Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

Io Spiego

giovedì 5 dicembre 2019

Il “Ritratto di gentiluomo”: una visione dell’interiorità umana raffigurata da Lorenzo Lotto



Lorenzo Lotto nasce a Venezia nel 1480 (morirà a Loreto nel 1556); giunge a Roma alla fine del 1508, dopo aver eseguito notevoli lavori a Treviso e a Recanati. Nella “Città Eterna” viene chiamato nell’ambito dei cantieri voluti da papa Giulio II (1503–1513). Esegue affreschi dunque in Vaticano nella “Stanza dell’udienza” (1509–1510, circa), l’ambiente originariamente ideato per le udienze private del pontefice, oggi chiamato “Stanza di Eliodoro”. Il genio di Raffaello però sopravanza la capacità plastica del pittore veneziano, come quella di altri già impiegati nell’opera decorativa di quello spazio (Cesare da Sesto, Luca Signorelli, Bartolomeo Suardi detto il Bramantino); infatti, il papa rapidamente assegnerà, all’Urbinate, la decorazione dell'intera impresa durante la sua decorazione della “Stanza della Signatura” (1508–1511, circa), non indugiando a voler disfare quanto già eseguito dai precedenti artisti, interrompendone quindi l’opera. Attualmente però sono attribuite alcune sezioni, nelle arcate e nelle grottesche a quei maestri -Bramantino, Signorelli e per l’appunto il Lotto- antecedenti alla mano raffaelliana.
Con tale post voglio percorrere il sentimento che anima la ritrattistica del “nostro Lorenzo”, tralasciando perciò gli altri aspetti della sua magnifica arte, per la quale è altresì appellato “excellente pittor”.
Arte del ritratto, la sua, che esplicita una qualità elevata, rappresentando ciò che l’anima umana conserva, nutre in sé attraverso una singolare abilità di espressione introspettiva. Egli sa cogliere quella particolare vibrazione psicologica dell’uomo, il quale dalla profondità del suo sentire, per mezzo dell’atto pittorico, trascende il limite temporale in cui egli agisce, per consegnare il principio attivo delle sue facoltà interiori agli osservatori di epoche successive alla propria. Da questo principio scaturisce l’immagine che, l’insieme dei ritratti, nella loro ecletticità raffigurano l’animo dell’autore.
La sua ispirazione certamente assume diverse fasi, attestate dalla sua cifra ma permane, sempre, una sincera purezza che costituisce l’elemento fondamentale di ogni dipinto e conseguentemente -esteriorizzando la sua consapevole profondità d’animo- di ogni uomo, divenendo, in tal modo, respiro di quei differenti momenti in cui la vita si piega o si illumina, sino a richiamare perciò, in quei tratti disegnati, la sua esistenza.
Sorta di estensione autobiografica mai evidente, eppure implicitamente pronunciata, privando le figure di qualsiasi gigantismo intellettuale, al contrario tramite la loro naturalezza rendono palpabile la loro umanità, riuscendo in questo modo a travalicare quindi la contingenza del loro tempo. Capacità di saper comprendere, dallo sguardo di chi osserva, il soffuso senso di quel “appena pronunciato”, di quel apparente “non detto”, che invece si evidenzia qualora il guardare si trasforma in vedere, pertanto acume nel superare l’apparenza affinché l’anima del personaggio si sveli; sorta d’invocazione a condividere con lui “affetto” (moto dell’animo) contrapposto all’asettica indagine intellettuale.
Superfluo pertanto si manifesta, in questo peculiare ambito, dissertare circa i contatti “di stile” con altri pittori o influenze da “scuole” o paragoni con altri illustri nomi. Deve essere risaltata invece la sua abilità -non mera tecnica- di scandagliare i numerosi recessi psicologici dell’uomo, modellando la figura ritratta con dettagli aderenti al carattere rappresentato, dunque l’esposizione figurata deve contenere precisione dei tratti somatici, degli abiti, degli arredi, del circostante contesto. In tale fecondo divenire plastico s’innesta, sovrana, la tavolozza la quale, con cangianti colori, imprime la personalità dell’effigiato -la giovinezza espressa con brillante cromia, la vecchiezza ritratta in dissolventi commistioni di scurità- combinandosi con la luce. Quest’ultima non cede a una cristallizzata descrizione bensì, lambendo un’idealizzazione, rivela un significato vivo metamorfosando una diafana aria -per come appare in superficie- in soffuso colore che dona linguaggio poetico alle figure, proiettandovi tenui ombre quali incontri di sentimenti, disserrati da una simbolica tenerezza che non confina il reale, laddove esso sia anima.
