una peccatrice”, colei che con unguento profumato  “stando ai piedi di lui… piangendo, cominciò a rigargli di lacrime i piedi , e li asciugava coi capelli del suo capo, e gli baciava e ribaciava i piedi e li ungeva con l’olio … egli disse alla donna: la tua fede ti ha salvata, va in pace”. Privo di alcun nesso testuale si è voluto invece congiungere la redenta -cui non è citato il nome-, di questo brano, a Maria detta la Magdalena (nota come Maria di Magdala) menzionata tra le pie donne che seguono Gesù Cristo: “con lui erano i dodici e certe donne che erano state guarite da spiriti maligni e da infermità, cioè Maria detta la Magdalena, dalla quale erano usciti sette demoni (capitolo 8, verso 2). Su questo passo si è poi generato l’abbaglio, insopprimibile, della storia elaborata su tale personaggio. Poiché il numero sette indica, nel codice biblico, la pienezza, in tale caso appare riferirsi a un male molto gravoso, di natura fisica o -seconda supposizione- morale, penetrato nella donna e dal quale Cristo l’ha, in precedenza, affrancata. La tradizione errata però solidifica la sua traiettoria, identificando altresì Maria di Betania (sorella di Marta e di Lazzaro) con la Magdalena (intesa come quella anonima “peccatrice”), in forza del medesimo atto, di venerazione (unzione dei piedi), da ella compiuto nei confronti di Cristo, contenuto nel Vangelo di Giovanni (capitolo 12, versi 1-8), ampliando la stesura dell’episodio compreso nei Vangeli di Matteo (capitolo 26, versi 6-13) e di Marco (capitolo 14, versi 3-9). La santa così individuata sarà riconosciuta nel culto e dunque nella storia dell’arte, giungendo intatta sino alla nostra epoca.

Lo sguardo ora comincia a volgersi alla Maddalena penitente conservata presso la Fondazione Sorgente Group di Roma, che sebbene il disegno e l’impianto siano propri del Guercino, un’ipotesi ne ascrive sostanzioso intervento della sua bottega felsinea - a Bologna egli si è trasferito, da Cento, all’inizio del 1642-, tesi nella quale deve essere -quantomeno- sottolineato lo stretto dettato del “nostro” pittore. In precedenza, dopo la morte di Gregorio XV (1623), il Barbieri, ritorna a Cento presso la sua laboriosa famiglia, per portare a compimento diversi lavori lasciati incompleti, poiché richiesto, come in precedenza detto, a Roma (1621) da papa Ludovisi. Da questo momento, sino alla fine del 1641, egli ristabilisce lo studio nel suo luogo di nascita, dove notevolmente accrescono commissioni, accogliendovi anche prestigiose visite, tra cui quella di Cristina di Svezia. La sua committenza e l’ammirazione nutrita per la sua maestria si espandono oltre modo, includendo, secondo una notizia, Carlo I re d'Inghilterra, con sicurezza Luigi XIII re di Francia e gli Estensi (ducato di Modena e Reggio).

Importante prova documentale della sua attività è fornita dal “libro dei conti”, iniziato nel gennaio 1629 sino alla sua morte; in origine viene tenuto da suo fratello minore Paolo Antonio, pittore di nature morte e paesaggi, che dirige, con il fratello maggiore, la bottega, amministrando i beni della “casa”. Le annotazioni sul libro contabile sono poi scritte dal Guercino stesso, dopo il decesso del fratello avvenuto nel 1649 (l'autografo è custodito presso la Biblioteca comunale dell'Archiginnasio di Bologna); vi si legge l’elenco delle commissioni ottenute, le indicazioni delle relative date, il nome del committente e il denaro ricevuto per l'opera eseguita.

All’inizio del 1642 l’artista si trasferisce, come già accennato, a Bologna, non apparendo fortuito il verificarsi di tale evento, quasi concomitante con la morte di Guido Reni (accaduta nell’agosto del medesimo anno), colui che ha “governato la pittura” a Bologna; difatti, sarà il Guercino considerato nuovo “pittore principe” della città felsinea, sino alla sua estrema dipartita.

Tornando alla Maddalena della Fondazione Sorgente Group, grazie a quel libro dei conti, si ha conoscenza che, per l’esecuzione della relativa tela (e di un’ulteriore circa altro soggetto), il Guercino riceve un saldo di 80 ducatoni (grandi monete d’argento) nel gennaio 1660, dal nobile genovese Girolamo Panessi.


Prima di inoltrarci empaticamente in tale dipinto, ci soffermiamo intorno al carattere del Barbieri. Egli esplicita un animo mansueto e solerte, rivolgendosi completamente all’arte pittorica, in cui la sua famiglia detiene un’industre presenza nella sua occupatissima bottega. Guercino è persona assai semplice negli atteggiamenti e la sua modestia ha entità quasi proverbiale, oltre ad essere ricordato per i copiosi atti della sua pietà religiosa. Non si sposa e neppure ricorrono notizie su legami d’amore, che attraversino la sua esistenza, ciononostante i ritratti delle donne sono molto frequenti nei suoi temi, ove se ne coglie una visione multicolore, che affronta con costanza in modo solenne, spesso maestoso, nelle pitture sia sacre sia profane.

L’impostazione del quadro della Maddalena deriva, in generale, da un motivo iconografico frequentato nel pieno Rinascimento e in tutto il Barocco; come non rammentare, ad esempio, l’incisione Melancholia (1514, Karlsruhe, Staatliche Kunsthalle, segue immagine tratta da Google), di Albrecht Duerer, pregna di elementi esoterici e alchemici propri della cultura umanistica, vibrante in Italia dove egli soggiorna; su questa “maniera” è possibile citare la più scarna Melancholia (incisione del 1584) di Jost Amman.

In ambito pittorico, circa questa soluzione riportata in effige, si corre alla personale Melanconia, appellata altresì Meditazione (1618, Venezia, Gallerie dell'Accademia), di Domenico Fetti, raffigurazione di eclatante risonanza, da cui sono tratte copie e versioni sia ad essa contemporanee sia posteriori. L’estro di quest’ultimo artista concepisce, intorno al 1619, la Maddalena penitente (Roma, Galleria Doria Pamphilj, segue immagine tratta da Google), divenendo un acclamato modello di equilibrata formulazione.


A questo dipinto sembra ispirarsi, in parte, il Guercino nel dipingere la “nostra” Maddalena (segue immagine tratta da Google) concretandovi una feconda sacra pateticità. 


La figura -che sviluppa e arricchisce l’assetto della già menzionata Maddalena in preghiera dinanzi ai chiodi della Passione, del 1644- ben dischiude un “sentire affetto”, con la sua malinconica meditazione, accentuata dal gesto del braccio e della mano, cui le dita sono avvolte nel bianco panno, che lambisce l’occhio destro della protagonista, ove si è arrestata una lieve lacrima. Attraverso la mano su cui, con fare delicato, la raffigurata poggia la testa, sembra al primo sguardo un circoscrivere, del Barbieri, la sua opera alla sola pura emotività, a un composto patimento che rammemora l’atroce passione di Cristo, rappresentata dai tre chiodi, posti su una pietra, uno dei quali lievemente lambito dalla mano sinistra della santa. La scena è dipinta con delicato tono, illuminata da luce morbida quasi diafana che non si sottrae al contrasto, pacato, chiaroscurale su cui si definisce la spiccata soffice monumentalità del personaggio. Florida donna dalle flessuose membra, ideale femminile costantemente presente nelle opere “guercinesche” nell’evoluzione della sua cifra, che assume, con la maturazione artistica e umana, sembiante maggiormente adulto e raccolto. La bellezza muliebre quindi, nella tavolozza del Guercino -come dimostra questo olio su tela-, non svanisce, al contrario una completa grazia, una composita finezza pervade la donna ritratta; all’esuberanza delle figure giovanili, egli sostituisce una seducente ancor più incisa raffinatezza.

