Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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giovedì 20 ottobre 2016

Giacinto Brandi: il “Martirio di S. Andrea” della Basilica di S. Maria in Via Lata



La Basilica di S. Maria in Via Lata rappresenta una delle numerose effigi celate, seppur d’intensa sostanza, nel seno della “Città Eterna”. Già nel mio post pubblicato il 20 dicembre 2014, dedicato alla pala marmorea -appena terminato il suo restauro- di Cosimo Fancelli, che rifulge in un ambiente dei sotterranei, ho posto l’accento su quanto, l’intero complesso della Chiesa, sia una rigogliosa testimonianza archeologica e artistica.

Si distende, questa capace ricchezza estetica, nello slancio verticale del prospetto, mirabile elaborazione architettonica di Pietro da Cortona, il quale ne assegna la valenza di plastica quinta esposta a densi mutamenti di luci, di ombre da cui affiorano, progressivamente, le parti della struttura sporgenti verso l’esterno. Opera architettonica quale proemio della preziosa distesa di marmi e di tele ornanti il policromato interno, colmo di effetti radiosi che aprono, sereni, gli alti segmenti del soffitto, dove nella sezione anteriore il dipinto, “Incoronazione della Vergine”, realizzato da Giacinto Brandi (1621 - 1691) nel 1650, eleva lo sguardo spirituale dell’osservatore; pittura di spessa nobiltà figurativa, tanto da essere lodata, fin da quella metà del XVII secolo, per il brio d’impostazione barocca inciso su una “venatura classica”.

Artista abile nel raffigurare “voci” pittoriche acute e fervide, il Brandi rifugge da leziosi e patetici sentimentalismi; invero, pur aderendo in ambito cultuale alle esigenze pietistiche, egli si esprime secondo i canoni del proprio singolare linguaggio. Il “nostro” Giacinto è attorniato da una considerevole fama nel suo tempo, tanto che Mattia Preti (pittore attento verso elementi classicisti e volto a concepire il Barocco nella dilatazione dello spazio, elaborando diffusi caratteri luministici e colori pieni) in uno scritto giunge a definirlo “più pittore … e meglio” rispetto ad altri celebri “pintori” suoi contemporanei, quali Carlo Maratta (tra i più importanti nell’ambiente romano e massimo esponente, con Andrea Sacchi, di una temperie classicheggiante e accademica), Pier Francesco Mola (il cui stile comprende alcuni alti toni del Barocco rivelando altresì spessi accenti intimistici e arcadici), Ciro Ferri (allievo e collaboratore del Cortona, di cui ne segue lo stile durante tutto il suo raffinatissimo percorso artistico), presentando quasi uno spaccato dell’arte pittorica attiva in Roma soprattutto nella seconda metà del XVII secolo.

Elevato a principe dell’Accademia di S. Luca (1668), la sua tavolozza già ricca s’impregna ancor di più della materia barocca, rispondendo alle numerose commissioni attraverso una feconda bottega, della quale però ne vuole la fine intorno al 1680, per continuare in magistrale solitudine a estendere la creatività della sua mano, cimentandosi anche in giochi di ricolmate impressioni luministiche e chiaroscurali; il Brandi mostra dunque una rilevante forza incisiva pur se, a tratti, addolcita nei registri cromatici stesi tenacemente con sostanza visiva. L’esposizione di questi suoi, efficaci, brani stilistici può essere colta nella seconda cappella destra di S. Andrea al Quirinale, dove egli esegue (1675 -1681, circa) la pala d’altare “Deposizione di Cristo” e ai lati la “Flagellazione” e la “Salita al Calvario”.

Maestro di coerente versatilità, realizzando nel 1685 il “Martirio di S. Andrea” in S. Maria in Via Lata (altare della prima cappella del transetto destro), crea un’accesa simbiosi tra carichi colori e scure tonalità sebbene prive di “tuoni stentorei”. Il tema è affrontato sfuggendo la raffigurazione, assidua, del Santo fissato sulla croce, dando invece vivo contenuto scenico alla sfolgorante impetrazione dell’Apostolo, esclamata nell’opera laudativa Legenda sanctorum, nota come Legenda aurea, composta dal beato domenicano Jacopo da Varazze, presumibilmente tra gli anni cinquanta e sessanta del XIII secolo; da tale raccolta di vite di santi scaturiscono altresì molteplici elementi iconografici, che l’Arte rappresenta con marcata costanza. Dalla tela sembrano quindi udirsi le invocanti parole di S. Andrea, che danno impeto al suo repentino, spontaneo moto verso quel terribile e mortifero strumento, la cui forma, per volontà del Martire, mentova l’iniziale greca del nome di Cristo (Xristòs, come si legge): ” Croce santificata dal corpo di Gesù e impreziosita dalle gemme del Suo sangue … a te vengo pieno di certezza e di gaudio, affinché tu accolga il discepolo di Colui che su di te è morto. Croce buona, a lungo desiderata, che le membra del Signore hanno ammantato di tanta bellezza! Continuamente ti ho amata desiderando di abbracciarti … accoglimi per portarmi dal mio Maestro !”.

Dall’oscurità emergono mosse stesure di luce, amalgama di opposti elementi che non decade in una, ormai convenzionale, sintassi di modelli risonanti quelli prossimi alle estenuanti e impersonali formule di tanti caravaggisti, poiché viene mantenuta ben salda un’autentica acutezza psicologica dei personaggi, scevri da qualsiasi aneddotica. La vena artistica del Brandi schiettamente esorta ad abbandonare perciò ogni debito, riguardo a certi principi organizzati dal caravaggismo se debordato in “pratica tecnica”. Il pronunciato rilievo fisico dei corpi rivela una personale pienezza di accenti barocchi, questi ultimi risolti circoscrivendo l’assetto della superficie in cui sono concepite le figure e i loro dinamici movimenti; azione narrativa che, sebbene sia liricamente rappresentata, non la sottrae a un’ardente drammaticità, espressione del naturale carattere creativo del pittore, capace di dar forma a un pregevole eclettismo plastico.