Proprio l’anima, che vive tra i profondi marosi dell’esistenza, si erge intensa con movenze di partitura musicale, diversificata da improvvise tonalità calorose e quasi sature come palesano alcuni suoi azzurri, gialli, celesti, viola, rossi e così via. Subitanea emozione di un artista, che in sé accoglie gli accadimenti generati dinanzi al suo vivere, che la sua mente apprende sviluppandone il “senso” nella sua attitudine compositiva. Nessuna disperazione vi compare ma l’espressività, così in e da lui palesata, possiede versi ancor oggi attuali.  
L’ispirato equilibrio delle pose, la squisitezza dei gesti, la densa spiritualità -nelle sue plurime “sagome”- effusa, non declamano alcuna epicità sottraendosi a un, pur sempre incombente, esacerbamento intellettuale, che giustappunto rinunciando a qualsiasi sfolgorio, ostentante una formale pregevolezza di stile, viene così allontanato dal Lotto. Questa sua singolarità si estende altresì negli ampi dipinti, dove la sacralità del tema (pale d’altare) viene esposta rispondente al suo desiderio, di rimare l’anima dei committenti inseriti nel quadro, accarezzati perciò dalla dolcezza, o confitti nel dolore, o presi dalla malinconia, o poggiati sulla quiete, permeandone in tal maniera la scena rappresentata.
Se il suo dipingere sostanzia un’esposizione di elementi multiformi, componendo una sorta di luminosa sintesi, pur non soggiorna in un accademico fare ma, all’opposto di tale algida capacità, dimora nelle percezioni da cui si estrinseca la sua arte, costante movimento verso quel nobile patrimonio, costituto dall’intimo sentimento umano, che ne genera il fondamento.
Di tale compiuta efficace espressione, è pregno il Ritratto di gentiluomo conservato presso la Galleria Borghese, cui nei depositi è, attualmente, posta la tavola della Vergine col Bambino tra i Ss. Flaviano e Onofrio, altro lavoro realizzato dal Lotto.
Riguardo specificatamente a tale Galleria, rammento i miei post: la Danae del Correggio (24 maggio 2016); il Ritratto d’uomo di Antonello da Messina (17 ottobre 2017).
Il Ritratto di gentiluomo dunque, esposto nella Sala delle Baccanti, eseguito intorno al 1535 raffigurerebbe il principe dell’Epiro, Mercurio Bura, divenuto in seguito comandante della Repubblica di Venezia, stanziatosi quindi a Treviso con la sua corte e i suoi uomini d’arme. Il gentiluomo è rappresentato all’interno di un ambiente interno, in un tratto però aperto su un paesaggio, sul cui sfondo è raccolta una città, che alluderebbe proprio a quella città veneta. La minutissima scena cavalleresca richiamerebbe l’episodio di S. Giorgio contro il drago, Santo del quale il Bura, secondo notizie storiche, è particolarmente devoto. La sua esistenza è marcata da tragedie, fatti luttuosi come la morte delle sue due mogli e di due suoi figli.    
L’identificazione del personaggio, ad ogni modo, non appare basilare rispetto alla portata “dell’affetto” vibrante nell’opera.