Una felice sorta di quinta teatrale è tratteggiata quale apertura dell’antro, dove il personaggio armoniosamente echeggia il martirio di Cristo; la scena inquadrata è risolta con capace sfuggente gioco di prospettiva in un cielo densamente azzurro.

La Maddalena dalle lunghe chiome sciolte -come da tradizione tutta occidentale-, alludenti alla donna peccatrice, alla prostituta, che ha asciugato, con i suoi capelli, i piedi di Cristo, dal quale è stata redenta; la fluente libera capigliatura perciò testimonia sia tale intimo contatto con il Messia, sia la sua precedente condizione peccaminosa, poiché le donne probe bene acconciano i propri capelli. Ella già grande peccatrice vuole percorrere la passione del Salvatore -secondo la consolidata voce devozionale- tramite una vita di stretta penitenza, trascorrendola, dopo la resurrezione di Cristo, in estremo eremitaggio. Ma questa Maddalena, rispetto ad altre, benché sia pienamente coinvolta in digiuni, veglie in preghiera, non è abbandonata dalla beltà; le sue nude membra -avvolte in parte dalla lieve, quasi sbiadita, porpora del manto- sono illuminate da una leggiadria accarezzata da soffusa sensualità, che non confligge con la redenzione, anzi la penitenza in questo caso viene esaltata dall’eufonico pallore steso su quel corpo disegnato.  

Immergendo gli occhi, nelle profondità di questa tela, l’emotività e il composto patimento sono avvinti ad un’assolutezza che dona uno spazio d’infinità, il quale, da esplicito movimento mentale, si trasforma in verità non racchiusa in una circoscritta spiritualizzazione, in una sembianza irraggiungibile, avulsa dalla realtà sensibile, tanto che quello speco è trasmutato in tangibile adito celeste.                 

          

 




lunedì 29 giugno 2020

Pierre Legros, detto il Giovane o Pierre II Legros: la statua di S. Francesco Saverio nella Basilica di S. Apollinare, euritmico mosaico di arte e di storia religiosa

