La
Basilica di S. Maria in Via Lata rappresenta una delle numerose effigi celate,
seppur d’intensa sostanza, nel seno della “Città Eterna”. Già nel mio post pubblicato il 20 dicembre 2014,
dedicato alla pala marmorea -appena terminato il suo restauro- di Cosimo Fancelli, che rifulge in un
ambiente dei sotterranei, ho posto l’accento su quanto, l’intero complesso
della Chiesa, sia una rigogliosa testimonianza archeologica e artistica.
Si
distende, questa capace ricchezza estetica, nello slancio verticale del
prospetto, mirabile elaborazione architettonica di Pietro da Cortona, il quale
ne assegna la valenza di plastica quinta esposta a densi mutamenti di luci, di
ombre da cui affiorano, progressivamente, le parti della struttura sporgenti
verso l’esterno. Opera architettonica quale proemio della preziosa distesa di
marmi e di tele ornanti il policromato interno, colmo di effetti radiosi che
aprono, sereni, gli alti segmenti del soffitto, dove nella sezione anteriore il
dipinto, “Incoronazione della Vergine”,
realizzato da Giacinto Brandi (1621 - 1691) nel 1650,
eleva lo sguardo spirituale dell’osservatore; pittura di spessa nobiltà
figurativa, tanto da essere lodata, fin da quella metà del XVII secolo, per il
brio d’impostazione barocca inciso su una “venatura classica”.
Artista
abile nel raffigurare “voci” pittoriche acute e fervide, il Brandi rifugge da
leziosi e patetici sentimentalismi; invero, pur aderendo in ambito cultuale
alle esigenze pietistiche, egli si esprime secondo i canoni del proprio singolare
linguaggio. Il “nostro” Giacinto è attorniato da una considerevole fama nel suo
tempo, tanto che Mattia Preti (pittore attento verso elementi classicisti e volto a concepire il Barocco nella
dilatazione dello spazio, elaborando diffusi caratteri luministici e colori
pieni) in uno scritto giunge a definirlo “più
pittore … e meglio” rispetto ad altri celebri “pintori” suoi contemporanei,
quali Carlo Maratta (tra i più importanti nell’ambiente romano e massimo
esponente, con Andrea Sacchi, di una temperie classicheggiante e accademica),
Pier Francesco Mola (il cui stile comprende alcuni alti toni
del Barocco rivelando altresì spessi accenti intimistici e arcadici), Ciro
Ferri (allievo e collaboratore del Cortona, di cui ne segue lo stile durante
tutto il suo raffinatissimo percorso artistico), presentando quasi uno spaccato
dell’arte pittorica attiva in Roma soprattutto nella seconda metà del XVII
secolo.
Elevato
a principe dell’Accademia di S. Luca (1668), la sua tavolozza già ricca
s’impregna ancor di più della materia barocca, rispondendo alle numerose
commissioni attraverso una feconda bottega, della quale però ne vuole la fine
intorno al 1680, per continuare in magistrale solitudine a estendere la
creatività della sua mano, cimentandosi anche in giochi di ricolmate
impressioni luministiche e chiaroscurali; il Brandi mostra dunque una rilevante
forza incisiva pur se, a tratti, addolcita nei registri cromatici stesi
tenacemente con sostanza visiva. L’esposizione di questi suoi, efficaci, brani
stilistici può essere colta nella seconda cappella destra di S. Andrea al
Quirinale, dove egli esegue (1675 -1681, circa) la pala d’altare “Deposizione di Cristo” e ai lati la “Flagellazione” e la “Salita al Calvario”.
Maestro
di coerente versatilità, realizzando nel 1685 il “Martirio di S. Andrea” in S. Maria in Via Lata (altare della prima
cappella del transetto destro), crea un’accesa simbiosi tra carichi colori e scure
tonalità sebbene prive di “tuoni stentorei”. Il tema è affrontato sfuggendo la
raffigurazione, assidua, del Santo fissato sulla croce, dando invece vivo
contenuto scenico alla sfolgorante impetrazione dell’Apostolo, esclamata
nell’opera laudativa Legenda sanctorum,
nota come Legenda aurea, composta dal
beato domenicano Jacopo da Varazze, presumibilmente tra gli anni cinquanta e
sessanta del XIII secolo; da tale raccolta di vite di santi scaturiscono
altresì molteplici elementi iconografici, che l’Arte rappresenta con marcata
costanza. Dalla tela sembrano quindi udirsi le invocanti parole di S. Andrea,
che danno impeto al suo repentino, spontaneo moto verso quel terribile e
mortifero strumento, la cui forma, per volontà del Martire, mentova l’iniziale
greca del nome di Cristo (Xristòs,
come si legge): ” Croce santificata dal
corpo di Gesù e impreziosita dalle gemme del Suo sangue … a te vengo pieno di certezza
e di gaudio, affinché tu accolga il discepolo di Colui che su di te è morto.
Croce buona, a lungo desiderata, che le membra del Signore hanno ammantato di
tanta bellezza! Continuamente ti ho amata desiderando di abbracciarti … accoglimi
per portarmi dal mio Maestro !”.
Dall’oscurità
emergono mosse stesure di luce, amalgama di opposti elementi che non decade in
una, ormai convenzionale, sintassi di modelli risonanti quelli prossimi alle
estenuanti e impersonali formule di tanti caravaggisti, poiché viene mantenuta
ben salda un’autentica acutezza psicologica dei personaggi, scevri da qualsiasi
aneddotica. La vena artistica del Brandi schiettamente esorta ad abbandonare perciò
ogni debito, riguardo a certi principi organizzati dal caravaggismo se debordato
in “pratica tecnica”. Il pronunciato rilievo fisico dei corpi rivela una
personale pienezza di accenti barocchi, questi ultimi risolti circoscrivendo l’assetto
della superficie in cui sono concepite le figure e i loro dinamici movimenti;
azione narrativa che, sebbene sia liricamente rappresentata, non la sottrae a
un’ardente drammaticità, espressione del naturale carattere creativo del
pittore, capace di dar forma a un pregevole eclettismo plastico.
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