L’uomo di mezza età ritrae un senso di densa commozione, un’invulnerabile tristezza da cui egli guarda l’osservatore, chiamato a condividerne l’acuta infelicità, l’inarrestabile dolore. L’abito nero allude, forse, a una vedovanza, come attesterebbe la mano sinistra -tenuta sul fianco- con i due anelli, probabilmente sponsali, calzati al mignolo e all’indice; la mano destra – anch’essa impreziosita da un anello gentilizio, in questo caso al pollice- è stesa sopra un teschio minuto, posto in una natura morta -reale memento mori- composta di petali di rosa (dal composito significato simbolico di morte ma anche dell’amore sopravvivente al terribile trapasso) e di gelsomini sparsi (ancora un’allusione all’amore). Egli è fermo dinanzi a chi l’osserva, mentre una lieve luce laterale sembra abbandonarlo; sul volto s’imprime una tormentante melanconia, acuminata tristezza avvertita come piena sofferenza, che evidenzia il suo atteggiamento espressivo. Una desolazione apparentemente muta, in un tono di prostrazione psichica che priva, a quelle silenti lacrime, il calore di un consolatore raggio. Quella folta barba, del reclinato viso, è stata -e sarà- irrigata da quelle dolenti stille fuoriuscite dagli occhi ed è talmente espanso il gravoso patimento che altresì la, ritagliata, veduta comprende un cielo rannuvolato, racchiuso in sé.
Lorenzo Lotto sprigiona il colore di tale stato emotivo, la sua implacabile asprezza dilaniante l’anima, sola nel suo silenzioso pianto, che vorrebbe ora effluire da quel viso, ove le labbra sembrano pronte a scandirne la cadenza. Una resa di un uomo avvezzo all’imprese guerresche, eppure sguarnito di ogni difesa, supplichevole verso l’osservatore e del suo mistero ne restano minimi lembi, poiché molto viene rivelato con questo loquace silenzio.
Nel personaggio il pittore, considerato a lungo un autoritratto, svela sé stesso, la forte mestizia, la caducità che grava sulla vita, riducendolo a flebile figura sino a diventare un’ombra svanente.   
  

              Immagine tratta da "Google immagini"

giovedì 3 ottobre 2019

Angelica Kauffmann: il ritratto “Giovane Donna quale Baccante”, nel divenire della sua cifra pittorica



Tra il nuovo allestimento di opere settecentesche, della Galleria Nazionale di Arte Antica in Palazzo Barberini, è conservato un pregevole cammeo pittorico, il ritratto di Giovane Donna quale Baccante, eseguito da Angelica Kauffmann (Anna Maria Angelica Caterina, 1741-1807), pittrice svizzera (di origine austriaca) ma italiana riguardo al suo percorso artistico, come attesta il suo primo Autoritratto realizzato nel 1753 a Morbegno (Sondrio), ove dimora la sua famiglia prima di trasferirsi a Como. La sua iniziale formazione dunque si stende nell’alveo plastico lombardo, tramite la vigile e premurosa guida del padre, Johann Joseph, pittore di esigua capacità ma attento nel porre in risalto il rapido evolversi -in acute espressioni- del talento della figlia. La conduce perciò al denso studio di pitture, eseguite da eccelsi artisti in epoche precedenti, attraverso stampe, cui egli ne possiede una cospicua raccolta, sospingendola poi verso il ritratto.
Il vivace intelletto della giovane Angelica le consente, oltre a padroneggiare alcune lingue, il profondo apprendimento di vasti temi filosofici e letterari e il fertile studio della musica. Un cosmo artistico nel quale vivere e palesare quel moto, che la definirà in seguito eminente pittrice e donna libera, capace di affrontare diversi sentieri del vivere, con la fervida sapienza insita in un infrenabile intimo sentire.