L’opera oggetto di questo post è collocata nella Basilica di S. Apollinare alle Terme Neroniane Alessandrine, luogo cultuale così appellato poiché prossimo al sito termale voluto da Nerone. Edificato tra il 60 e il 64, ma ricostruito da Alessandro Severo nel 227, occupa dunque una vasta zona compresa tra la piazza antistante il Pantheon (piazza della Rotonda) e corso del Rinascimento (oggi corrispondente al segmento che giunge a via S. Giovanna d’Arco, dunque limitrofa a piazza delle Cinque Lune). Il riferimento toponomastico deriva molto probabilmente da un documento del X secolo, dove la si menziona chiesa non distante dall’area dell’edificio severiano: “non longe ab ecclesia sancti Apolinaris in templum Alexandrini.
Luogo di culto dedicato al santo che, secondo la tradizione, accompagna S. Pietro da Antiochia a Roma e poi consacrato vescovo di Ravenna (il primo di questa città) dallo stesso apostolo, che pertanto gli affida l’evangelizzazione di quel territorio. L’originaria chiesa in suo onore, eretta in Roma, è costruita tra la metà del VII e gli inizi del VIII secolo, per poi essere riedificata, come si ipotizza, da Adriano I intorno al 780, che altresì vi fonda accanto un monastero, accogliente alcuni monaci orientali rifugiatisi, nella “Città Eterna”, a motivo delle persecuzioni iconoclaste avvenute nell’impero bizantino dall’anno 726 all’anno 842. Dal 1284 vi è attestato un collegio di canonici, ad essi affidato sino al 1573, mentre la basilica diviene parrocchia intorno al 1562 e tale perdura fino al 1824. La sua elevazione a titolo cardinalizio -abolito intorno al 1585 ma ristabilito nel 1935- e la conseguente residenza (XIV-XVI secc.) dei relativi porporati, nell’attiguo edificio, determina che, soprattutto dalla seconda metà del Quattrocento alla prima metà del Cinquecento, essi abbelliscano e arricchiscano tutto il complesso. Il titolo di basilica indubbiamente soddisfa le condizioni, insite in tale appellativo, di antichità e di valore artistico e religioso, con un clero appropriato a un’attività liturgica, richiedente una maggiore solennità; in tale ambito è costante quindi la presenza di rendite cospicue, che danno vita a preziose ornamentazioni e arredi cultuali.
Nel 1560 vi alloggia la prima scuola della Confraternita della Dottrina Cristiana (fondata nel medesimo anno), successivamente trasferita nella Chiesa di S. Agata in Trastevere. Nel gennaio 1574 Gregorio XIII affida sia la basilica sia il palazzo ai Gesuiti quali strutture del Collegio Germanico, cui nel 1580 si congiunge quello Ungarico, costituendosi il Collegio Germanico-Ungarico seminario di giovani destinati alla vita ecclesiastica -nella Compagnia di Gesù- provenienti da quelle terre, istituto che pertanto svolge le sue attività formative (sarà in fertile unione con il Collegio Romano), per l’appunto, nell’edificio contiguo a quello basilicale. Particolare cura è riservata, in quegli ambienti, alla musica; infatti, gli allievi, sapientemente condotti da illustri maestri di cappella, sono molto considerati per le loro esecuzioni nel seno dei sacri riti e nelle rappresentazioni dai temi religiosi. Tra i musici maestri lì in azione si deve rammentare Giacomo Carissimi, del quale ho argomentato nel post del 25 settembre 2017, Giacomo Carissimi nella definizione dell’oratorio, sottolineandone la rimarchevole personalità artistica, tra le predominanti del XVII secolo. 
I Gesuiti reggono il complesso sino al 1773, anno in cui è soppresso questo Ordine. Un decreto di Napoleone emanato nel 1811, durante l’occupazione francese di Roma (1809-1814), vi trasferisce l’Accademia di S. Luca, che nel 1825 viene collocata, da Leone XII, in una parte dell’edificio della “Sapienza” -affacciato sull’attuale corso del Rinascimento-, l’Università di Roma già antico Studium Urbis. Lo stesso pontefice assegna quindi il Palazzo di S. Apollinare al Pontificio Seminario Romano. Nel 1849, nel corso della brevissima parentesi riguardante la Seconda Repubblica Romana (9 febbraio-4 luglio), all’Apollinare è allogato il Ministero delle Finanze.
Nel 1853 Pio IX fa edificare l’ampia sala di lettura sopra la basilica - oggi Aula Cardinal Joseph Hoffner, insigne porporato tedesco - aggiungendo all’edificio due piani -ala del Palazzo prospettante su corso del Rinascimento- per il Seminario Pio da lui fondato, che vi rimane sino al 1913 quando si trasferisce al Complesso del Laterano. Tra questo anno e il 1920 si stabiliscono, all’Apollinare, i Lazzaristi, la Congregazione della Missione voluta, nel 1625, da S. Vincenzo de' Paoli. Essi provengono dalla loro “casa” demolita per l’ampliamento del Palazzo di Montecitorio, sede del Parlamento Italiano. ai quali succede nel 1920, per volontà di Benedetto XV, il Pontificio Istituto di S. Apollinare (liceo-ginnasio), che condivide l'edificio con un'altra istituzione scolastica.
In questo palazzo, in differenti momenti della sua vicenda storica, vi hanno svolto gli studi Eugenio Pacelli (futuro Pio XII) e Angelo Roncalli (futuro Giovanni XXIII), così come i futuri cardinali Ugo Poletti, Agostino Casaroli, Alfons Maria Stickler, Achille Silvestrini e altri. Da rilevare ancora che, Giuseppe Melchiorre Sarto, anch’egli futuro pontefice (Pio X), viene consacrato vescovo di Mantova proprio nella basilica di S. Apollinare, il 16 novembre 1884.
In stagioni più recenti vi sono state ospitate diversi altri soggetti ecclesiastici, finché nel 1990 il complesso –ex territorialità dello Stato della Città del Vaticano- è assegnato alla Prelatura -cui la natura è incentrata su particolari finalità pastorali- della Santa Croce e Opus Dei, struttura che perciò officia la basilica ed espleta nel palazzo contiguo le attività del Pontificio Ateneo della Santa Croce, centro accademico relativo a materie ecclesiastiche.
Luogo quindi dal copioso affluire storico e religioso, da cui l'arte si eleva con musicalità di rime incise nella mura, negli spazi, nelle plastiche partiture, che la riedificazione -voluta da Benedetto XIV- della basilica, eseguita da Ferdinando Fuga (1741-1748), sillaba aprendosi al visitatore con la Cappella della Vergine, piccolo tempio autonomo, rispetto alla navata unica basilicale che prospetticamente incede sino all'altare maggiore. L’affresco della Vergine, col Bambino, Regina degli Apostoli tra i Ss. Pietro e Paolo (seconda metà sec. XV, autore sinora ignoto) con la sua temperata solennità, espone, in modo incisivo, l’intimo sentire dei personaggi rappresentati, testimoniando la vivezza artistica e cultuale già manifestata dall’antica basilica, cui la nuova ne coglie la luce per propagarla, in rinnovata temperie, verso nuove stagioni.
Il complesso (basilica-palazzo) però già alla fine del XVI sec. si palesa, nell’insieme, in condizioni degradate e interventi costruttivi sono realizzati in quel periodo, insufficienti però a salvaguardarne l’effettiva consistenza strutturale, l’aulico decoro. Paolo Marucelli (autore del progetto dell’attuale facciata di Palazzo Madama) è l’architetto incaricato, dai Gesuiti, a riedificare quasi completamente il palazzo, cui ne dà forma tra il 1638 e il 1642, circa (ma l’edificio sarà ancora ricostruito dal Fuga durante i lavori della basilica), mentre nel 1690 la stessa Compagnia di Gesù inizia ad ideare il rifacimento dell’adiacente tempio. Sarà, come già accennato, soltanto Benedetto XIV il quale, durante una visita al Collegio Germanico-Ungarico avvenuta il 25 luglio 1741, pronuncia, secondo una testimonianza dell’epoca, un “lungo discorso sopra la poca proprietà, oscurità, humidità della chiesa, che per essere antichissima era veramente miserabile … mostrò desiderio che si rifabbricasse di nuovo, e però talmente che poco vi mancò che non la comandasse, et esortando a rifabbricarla aggiunse che lui havrebbe fatto a sue spese l’Altar Maggiore” , come realmente per esso sosterrà.
Viene scelto dunque il Fuga, già architetto, dal 1730, dei Palazzi apostolici e, tra altri autorevoli incarichi, sarà Architetto del Popolo romano (1747) -nel 1762 sarà altresì nominato primo architetto della corte Borbone a Napoli-, come lo sono stati ad esempio Michelangelo, Giacomo Della Porta, Girolamo e Carlo Rainaldi. Egli possiede arguta capacità di sostanziare, nei corpi architettonici, le aspettative scaturite dalle esigenze tipiche di preminenti istituzioni, poiché la sua valente esperienza gli consente di padroneggiare tipologie edificatorie ove articola un sapiente controllo tecnico, giovandosi anche di un’attitudine che lo estrinseca quale formidabile organizzatore di “fabbriche”. Queste sue caratteristiche sono incise nell’attuale insieme basilica-cortile-palazzo, dove l’ampio sviluppato spazio include visibili elementi barocchi, impaginati con sintesi di motivi in rigorosa ornamentazione, che, per la basilica medesima, si modella in riuscita rilettura di quanto architettonicamente “codificato” -seconda metà del Cinquecento- dalla Chiesa del Santissimo Nome di Gesù (all’Argentina), nota come Chiesa del Gesù.
Dalla demolizione -e dispersione dell’insieme ornamentale- circa il precedente sito cultuale, titolato a S. Apollinare, sono risparmiati il citato affresco della Vergine, diversi reliquiari e la statua di S. Francesco Saverio, scultura del parigino Pierre Legros, il Giovane, detto anche Pierre II Le Gros (1666-1719).
Egli muove i primi passi nella scultura quale allievo, soprattutto, del padre, Pierre Legros. Arriva in Roma nel 1690 -successivamente al riconoscimento di miglior giovane scultore (1686) - ai fini del suo perfezionamento artistico presso l’Accademia di Francia; “l’Urbe” diverrà poi la sua definitiva residenza. La sensibile poeticità di quanto inizia ad esprimere la sua cifra, configurante composite incidenze, traccia distinguibili segni artistici, che non sfuggono a una perspicace committenza, quale in tal periodo si manifesta l’Ordine dei Gesuiti. Difatti, la sua prima notevole opera è realizzata esattamente nella Chiesa del Gesù (transetto di sinistra), vale a dire il gruppo statuario -di veemente sentimento “barocco” in rilevante chiave “ classicista”-, la Religione che flagella l’Eresia (1696, circa), che gli suscita un rapido favore, confermato dall’assegnazione della monumentale -ma non enfatica- scultura argentea di S. Ignazio di Loyola contornato da Angeli (1697, circa); essa purtroppo sarà fusa al termine del Settecento, nel corso dell’occupazione francese proclamante la Repubblica Romana (1798-1799), rimanendone solo la pianeta. Ciò che oggi si vede è, delle parti sottratte, il ripristino, conforme all’originaria impostazione, in stucco argentato, lavoro eseguito intorno al 1817 dallo studio di Antonio Canova. Tali lucenti opere si incastonano nel pregevolissimo altare (1695-1697, circa), vetta tra gli apici del gesuita Andrea Pozzo. Ancora con “Fratel Pozzo”, come spesso questi viene appellato (ha professato i voti religiosi nel 1676), Pierre Legros è il coprotagonista nell’ulteriore mirabile vertice architettonico -l’altare dominante il transetto destro della Chiesa di S. Ignazio di Loyola- con la sua ariosa e lucentissima opera scultoria: Gloria di S. Luigi Gonzaga, pala marmorea dell’altare, dedicato per l’appunto a questo santo. Altare compiuto, con tutto il complesso apparato, dal 1697 al 1688; se ne ammira la foggia leggermente concava, l’insieme di magistrale capacità compositiva, che, della creatività di Andrea Pozzo, rappresenta un’eclatante novità dell’ultima fase del “barocco”, riportando clamore altresì fuori dall’Italia. Soltanto come inciso, in questa sede, rammento la complessa ed eccelsa impresa pittorica che il Pozzo stesso immortala in tale chiesa (dal 1685), cominciando dalla celeberrima finta cupola, soluzione pittorica consona calla maestosità architettonica (e ornamentale) dell’edificio. L’idea però è già stata avanzata da Carlo Maratta, il pittore di sinfonici accordi cromatici, ma la verosimigliante dipinta struttura viene fattivamente concepita e messa in opera da “Fratel Pozzo”, risultato di sue ardue valutazioni prospettiche. Egli sino al 1702 -anno in cui lascia Roma- in tale tempio effigia altre sommità quali sono i pennacchi, l’imbotte e il catino dell’abside, la grande volta illusoriamente aperta alle profondità celesti e altro ancora. Chiesa ove si presentano, come un particolare arcobaleno, registri e semantiche completezze che distribuendosi risolvono superbamente il suddividersi degli imponenti volumi, generando variazioni cromatiche e morfologiche, vertiginose modulate spazialità. Con il mio post imperniato sulla “Chiesa di S. Ignazio di Loyola in Campo Marzio (cenni su Antonio Pozzo): l’affresco della “Annunciazione” della Sacrestia “(26 settembre 2015), ho affrontato parte di queste artistiche peculiarità, così vibranti in quegli ambienti. 
Legros, chiamato a collaborare strettamente in alcune opere del religioso artista, quindi non può che padroneggiare, scolpendo il marmo, capacità modellante armonici piani con vitalità pittorica, in una lucida sintesi di ritmi briosi, di sfumante slancio e di commossa dolcezza.  
Ora però, abbandonando lo sguardo su altre opere dello scultore francese, rivolgendoci nuovamente alla Basilica di S. Apollinare, è maggiormente percepibile, a mio avviso, che in essa vi sia la testimonianza, di uno scultore, indubbiamente non secondario e che, il vasto “preambolo” finora scritto, ha inteso rilevare, come in precedenza affermato, l’importanza storico-artistica di questo tempio, all’epoca affidato, come si è detto, alle cure dei Gesuiti. In Roma perciò esso si pone in forte dialogo con il “Gesù” e con “S. Ignazio”.
La navata unica, della Basilica, è percorsa da un fervido silenzio, spalancato sull’ampio presbiterio; in entrambi i lati stanno tre cappelle, l’ultima del fianco destro è dedicata a S. Francesco Saverio già nel 1696, quando comprende altra ornamentazione. La nuova, concernente la volta, viene eseguita intorno al 1742, come i due Putti collocati sul timpano, cui la forma sembra suggerire, quale autore fra diversi nomi, Bernardino Ludovisi. Nella nicchia dell’altare è posta la statua di S. Francesco Saverio di, per l’appunto, Pierre Legros, il Giovane (segue immagine), eseguita entro il 1702, anno coincidente, come precedentemente scritto, con la partenza, da Roma, di Andrea Pozzo. 