Nel 1754 è con la sua famiglia a Milano, mentre nel 1757, dopo la morte della madre, si trasferisce con il padre a Schwarzenberg (Austria), dove la sua versatilità artistica –è altresì dotata cantante e ottima musicista- non può sostare a lungo. Infatti, il premuroso genitore non può che concretarle un lungo viaggio formativo in Italia, durante il quale la Kauffmann abbraccia definitivamente la pittura, pur mai abbandonando il versante musicale, almeno vivo in lei come diletto. Tale aspetto sarà manifestato nel suo Autoritratto tra Musica e Pittura (1791; Museo Puskin, Mosca). Fra il 1760 e il 1761 è nuovamente a Milano per poi dirigersi a Parma, a Modena, a Bologna, dove affina il suo verso pittorico dinanzi alle opere dei Carracci, del Correggio, del Domenichino, del Reni e di altri sommi pittori italiani. Proprio nella città felsinea la sua abilità interpretativa viene riconosciuta con l’ammissione, quale “accademico d’onore”, alla già rilevante Accademia Clementina (inaugurata nel 1710), composta da pittori, scultori, architetti, incisori, molti dei quali divenuti celebri. Il prestigio dell’acquisito titolo accademico lo palesano, tra gli altri, i risuonati nomi di: Anton Raphael Mengs (1752), Pompeo Girolamo Batoni (1763), Giandomenico Tiepolo (Giovanni Domenico: 1780). Successivamente a Firenze copia alcuni magnifici dipinti, compresi nelle ricchissime collezioni già medicee, conseguendo il diploma conferitole dalla notevole Accademia del Disegno, fondata nel 1563, da cui raggi luminosissimi di una superba grandezza declamano le personalità (in ordine sparso) di Michelangelo, del Vasari, di Tiziano, del Tintoretto, del Giambologna, di Cellini, del Bronzino, di Artemisia Gentileschi e così via. Ancora però non cessa di apprendere quei linguaggi, plasmandoli in sé e trasfondendoli, con originalità, nei suoi lavori. Si reca a Napoli -1764, circa; parentesi del suo primo soggiorno romano- nella Reggia di Capodimonte, quasi completata, in cui inizia a essere posta la Collezione Farnese (all’epoca visitabile soltanto da un pubblico molto selezionato), luogo che avvince la giovane artista dinanzi alle mirabili antichità, ai cartoni di Michelangelo e di Raffaello, alle pitture, ad esempio, di Andrea del Sarto, di Giulio Romano, di Giovanni Bellini, di Sandro Botticelli, del Parmigianino.
A Roma tuttavia la sua assimilazione pittorica si amplia, inaugurandone taluni ragguardevoli tratti della poetica figurativa, attingendo anche al linguaggio di Mengs e di Batoni, mentre frequenta Giovanni Battista Piranesi. Attratta “dall’antico”, coinvolgente una colta platea, instaura un decisivo rapporto con Johann Joachim Winckelmann, il teorico del neoclassicismo, dal quale deriva un imponente effetto sull’arte e sul gusto di quella stagione. Egli enuncia un criterio che possiede natura di metodo, imperniando la “teoria dell’arte” su dei fondamenti, tali da costituire un sistema che, prescindendo da quel peculiare sentire “d’epoca”, edifica, in gran parte, la base della moderna storia dell’arte. Winckelmann, che della “nostra” Angelica ne esclama la bellezza e la virtuosità canora, diviene il tramite per introdurla alle collezioni del cardinale Alessandro Albani, nipote di papa Clemente XI, formidabile mecenate, bibliofilo, collezionista di fulgenti memorie antiche e cultore del “bello”.
La villa di tale porporato, giustappunto, esalta queste sue caratteristiche e, riguardo alla pittura, proprio Anton Raphael Mengs  vi imprime l’insorgente temperie neoclassica, affrescando il salone principale con il tema del Parnaso (1761), lucente trasposizione dei concetti dello stesso Winckelmann, mediata però con quella corrente classicistica così vivida nel precedente XVII secolo, in cui la rappresentazione del “naturale” snuda sostanza di nobile e quieta beltà sublime, di articolati –armonici- cromatici contrasti sfuggenti, di cangiante grazia in un’impaginazione spaziale ammantata di colorate incidenze. Questi elementi sono riletti dal suo estro che ne disegna le opere, componendo l’altro cardine del neoclassicismo, volto, tra molteplici influenze, verso la fonte espressiva di Raffaello (autore del Parnaso, dipinto nel 1511 nella Stanza della Signatura in Vaticano). Di questo pittore tedesco si deve almeno citare un altro suo vertice, la Gloria di S. Eusebio (1757), troneggiante la volta della navata centrale della chiesa titolata, in Roma, a questo Santo.
Tale nitore non può che incidersi nell’animo di vibrante sensibilità della Kauffmann, la quale da una visuale, così intessuta di echi, si spinge nella forma definente la sua creatività, divenendo negli spazi dell’arte protagonista della nascente temperie artistica e culturale nell’ambiente romano e successivamente in altri lidi. Invero, la sua penetrante eleganza si appalesa nella ritrattistica, come attesta il brillante Ritratto di Winckelmann (1764; Kunsthaus, Zurigo), ove si evidenzia un originale richiamo al Batoni.
Il Batoni, per l’appunto, che traduce il classicismo non da concetti teorici, bensì interpretando quanto, magistralmente, raffigurato dai Carracci sino a concepire una profonda rappresentazione “ermeneutica” della natura, trasmutata in” sentimento classico”, quindi visione incorrotta eppur intensamente pulsante giacché posta, da tale sensibilità, in relazione logica (valore di verità) con la pittura cinquecentesca. Egli riprende, con carattere innovativo, diversi modelli culturali, in armoniosa sintesi tra il mondo naturale –appartenente all’esperienza- e la tradizione classica. Insigne ritrattista, il Batoni dà forma a un’inedita esposizione del personaggio dipinto, effigiandolo in un ambiente di plasmata classicità, cogliendo un riguardevole successo presso la ricca committenza inglese, molto presente in Roma nello spirito del Grand Tour, il viaggio verso le città europee culturalmente più attraenti.
Come illustrato nel mio post “Il Grand Tour a Roma di Felix Mendelssohn-Bartholdy” (20 giugno 2016; attualmente settimo scritto tra i più letti) esso è itinerario stimato come irrinunciabile esperienza, del percorso di maturazione intellettuale dei giovani, sia appartenenti a famiglie estremamente colte, sia dediti all’esercizio dell’arte. Già praticato, nel corso del XVII secolo, dai rampolli di nobile schiatta britannica, si dilata nel XVIII secolo per il favore decretato da altri paesi dell’Europa, godendo di enorme credito e seguito sin quasi alla fine del successivo XIX secolo, ampliandosi il pubblico dei “frequentatori” non limitato quindi ai soli giovani. In breve tempo, tra le mete da raggiungere, s’impone ovviamente l’Italia in cui giganteggia Roma, che dispiega ai visitatori i suoi emozionanti e monumentali resti archeologici, le sue pregiatissime collezioni di pittura, di scultura antica e di epoche successive. Ambiente pertanto fervido, mosaico di artisti e di committenti italiani e stranieri, committenza che cospicuamente espande perciò l’attività delle arti.
La Kauffmann elabora quindi, con personalità, ciò che si annuncia in chiave figurativa e frequentando i viaggiatori inglesi –alcuni dei quali saranno i suoi maggiori “richiedenti” -, numerosi nel Grand Tour, ne realizza i ritratti, su cui campeggia quello di David Garrick, noto attore e direttore di teatro, rinnovatore della scena britannica del XVIII secolo. Eccellente dipinto (1764; Burghley House, Stamford), che ritrae il personaggio nell’atto di voltarsi, sulla sedia presentata con la spalliera verso l’osservatore. Il quadro viene esposto a Londra nella mostra voluta, nel medesimo 1764, dalla Free Society of Artistis, destandone l’ammirazione sia degli artisti e sia dei visitatori, aprendo all’autrice la celebrità, in Inghilterra, prima ancora del suo arrivo nella città londinese.
Benché stia sorgendo evidente la sua luce pittorica -anche per la vicinanza del padre- lei non  cede al compiacimento  dell’incipiente fragoroso successo che la segue: il suo moto creativo esige di più. Ancora studia gli “antichi” e tuttora indaga i lavori dei suoi contemporanei, intessendo maggiormente fertili rapporti artistici, sociali, personali. Abilissima ormai nella copia e adesso nota per la sua vena ritrattistica, la Kauffmann si volge verso la pittura incentrata su soggetti storici, determinazione insolita esplicitata da una pittrice, che ne rivela il fecondo e libero temperamento. Frequentatrice di elevate sorgenti letterarie, raffinata conoscitrice di antichi versi sculturali, arricchisce il suo estro con disegni di nudo (traendo modelli da quelli riservatole dal Batoni); oltre a ciò, perfeziona l’abilità prospettica, forse grazie al Piranesi. Il suo estroso spirito, ora interamente pronto ad affrontare tematiche differenti, snoda il compimento anche di opere di tipo mitologico, in cui all’inizio si notano alcuni esitanti tratti, che celermente svaniranno. La sua abilità afferma una personale fusione di elementi derivati dal classicismo seicentesco, sostanziati da una struttura compositiva elegante e rigorosa, congiunta a un elevato uso del colore, impregnato di complessa articolazione, che mai abbandonerà. La sua valenza artistica è talmente riconosciuta da essere accolta, il 5 maggio 1765, fra gli accademici di merito dell’Accademia di S. Luca.