Al Pozzo sono attribuiti due raffigurazioni -dagli oggettivi caratterizzanti tratti “pozziani”- nell’originaria biblioteca dell'attiguo collegio, trasformata poi in cappella (attualmente adibita a sala di riunioni), sita al piano primo dell’adiacente palazzo (oggi del Pontificio Ateneo della Santa Croce). In tale locale vi campeggia sul soffitto un dipinto a tempera, Incoronazione della Vergine, mentre un quadro, Immacolata Concezione (già pala d’altare), infiora una parte. Forse Del Pozzo ne sono solo i disegni, ascrivibili agli ultimi anni del periodo romano, pittoricamente realizzati, in seguito, da un suo collaboratore.
L’intervento plausibile di “Fratel Pozzo” altresì in questo ambito, dimostra il pieno coinvolgimento del “nostro“ Pierre nei progetti della Compagnia gesuitica, grazie alle splendide opere che già si ammirano nelle più volte citate Chiese del Gesù e di S. Ignazio, discendendone pertanto -come inversa e indiretta prova- la quasi certezza della “presenza” di Andrea Pozzo nella su citata cappella.
Ora lo sguardo si posa sulla scultura di S. Francesco Saverio, rivelandosi opera che in sé racchiude ogni verso della poetica di Legros, benché, apparentemente, si presenti con un respiro dimesso, rispetto alla potente resa plastica, magnificamente vibrante nelle precedenti menzionate opere. Anche questa invece emana una rimarchevole sensibilità modellata in forma, che svela profondità psicologiche così indaganti il personaggio raffigurato.
Lo spagnolo Francesco Saverio, cardine della Societas Iesu, è nel suo primigenio nucleo. Straordinario missionario, espone il Vangelo alle eminenti culture orientali, adeguandolo, con erudita e schietta consapevolezza evangelica, all'animo delle diverse popolazioni locali. Secondo alcune fonti, egli avrebbe battezzato oltre 30.000 persone.
La statua in S. Apollinare lo rappresenta con l’amato crocifisso -copia moderna- e con un granchio ai suoi piedi (segue immagine), richiamando un episodio fronteggiato dal santo gesuita. Nominato da Paolo III nunzio apostolico di tutti i paesi asiatici, nell’aprile del 1541, egli salpa dal Portogallo per le Indie. Il circumnavigare l’Africa però si evidenzia evento sommamente tribolato, poiché il durevole perdurarne (13 mesi circa) causa penuria di cibo e anzitutto d’acqua; penosa condizione affiancata da una canicola estrema oltre che da bonacce e da improvvise burrasche. La nave -Santa Croce- resta immobile in pieno mare, senza che spiri minimo alito di vento; ogni persona a bordo patisce la sete per l’acqua potabile ormai mancante. Francesco Saverio però non cessa di pregare, esortando tutti ad unirsi al suo fare. Divinamente ispirato, scende, con alcuni membri dell’equipaggio, dall’imbarcazione e su una scialuppa ordina di immergere un recipiente nell’acqua marina, che poi benedice. Quell’acqua diviene miracolosamente dolce e perciò bevibile; tra giubilanti grida si riempiono tutti i contenitori stivati nella nave ma, durante i relativi frenetici generali movimenti, il missionario gesuita smarrisce in mare il suo crocifisso. Sconfinato dolore lo percuote tanto da muovere a compassione Cristo stesso, il quale consente che un granchio, recuperandolo, glielo porga sulla riva, una volta sbarcato. Questa scena è rappresentata in una lunetta dell’atrio afferente all’Oratorio detto del Caravita -prossimo alla Chiesa di S. Ignazio-, tratta dalle Storie di S. Francesco Saverio dipinte da Lazzaro Baldi (1671-1673).


Accadimento dalla densa andatura devozionale, però dalla salda valenza simbolica strettamente coniugata alla figura del Saverio. Discende, tale sottile segno di riconoscimento, da quanto avviene allo scudo dorsale del granchio. Invero, il suo carapace viene, in alcune specie, periodicamente perso e mutato e rinnovato, in contemporaneità con la primavera e con l’autunno, raffigurando dunque, nella simbologia cristiana, la resurrezione dal sepolcro, pertanto la rinascita attraverso il battesimo fondato sulla certezza della anàstasi, precisamente la resurrezione, alla fine dei tempi, dei morti, come asserisce S. Paolo: “… ignorate voi che … siamo stati battezzati in Cristo Gesù, che siamo stati battezzati nella sua morte? Noi siamo dunque stati con lui seppelliti mediante il battesimo nella sua morte, affinché come Cristo è resuscitato dai morti, mediante la gloria del Padre, così anche noi camminiamo in novità di vita. Perché, se siamo divenuti una stessa cosa con lui per una morte somigliante alla sua, lo saremo anche per una resurrezione simile alla sua …” (epistola ai Romani, capitolo 6, versi 3-5). Questa precisa immagine simbolica del granchio guida al parallelismo, paolino, Adamo-Cristo:” Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita(I epistola ai Corinzi, capitolo 15, versi 21-22). A tal riguardo, S. Tommaso d’Aquino, l’illuminato filosofo e teologo del XIII sec., argomenta che” Gesù Cristo non è venuto sulla terra … per morire; egli è venuto per unirci a lui e per associarci al suo trionfo … La morte non è che la metà dell’opera redentrice, che reclama la risurrezione come suo complemento necessario … Senza la risurrezione la fede non ha il suo vero oggetto; senza la risurrezione il battesimo non ha il suo completo simbolismo”.  Si evidenzia, percorrendo l’irto ma chiaro sentiero dell’intera figurazione, del senso in essa contenuto, quanto sia, come detto, attinente all’operoso fervore del santo gesuita.
La statua evoca una morbida enfasi pittorica -decisamente ancora di respiro seicentesco- nell’ondeggiante panneggio (segue immagine); contraddistingue, il volto, una luminosa plasticità aperta ad un armonioso ed efficace sentimento, preso da un’eloquente comunicazione divina (segue immagine). L’ammirevole perizia, dello scultore, ne esclude l’impostazione di scontata passionalità, al contrario effonde un sublime -ma frenato- momento di contatto, misterioso, con il divino attraverso un’avvolgente meditazione.   



La sua è un’osmosi in cui affluiscono, con fini elementi accademici, l’impeto derivato dalla scuola berniniana e la sensibilità classicista pronunciata da Alessandro Algardi, che pure a sua volta non è scevra, talvolta, di influssi derivati da Gian Lorenzo Bernini.
In tal modo si legge quella sembianza densamente plastica del viso e le mosse pieghe dei tessuti; ogni particolare è pervaso di una luce, che ne intride la forma instillando alla scultura un intenso carattere pienamente espressivo, che ne muove una transizione, continua, da scultura a pittura e viceversa.
Abile dosaggio delle attitudini artistiche di Pierre Legros, il Giovane, volte a elevare un’evidente profondità psicologica, anche in questo caso, della rappresentazione, in una mistica atmosfera, in un atto di reale contemplazione, per la particolare consistenza della trama scultoria, che ne mostra l’icastica intuizione condotta con accenti delicati ma vividi, dettagliatamente studiati ma schietti in ogni passaggio dell’opera, che rende tangibile l’immaterialità della fede.
 
Ringrazio il Rev. don Antonio Rodríguez de Rivera, Rettore della Basilica di Sant'Apollinare, 
per la gentile autorizzazione circa la pubblicazione delle immagini comprese in questo post


lunedì 1 giugno 2020

Chiesa di S. Maria di Loreto al Foro Traiano: gli articolati brani architettonici esterni

Il mio post, “François Duquesnoy, detto Francesco Fiammingo: la statua di S. Susanna della Chiesa di S. Maria di Loreto al Foro Traiano”, pubblicato il 22 ottobre 2015 (terzo -alla data di pubblicazione di questo studio- tra quelli maggiormente letti), introducendo tale lavoro scultorio, si sofferma sul sito ove esso è posto, brano che di seguito parzialmente riporto nel successivo capoverso.
La Piazza della Madonna di Loreto si rivela come una “sporgenza distintiva” di Roma, per la presenza dei resti della Basilica Ulpia con la poderosa Colonna Traiana, verso cui sembrano protendersi le Chiese del SS. Nome di Maria e della Madonna di Loreto; quest’ultima è un complesso di parti distinte però corrispondenti e disposte in perfetto equilibrio espositivo tra loro, richiamando, tra gli altri, i nomi del Bramante -possibile autore del primo progetto della riedificazione della Chiesa, avvenuta tra il 1510 e il 1592 e definitivamente completata nel 1690-, di Antonio da Sangallo il Giovane, di Giacomo del Duca (detto anche Jacopo, brillante allievo di Michelangelo).
S. Maria di Loreto, scrigno di superbe bellezze artistiche, che ne manifesta la luce già dall’insieme architettonico esterno.
Luogo cultuale affidato alla Confraternita sorta, durante il giubileo del 1500, in seno all’antica Università -nel significato medievale di corporazione, insieme di persone associate e di ciò che esse realizzano- dei fornai e dei misuratori di grano e loro garzoni, cui la prima notizia documentata è ascritta al 1318. Riconosciuta da Alessandro VI, ad essa viene concesso, dal medesimo pontefice, l’acquisto dell’area in cui già sorge un piccolo luogo cultuale, dove è collocata la pregevole tavola Padre Eterno che guarda la Vergine di Loreto tra i Ss. Sebastiano e Rocco di Marco Palmezzano (ante 1492). La nuova Confraternita conserva questa pittura, come ancona sovrapposta all’altare maggiore della Chiesa successiva, che edifica -demolendo la precedente- consacrandola a S. Maria di Loreto e alla Natività della Vergine, prendendone il titolo di Confraternita della Madonna di Loreto (oggi Pio Sodalizio dei Fornai). La presenza dei fornai, in tale zona, sembra voler riecheggiare quella già dell’antica Roma, poiché Traiano vi avrebbe collocato, secondo un’ipotesi oggi respinta, il mercato del pane con l’attiguo collegium dei fornai. Infatti, la Chiesa sorge sul limite della Basilica Ulpia, voluta, per l’appunto, dall’imperatore Marcus Ulpius Traianus (98-117).
L’attività inerente alla natura di questa congregazione di fedeli, costituita per il compimento di opere caritatevoli e di misericordia, determina nel 1564 l’innalzamento, contiguo alla incompiuta Chiesa, di un ospedale (completato nel 1570) per i fornai infermi, approvato con motuproprio di Pio IV il 13 agosto del medesimo anno. Vi si ricoverano i panificatori -e loro collaboratori- malati e residenti in Roma e nelle sue vicinanze, cui i più bisognosi sono assistiti anche con generosi atti di beneficenza economica; viene successivamente edificato altresì un oratorio (1577-1585). Nel 1872, per il progetto di risistemazione dell’area circostante, sono espropriati alla Confraternita alcuni edifici, cui seguirà nel 1900 la demolizione dell’ospedale, cui spazio è parzialmente poi occupato dal palazzo delle Assicurazioni Generali di Venezia (1902-1906).
La vivacità spirituale ed economica, di tale Confraternita, dunque è attestata durante il trascorrere di quasi quattro secoli, riconducendoci al 1507, allorché Giulio II approva quest’opera spirituale con un breve, consentendo perciò l’edificazione della nuova Chiesa, che avviene, per l'appunto, dal 1510 al 1592, completandosi nel 1690 dopo la realizzazione della tribuna (già parzialmente costruita), della sagrestia e dell’insieme decorativo interno.
Il primo magnifico nome, legato all’edificazione del nuovo luogo cultuale, è quello di Donato Bramante, forse a Roma dall’estate del 1499 (una presumibile, antecedente, presenza romana risalirebbe al 1493), cui il suo primo lavoro è riportato nella Vita di Bramante da Urbino, architettore contenuta nelle Vite del Vasari:”... partitosi da Milano, se ne venne a Roma innanzi lo anno Santo del MD, dove conosciuto da alcuni suoi amici e del paese e lombardi, gli fu dato da dipignere a S. Giovanni Laterano, sopra la porta santa che s’apre per il Giubbileo, una arme di papa Alessandro VI lavorata in fresco, con Angeli e figure che la sostengono" (affresco distrutto nel XVII sec.).
Da un disegno del Bramante, eseguito intorno al 1505, deriverebbe, come si ipotizza, il primigenio cantiere della Chiesa di S. Maria di Loreto. Egli ha già eseguito il chiostro e il convento di S. Maria della Pace (1500-1504), sta realizzando il Tempietto di S. Pietro in Montorio (1502-1509, circa). Dal 1504 interpreta architettonicamente il disegno di rinnovamento trionfalistico, che il Complesso Vaticano deve testimoniare (Cortile del Belvedere, Cortile delle Statue primo vagito del futuro Museo), agognato dal nuovo pontefice, Giulio II (1503-1513), che investe ovviamente l’antica Basilica di S. Pietro. La sua demolizione -in gran parte compiuta- consegna al Bramante l’appellativo “mastro Ruinante”; i relativi imponenti lavori (avviati nel 1506) del costruendo tempio lo impegnano, tra altre realizzazioni, sino alla morte (1514).
Proprio la pianta di S. Maria di Loreto ne suggerisce la mano bramantesca, se correlata con quella ideata per la Basilica Vaticana (immagine 1).