Dopo la prima esperienza romana, giunge a Bologna e poi a Venezia, dove conosce l’ambasciatore inglese John Murray cui la consorte, lady Wentworth, ammirandone i lavori, la invita a seguirla a Londra, che raggiungerà nel 1766 –successivamente a un breve soggiorno a Parigi, la sua prima esperienza di vita e di arte, priva della figura paterna- rimanendovi sino al 1781.
La sua pittura dissigilla, secondo quanto finora descritto, un progressivo sviluppo, stringendo un rapporto artistico, poi amoroso, con Joshua Reynolds, tra i più acclamati pittori inglesi del XVIII secolo. Magistrale ritrattista, capace di trasformare il ritratto -considerato sino allora mera aderenza all’immagine del raffigurato- in un’elaborata visione ardita, nella quale le figure sono rappresentate quali soggetti mitologici, a volte fantastici, ideati eroicamente, drammaticamente, combinando linguaggi diversi presi, tramite una rielaborazione di caratteri, dalla scuola veneziana e bolognese, da Rubens, dall’ultimo Rembrandt. Artista di sagace e innovativa ingegnosità, che gli consentono di far proprie sostanziose “qualità sociali”, grazie all’ampia platea cui questa consonanza plastica molto gratifica, tale da renderlo caro all’aristocrazia, ai colti nuovi ricchi, agli intellettuali.
Angelica Kauffmann si rivela, anche in questa sfera, compartecipe del relativo complesso clima. Donna libera nell’animo, sulla quale si posa il romanzare sulla sua esistenza, su ciò che deriva dal suo operato artistico, sulla relativa ottima considerazione, tanto da abbigliarla quale personaggio in vista negli ambienti riservati, solitamente, agli uomini, o dove le donne hanno aspetto di orpellatura. Miseri pettegolezzi però si aggiungono a miserrime, pungenti voci, circa le sue relazioni amorose. Il padre, probabilmente anche per questi motivi, sopraggiunge a Londra durante il novembre del 1767.
La cifra stilistica della pittrice è irrefrenabile; essa è brillante faconda sponda, dove le onde dei contatti del suo particolare spirito sono colti dall’incessante apprendimento, che non decade in un’appropriazione supina, bensì stende la sua tavolozza in un’originale poetica, iridescente nel continuo divenire. La sua attenzione per i temi storici uniti a versanti allegorici e letterari, individua molti elementi comuni con l’idea di pittura, diffusa nel circuito inglese dal Reynolds, a sua volta sostenitore del balenio artistico della Kauffmann, cui i ritratti presentano un evidente espressione figurale, spesso declinata con riflessi “dell’antico”. Vero e proprio culmine di tale sua nobile e quieta dimensione è appalesato dal Ritratto di Joshua Reynolds (1767; Saltram House, Plymouth), che contiene gli enunciati segni distintivi, così impressi nella rilassata posa del pittore e nel suo sguardo vivace, attorniati da un alone di pregnante intimità, definita pur nel disegno del tavolo, su cui insistono libri di autori inglesi, accanto ai quali si staglia una protome di Michelangelo. 
Nel 1768 è tra i membri fondatori della Royal Academy, unica donna insieme a Mary Moser, altra pittrice britannica, nota, in primo luogo, per le raffigurazioni floreali.
L’appartenenza al sesso femminile determina –ahimè- l’esclusione da gran parte dei principali eventi e iniziative della stessa Academy; inoltre, la “nostra Angelica” deve sostenere l’urto dei mediocri preconcetti -esposti da qualche suo “collega” -, secondo i quali l’universo femminile sarebbe incapace di assurgere alle più alte vette artistiche. La sua fama dunque solleva aspri contrasti, poiché il dominio degli uomini nel mondo dell’arte (e non solo in quello) l’avverte quale sorta di “innaturale” ingerenza; a ciò si aggiungono alcune impreviste difficoltà finanziarie, nonché un rovinoso matrimonio. Nulla può fermare la sua ispirata lucentezza creativa; il suo talento dischiude il portale della casa reale inglese, quelli delle dimore nobiliari e delle famiglie facoltose, derivandone numerose commissioni, riuscendo a imporsi con il favore d’illuminati mecenati. Continua anche la serie di Autoritratti; sicuramente riuscito appare quello compiuto in veste di Suonatrice di chitarra (1769, circa; Saltram House, Plymouth), ove padroneggiando delicatamente una chitarra barocca, mostra il differente versante del vasto suo respiro artistico, comprendente quello musicale, alludendo forse che tal effigie è, tradizionalmente, più consonante al suo essere donna ma il quadro, in quanto tale, ne esplicita la reale e felice consistenza pittorica, che sfugge a predefinite “parti” accettate in forza a costumi imposti.
Pur se acclamata da una committenza sempre più ampia, avverte intorno a sé la percepibile peculiare attenzione –trasmutabile frequentemente in gravoso negativo giudizio “morale” - che sembra seguirla in ogni suo passo, dopo ogni pronunciato atto.
La sua celebrità oltrepassa la normale misura –per come sembra indifferente a quella maligna atmosfera-, modellando un anello in cui si attorcigliano la febbrile attività e le inconsumabili richieste di quadri, che agli occhi dell’ambasciatore danese, in Londra, appare sconsiderato comportamento, esemplificato con la sua esclamazione: “Anna la pazza!”. Successo confermato dalla ragguardevole diffusione di stampe, tratte dai suoi dipinti, dagli stretti rapporti intrattenuti dalla pittrice con i principali incisori e stampatori inglesi; popolarità ribadita dall’utilizzo delle sue composizioni nelle arti applicate, quali la decorazione di mobili e di porcellane.
Sua la cultura, il sapere dosato nella grazia, il rimando all’erudizione palesato, ad esempio, nel dipinto di Teresa Parker (1773; collezione privata), dono di un’amicizia, dove la reciprocità di questo sentimento è raffigurato secondo l’Iconologia di Cesare Ripa (testo del 1593 che influenza enormemente le arti figurative almeno sino all’epoca della Kauffmann). Sono le tre Grazie –tratteggiate dalla pittrice sul piedistallo di una protome femminile da modello “all’antica” - che lo scritto illustra come “tre fanciullette, coperte di sottilissimo velo, sotto il quale appaiono nude. Così le figurarono gli antichi Greci, perché le Grazie tanto sono più belle, e si stimano, quanto più sono spogliate d’interessi, i quali sminuiscono in gran parte in esse la decenza e la purità; però gli antichi figuravano in esse l’amicizia vera, come si vede al suo luogo”.       
Il pulsante spirito interiore, permeante il suo percorso, appare estraneo a una staticità voluta dalla considerevole “produzione” di ritratti, facilmente venduti e dunque fonte di sicuro guadagno: deve ulteriormente cimentarsi nella pittura storica, mitologica, con dipinti di grandi dimensioni, affermando in tal modo la sua ispirazione capace e valente; sfida voluta, cercata con queste opere vendute con difficoltà, rispetto alla ritrattistica, ma esse ne testimoniano la luminosa caparbia e la risoluta indole.
Nel 1781, anno particolare per la Nostra, sposa (in seconde nozze) il pittore veneziano Antonio Zucchi, membro della Royal Academy; sarà devoto coniuge sino al decesso, che avverrà nel 1795. Il richiamo dell’Italia penetra in lei, ora che possiede una concreta notorietà e il suo stile dissoda straordinaria versatilità.