Bramante: pianta della progettata Basilica di S. Pietro in Vaticano

Invero, quest’ultima prevede un’aula a croce greca contenuta in un quadrato con quattro torri angolari, oltre a una cupola centrale e quattro cupole minori laterali, risolvendo quell’ideale di classica solennità propria della concezione del Bramante.
Dei suoi studi, del suo lungo fermarsi a riflettere sulle antichità, tanto da rallentarne l’attività (tra il 1502 e il 1504), lo rammenta il Vasari:” Aveva Bramante recato di Lombardia, e guadagnati in Roma a fare alcune cose certi danari; i quali con una masserizia (oculatezza nello spendere) grandissima spendeva, desideroso poter vivere del suo, et insieme, senza aver a lavorare, poter agiatamente misurare tutte le fabriche antiche di Roma. E messovi mano, solitario e cogitativo se n'andava; e fra non molto spazio di tempo misurò quanti edifizii erano in quella città e fuori per la campagna; e parimenti fece fino a Napoli, e dovunque e' sapeva che fossero cose antiche; misurò ciò che era a Tiboli et alla Villa Adriana, e come si dirà poi al suo luogo, se ne servì assai”.
L’accentrata simmetria pregna di densa classicità, progettata dall’artista architetto, per la Basilica di S. Pietro, appare preannunciata dall’impostazione dell’aula di S. Maria di Loreto, pur con i possibili mutamenti eseguiti nel corso della relativa edificazione. Infatti, la pianta ottagonale è incisa in un quadrato, comprendente quattro cappelle semicircolari disegnate come grandi nicchie (immagine 2), sostanziando una pacata monumentalità, un disteso e largo movimento spaziale.
Pianta della Chiesa di S. Maria di Loreto al Foro di Traiano


La conduzione della prima fase dei lavori, di questa Chiesa al Foro Traiano, si rivela comunque nebulosa, considerando che documenti indicano il Bramante, tra i suoi ormai molteplici lavori, attivo -per volontà di Giulio II (25 novembre 1507)-  presso la costruenda Basilica della Santa Casa di Loreto (1508-1509), per la quale, nello stesso periodo, disegna sia il prezioso rivestimento marmoreo, per l’appunto, della Santa Casa inglobata nella Basilica, sia il monumentale Palazzo Apostolico. Fervida attività quindi reclamante una dinamica e produttiva bottega, vera prima “azienda”, in tal sfera, nel Rinascimento. Da tale solerte e impegnativo contesto, deriva la possibile iniziale conduzione, di un suo allievo, dell’impianto edificatorio (1510) della Chiesa progettata innanzi alla Colonna Traiana, che riguarderebbe soltanto la posa delle fondamenta. Non trova invece alcun oggettivo riscontro la remota ipotesi del, successivo, coinvolgimento, in tale cantiere, di Andrea Sansovino (Andrea Contucci), lavoro che sarebbe compreso nel suo periodo romano, iniziato nel 1505 e concluso nel 1513, quando riceve l’incarico di soprintendente alla Fabbrica del Santuario della S. Casa a Loreto (giugno 1513). Vi giunge nel febbraio del 1514, rimanendovi sino al 1527, con alcuni contemporanei interventi in altre località; muore nel 1529 nel suo originario luogo, Monte San Savino. A Loreto però, la sua capacità architettonica, è giudicata non confacente al grandioso lavoro commissionatogli; per tale motivo gli è affidata la sola decorazione scultorea (1518-1523) del rivestimento marmoreo, in precedenza disegnato dal Bramante, per il quale realizza una sequenza di Sibille e Profeti nel contesto di Storie della Vergine, incise su rilievi. Proprio il “versante scultorio” documenterebbe la presenza del Contucci, nella Fabbrica della Chiesa al Foro Traianeo, poiché gli si attribuisce la scultura, posta nel timpano del portale principale, Vergine col Bambino e la Santa Casa di Loreto. Questa supposizione appare labile, in forza della cronologia inerente alle varie fasi edificatorie (iniziali e intermedi) della Chiesa, totalmente non coincidenti con la sua vicenda umana; difatti la sezione inferiore del prospetto (come si vedrà) viene completata dopo il 1531. Per questo motivo formulo la tesi che, il piccolo gruppo scolpito (oggi per lo più deteriorato), potrebbe essere stato eseguito da un allievo-collaboratore della folta bottega del Cordini, come mero elemento decorativo, vagamente echeggiante il Contucci.
Si giunge così proprio ad Antonio da Sangallo, il Giovane (Antonio Cordini), collaboratore del Bramante prima come carpentiere e seguentemente quale architetto, verso il quale non può accettarsi l'ipotesi che sia stato il primo architetto di S. Maria di Loreto, perché realmente inizia la pratica architettonica tra il 1514 e il 1515, che lo vede, soltanto nel 1518, continuare l’edificazione di questa Chiesa, interrotta dopo breve tempo e ripresa nel 1522 sino al 1527. Attesta, tale visuale, l’antecedente acquisita sua esperienza (ante 1514, anno della morte del Bramante), considerevole in ambito di cantieri e quindi estrinsecazione di una particolare abilità di natura tecnica, ma non creativa, sottoposta alle specifiche indicazioni del medesimo Bramante, nelle numerose opere eseguite durante il pontificato di Giulio II (morto nel 1513). Perizia “di mestiere” determinante, pur nelle seguenti stagioni, le commissioni ottenute, che seguono perciò la sua fama di esperto tecnico.
La sua posteriore pratica architettonica è colma di ascendenze bramantesche, oltre a quelle degli zii materni (Giuliano Giamberti detto Giuliano da Sangallo, Antonio Giamberti detto Antonio da Sangallo, il Vecchio), insopprimibili influenze da cui trae anche una certa attitudine a distribuire, simmetricamente, gli ambienti interni; suggestioni architettoniche dell’antica Roma in lui generano un senso di forza, che tenta di trasformare in solidità di portanti elementi altresì estetici. Tuttavia spesso appalesa un’ingombrante acerbezza di strutture; se dalla maturità artistica (1524) genera marcate soluzioni spaziali, in grado di organizzare una funzione ritmica di elementi strutturali, affermando contestualmente un florido e attivo rimando all’arte bramantesca con echi raffaelleschi, allo stesso modo non riesce ad esiliare talune indeterminatezze. Nell’ultimo tratto del suo percorso artistico (e di esistenza) avvicenda differenti accenti e variegati canoni, assieme a ritorni di utilizzate espressioni, accennando altresì nuovi temi, preludi delle successive elaborazioni dell'architettura che cadenzano il XVI sec. Composito insieme dovuto, soprattutto, alla sua rodata destrezza e maestria però non scevre di una persistente gracile fusione di volumi e di piani.
Questo generale quadro, sull’impostazione artistica del Sangallo il Giovane, asserisce che, per quanto l’impianto centrico ad ottagono regolare -circa la superficie interna di S. Maria di Loreto- sia alquanto presente nel linguaggio di tale artista, evidenziando, come detto, uno stretto rapporto con la cifra architettonica del Bramante -dimostrato altresì dal corpo basamentale della Chiesa-, appare sostenibile il concetto di trascrizione compiuta, dallo stesso Cordini, riguardo all’originario disegno, rimanendo quindi, pur nella forma definitiva, bramantesco nelle sue linee portanti.
I lavori, come certificano le relative date, proseguono con enorme lentezza, a motivo delle cospicue opere commissionagli in progressione, tanto da impiantare una bottega assai numerosa, cui i collaboratori si muovono con incarichi aggiuntivi, subalterni però indispensabili in relazione alla loro capacità, alla specifica competenza, permettendo l'accoglimento e l'assolvimento simultaneo di una mole di commissioni, incarichi, interventi, tutti affrontati con operativa efficacia imprenditoriale, rispettati rapportando ed incrementando l'impegno in base al rilievo del lavoro e prestigio del committente, del reale guadagno.
Questo contesto segnato da un’indubbia abilità produttiva, del Sangallo, insita nelle copiose assunzioni di appalti, incide sull’andamento del cantiere della “nostra” Chiesa, considerando anche la sua nomina, conferitagli da Leone X, a capomastro della Fabbrica di S. Pietro (aprile 1520), subito dopo la morte di Raffaello, affiancato da Baldassarre Peruzzi (agosto 1520), con il quale esegue anche altri lavori. Oltre a ciò, dal 1525, essendo l’architetto del papa, attende alla continuazione dei lavori del Santuario di Loreto, comprendenti anche il proseguimento di quelli interessanti il Palazzo Apostolico. A questa pletora di fervide attività, drammaticamente si contrappone il “Sacco di Roma” (maggio 1527-febbraio 1528) con le sue devastanti rovine altresì economiche. Per questa ragione le opere edificatorie di S. Maria di Loreto sono da lui riavviate nel 1530 e dirette sino al 1534, circa, dando definitiva forma alla sua parte inferiore con il prospetto principale (completato dopo il 1531), con la copertura -provvisoria- lignea a superfici inclinate (a tetto) e con l’impianto della cupola appena pronunciato.
L’immancabile Vasari, in riferimento a tale opera, scrive nella Vita D’Antonio da Sangallo, archiettore fiorentino.” In questo tempo al macello de’ Corbi (via Macel de Corvi, scomparsa durante la trasformazione della zona avvenuta per l’innalzamento del Vittoriano) a Roma, vicino alla colonna Traiana, fabbricandosi una chiesa col titolo di Santa Maria da Loreto, ella da Antonio fu ridotta a perfezione con ornamento bellissimo”.
La Chiesa viene, pur incompleta, allestita con un “momentaneo” minimo arredo e consacrata una prima volta nel 1535 per poi essere risacralizzata durante il giubileo del 1550. Si deve invece attendere il 1573, per la ripresa dell’opera architettonica, con il completamento delle facciate laterali e con le costruzioni della cupola e del campanile, terminate nel 1577. A questa data rimangono da eseguire la tribuna (in forma definitiva), la sagrestia e la decorazione interna; marginali lavori di rifinitura, architettonica, esterna e interna si protraggono fino al 1592, data incisa sotto l’oculo della cupola, compreso nell’asse sovrastante la luce e il portale centrale. Tale ulteriore fase è consegnata -sino al 1577- all’architetto e scultore siciliano, natio di Cefalù, Giacomo (o Iacopo) Del Duca (così “romanizzatone” il cognome Lo Duca).
Lo zio paterno Antonio è un sacerdote di carica vita spirituale, amico di Ignazio di Loyola e di Filippo Neri, ministro religioso proprio di S. Maria di Loreto, oltre a essere frequentatore di Michelangelo, il quale possiede la dimora-bottega nei pressi di tale Chiesa. Giacomo, chiamato a Roma da questo suo vicino parente, che presenta al Buonarroti, inizia un fruttuoso esteso alunnato nella bottega michelangiolesca, rimanendovi sino alla morte del sommo artista (1564) impegnandosi in sculture, in lavori di fusione; specialmente per questi ultimi è molto considerato da Michelangelo. Tale attitudine viene esaltata dal Vasari nell’edizione “giuntina” (1568) delle Vite de' più eccellenti pittori scultori, et architettori, pubblicazione ampiamente ingrandita e revisionata, curata dalla stamperia Giunti con l’aggiunta, all’originario titolo, Vite de' vivi, et de' morti, dall'anno 1550 infino al 1567. In essa non è stesa una biografia di Giacomo Del Duca, ma nel capitolo “Vita di Michelagnelo Buonarruoti”, a proposito dei lavori nella Basilica di S. Maria degli Angeli e dei Martiri, si esprime in questi termini: “Jacopo Ciciliano, eccellente gettatore di bronzi, che fa che vengono le cose sottilissimamente senza bave, che con poca fatica si rinettano; che in questo genere è raro maestro”.
Tra le testimonianze documentali a noi pervenute, risaltano, oltre a quelle attestanti la sua cultura, quelle relative al suo rapporto con il magnifico artista. Infatti, in una lettera del 15 marzo 1565, indirizzata a Leonardo Buonarroti -nipote di Michelangelo, già padrino di battesimo del figlio di Giacomo - erede del cospicuo patrimonio e delle opere dello zio, il Del Duca manifesta la sua profonda riconoscenza nei confronti del Buonarroti: “io me vergogno a dire che sono qualche cosa et sono niente et non so niente ma quel poco che sono tenuto et la conoscenza chio in Roma, lho per avere stato sotto lombra de Missere”. Da rammentare, a tal riguardo, che Michelangelo sembrerebbe riferirsi al medesimo Del Duca, in una sua lettera (1542), nella quale indica “Jacopo mio garzone”, in quel periodo compreso tra il gruppo di scultori -bottega michelangiolesca- impegnati a completare la tomba di Giulio II nella Basilica di San Pietro in Vincoli, cui lo scultore siciliano assume, secondo quanto ad oggi documentato, una posizione marginale. Egli successivamente sviluppa il proprio sistema, che dà vita alla "compenetrazione" di più figure architettoniche nello stesso corpo edificato -forme architettoniche fuse l'una nell'altra-, uno dei versi principali del linguaggio del Buonarroti.
Mentre "Jacopo" realizza la sua alta espressione in S. Maria di Loreto, esegue anche, tra il 1575 e il 1577, un basso recinto ornamentale intorno alla prospicente Colonna Traiana- incluso nel programma di ristrutturazione urbanistica voluto da Gregorio XIII (1572-1585) -, progetto cui, precedentemente, è stato investito Michelangelo (suo disegno del 1558). Già un’incisione del 1692 però non lo mostra in loco.

Nel 1592 Del Duca ritorna in Sicilia, a Messina; nel frattempo è stato espulso dalla Confraternita di Santa Maria di Loreto (cui ne è membro), probabilmente per contrasti di natura artistica.   
L’impianto architettonico di questa Chiesa romana si evidenzia -per quanto si è illustrato - silloge delle differenti “mani architettoniche”, succedutosi con le diverse fasi edificatorie.
Si può iniziare la veduta (immagine 3), dell’articolazione esterna, sottolineandone quell’emanare plastico spessore, fissato in ogni parte strutturale, da una resa quasi pittorica delle superfici, soprattutto per merito di quanto impostato da Giacomo Del Duca, che incide sull’edificio l’accentuato carattere ascensionale, sillabato sino alla lanterna -dalla particolare plasticità scultoria- che si erge dalla cupola.

S. Maria di Loreto al Foro di Traiano: prospetto principale

Il dado basamentale -effigiante il carattere bramantesco del progetto- rappresenta, per quanto poi edificato dal Del Duca stesso, un vivo piedistallo della cupola. I registri, del piano basamentale, sono enunciati dal ritmico e coerente solido assetto dell’insieme architettonico, sagomato con squisito senso artistico, effondendo levature prossime a una pittoricità tinta di morbidi colori.
Il prospetto -svolto anche nelle laterali fronti-, composto da laterizio (terracotta e mattoni) con inserti in travertino, è modulato in tre sezioni da binate paraste corinzie (con funzione portante), con nicchie e portali risaltati da una cornice arcuata. I registri inferiori sono suddivisi da modanature orizzontali -di travertino- in tre segmenti, che si estendono, come in una partitura, dall’ampio zoccolo sino alla lievemente aggettante cornice superiore, introducente l’attico.
Il portale principale (immagini 4; 5 particolare), prospicente alla Colonna di Traiano, ripete lo schema del più misurato “robusto decoro” impregnato di classicità; oltre alla consueta pietra di travertino che lo cinge ai lati, il pregiato marmo cipollino ne conforma invece le due volute, le due piccole teste leonine, il triangolare timpano e il minuto gruppo scolpito Vergine col Bambino e la Santa Casa di Loreto (cui in precedenza si è accennato). L’inscrizione in latino “DIVAE MARIAE VIRGINI ET MATRI DEI/SODALES LAURETANI DD AN IUBILEI MDL” (DIVA -traslitterando l’antico significato, secondo l’antichissimo etimo, in “creatura piena di luce”- MARIA VERGINE E MADRE DI DIO/COLLEGIO DEI LAURETANI CONSACRATO ANNO GIUBILEO 1550), indica l’anno di riconsacrazione della Chiesa.

S. Maria di Loreto: portale principale 

S. Maria di Loreto: portale principale (particolare)

I due portali laterali affacciati, rispettivamente, su piazza della Madonna di Loreto (immagine 6) e su vicolo di S. Bernardo, sono stati ultimati -nella medesima foggia- da Giacomo del Duca; si nota la differenza rispetto a quello principale, elaborato dal Sangallo.

 S. Maria di Loreto: portale laterale su Piazza della Madonna di Loreto  (particolare)

Invero, l’architetto-scultore siciliano orna, gli ingressi alla Chiesa, con due volute con elementi vegetali e, sul dorso, figure molto simili a delfini verticalmente protesi, che dal periodo paleocristiano simboleggiano la salda guida delle anime, verso il porto sicuro della salvezza sostanziato da Cristo, il Salvatore. Un timpano arcuato, dal tratto centrale aggettante -su cui campeggia una sfera-, risolve il culmine della cornice marmorea; timpano dove un espressivo e raffinato volto alato, di cherubino, plasticamente colma il suo incavo. La relativa inscrizione latina riferita alla Vergine (presente solo nel portale di piazza della Madonna di Loreto) “INGREDIMI ET VIDETE/FILIAE SYON/REGINAM VESTRAM" (ENTRATE E GUARDATE/FIGLIA DI SYON -Syon è il rilievo collinare sul quale è sorto il primo nucleo di Gerusalemme- /REGINA VOSTRA), annuncia che il tempio è a Lei dedicato.
Il tamburo ottagonale innalzato dal Del Duca, poggia sul dado appena pronunciato da Antonio da Sangallo, il Giovane (immagine 7, particolare, cui la freccia aggiunta ne indica il limite).

 S. Maria di Loreto:  cupola

Osservando il sistema tamburo-calotta-lanterna dal prospetto principale, in pieno si concreta, nello sviluppo delle parti, il modo di quella "compenetrazione" (di cui si e già accennato), per mezzo del quale perviene ad effetti di splendida suggestione, capace rielaborazione di temi michelangioleschi, attraverso l’intreccio di più figure architettoniche, palpabile vertice creativo. Un timpano triangolare spezzato abbraccia una balaustra, che sembra sorreggere l’atmosferica luce, incoronata da un vibrante duplice gioco di chiaroscuranti timpani, piegati ad arco. Scandiscono gli angoli delle nicchie, anch’esse sormontate da altri pulsanti archi - sostenuti da pseudo piedritti sospesi- e da valve di conchiglia dalle quali fuoriescono dei volti, mentre luci laterali, corrispondenti ai rispettivi portali, sono descritte da timpani triangolari (immagine 8, particolare).

 S. Maria di Loreto:  cupola (particolare)

Una cornice, che alterna sporgenze e rientranze, ribadisce la modellatura ottagonale circa la struttura del tamburo, su cui si imposta l’ardita calotta della cupola, cui solitamente la letteratura ne addita la natura di, consapevole, opera che rielabora quanto espone Michelangelo nella cupola edificata in S. Pietro, affermazione confliggente con una completa indagine storica-artistica.
La “cupola vaticana” è progettata dal Buonarroti intorno alla fine del 1546, arrestandosi i relativi lavori nel 1564, anno della sua morte, apparendo elevata sino al livello del tamburo. La costruzione è ripresa, da Giacomo Della Porta coadiuvato da Domenico Fontana, nel 1588 e quasi completata nel 1590; dopo una sosta di circa due anni, viene eseguito il rivestimento, della calotta, con lastre di piombo e realizzata la lanterna, sulla quale si colloca l’imponente sfera bronzea dorata con la croce (1593).
L’esito architettonico finale (immagine 9), dopo tale intervento, ne definisce una forma maggiormente slanciata verso l’alto -di 11 metri- in confronto all’originario progetto michelangiolesco.  

S. Pietro in Vaticano: cupola

La calotta di S. Maria di Loreto dunque precede, quale edificazione, la “vaticana” di diversi anni. L’estro di Giacomo Del Duca staglia la sua cupola, nella luce dell’orizzonte di Roma, come magnifico monumento di un sentire artistico, che ne contrassegna l’originale sicuro carattere, certamente desunto dalla lezione di Michelangelo, del quale ne osserva -come razionalmente si evince- il primigenio disegno inerente alla cupola di S. Pietro. Non viene imitato il maestro toscano ma, tenendo conto di quella elaborazione su foglio, compone il suo progetto con personale e originale cifra, dando foggia alla massa architettonica e all’organizzazione statica. L’insieme edificato ne appalesa la decisa natura ascensionale propria.
Le proporzioni delle forme, esplicitate dalla cupola (immagine 10), impresse dall’artista siciliano, si rilevano un audace e profondo mutare del disegno michelangiolesco, un definire di prorompenti costoloni ove si rovesciano oculi-lucernai sovrapposti, su cui – come “abbaini” aperti più in alto- s’incardinano alternate cornici “a timpano” -ora triangolari, ora arcuate-, mirabilmente disfacendo le superfici brevi delle sezioni, incluse in quelle alte nervature sporgenti. Contrafforti, situati poco più in basso, disegnano una teoria di anticanonici archi, posti al termine della “discesa”, frapposta tra i medesimi costoloni. Cupola ottagona, che svetta sul denso scenario urbano circostante di quell'epoca e di quella attuale, in una graduale intensa osmosi tra architettura e decisi versi plastici, sino a trasformarsi in atto poetico e musicato da un’azione decorativa fattasi insieme di note sovrane, culminando nel suo magnifico elemento terminale.

S. Maria di Loreto al Foro Romano: cupola

La lanterna deflagra con la sua innovativa veemente articolazione, quasi “preborrominiana”, ricavata sovraimponendo tre organismi: la rotonda base su cui volteggia il, vuoto, corpo centrale contornato di colonne, subitanee geometriche aperture, volute conducenti il cilindro, veementi soluzioni poliedriche, pinnacoli divenuti candelabri, accesi, al di sotto dell’intagliata cuspide scagliata all’inseguimento del cielo.
Attinente, alla struttura della cupola, si conferma il tema esposto dal campanile, elevato lateralmente ad essa e da questa dominato (immagini 11, 12).

S. Maria di Loreto al Foro Romano: cupola e campanile (particolare)

S. Maria di Loreto al Foro Romano: cupola e campanile (particolari)



Alle sue due cellule -sovrapposti spazi- sono infuse un’eloquente inconfondibile bellezza, che ne slega le forme -quella inferiore quadrata, quella superiore rotonda- (immagine 13), come un fluido incontenibile, che spinge i corpi architettonici a respirare, afferrando l’aria. Torre campanaria di cornici, oculi, timpani spezzati, aperte targhe rettangolari che permettono alla luce di riempire quei volumi, sollevati da contrafforti diagonali, sporgenti rivestimenti di esuberante decorazione. Sono improvvisi bagliori in contrasti di forme, anticipatori di quella sonora loquela, spalancata dal vortice mosso dalla concitata atmosfera barocca.  

S. Maria di Loreto al Foro Romano: campanile (particolari)



Ringrazio l’ingegnere Luciano Valle, per le sue fotografie -immagini 3,4,7,10- che ho potuto inserire in questo post