Lasciati i lidi inglesi, dopo una breve permanenza nelle Fiandre, la nuova coppia sosta a Venezia, Ferrara, Loreto, mentre il genitore muore nel 1782, anno dell’arrivo a Roma. Acquistata una dimora, durante la relativa ristrutturazione, i due coniugi si trasferiscono a Napoli. La rinomanza della Kauffmann non può che essere accolta, con entusiasmo, dalla dinamicità culturale della città partenopea; la stessa regina, Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, moglie di Ferdinando IV Borbone, re di Napoli (ma Ferdinando III come re di Sicilia), persevera nel volerla insignire del preminente titolo di pittrice di corte, dalla Nostra invece rifiutato con decisione (tornerà brevemente in quella città soltanto nel 1785); invero, il Ritratto della famiglia reale (1783; Museo nazionale di Capodimonte) sarà terminato a Roma.
Nella “Città Eterna” la sua prima giovinezza vi ha conosciuto il genius, il naturale spirito animatore di questo luogo, che dona il respiro all’arte nella storia sino a personificare una dimensione universale. Non solo scoperta del fascinoso paesaggio, della sovranità dell’antico e del classico ma pur svelamento del più intimo moto, affidando l’animo a quegli spazi, ove si riconosce l’insopprimibile acqua sorgiva dell’elevato sentire, luogo nel quale avviene ciò che Lucio Anneo Seneca, affermava relativamente a un sentimento non muto:” Non occorre che tu sia altrove, ma che tu sia un altro” (da Lettere a Lucilio).
In Roma la pittrice trova la definitiva patria d’adozione; l’atelier e, soprattutto, il salotto della sua abitazione, diventano un punto d’incontro primario della vita artistica e intellettuale cittadina; in tale favorevole contesto si avvia l’intenso rapporto con Johann Wolfgang von Goethe, del quale realizza il Ritratto (1787; Goethe National Museum, Weimar); per il poeta, scrittore e pensatore la Nostra s’innalzerà come amica ammantata da ineguagliabile chiarissima e raggiante luce, con la quale condividere le più intense emozioni.
La creatività pittorica –tutti i lavori sono eseguiti a Roma- della Kauffmann è tangibile straordinaria distribuzione della scena disegnata, palpabile equilibrio tra forma e tema, che continua ad affascinare la platea albionica; contemporaneamente prodighe commissioni le provengono, non solo dalle corti italiane ma pure da eminenti corti europee, pronuncianti i nomi di Giuseppe II, imperatore austriaco, Caterina la Grande di Russia. Tra il 1780 e il 1796 compone molte opere tra le più pregevoli, sia ritratti (a autoritratti), sia dipinti –ormai anch’essi stabili nel suo repertorio- di scene mitologiche, storiche o religiose. Dal periodo corrispondente alla Seconda Repubblica Romana (9 febbraio-4 luglio 1799) a quello successivo prosegue l’attività del suo studio, pur se in maniera meno accesa, anche per la cagionevolezza, del suo stato di salute, sempre più frequente, motivo di brevi viaggi di riposo. I suoi ultimi lavori, Cupido e Venere (1800; Staatliche Museen, Berlino) e l’Incoronazione della Vergine (1801-1802; Chiesa parrocchiale di Schwarzenberg), conservano, nella diversità tematica, eloquente espressione di appassionato quieto incanto ideologico e tuttora magnifica sicurezza dei tratti.
Quanto sinora scritto introduce al ritratto, cui il titolo di questo post ne indica il rapporto con l’insorgenza e il progressivo sprigionamento della cifra stilistica della Kauffmann; opera tarda aperta alla visione della realtà percorsa dalla sua arte, quindi dalla sua esistenza, insieme di elementi vari e dissomiglianti, visuale perciò rilucente e ombrata, sfaccettata e molteplice.
Il dipinto Giovane Donna quale Baccante appartiene dunque alla stagione ultima della pittrice; esso è firmato e datato 1801. Olio su tela, vi è modellata dunque una giovane donna, in veste di baccante, cui l’etimo latino la rivela figura muliebre, celebrante con grida e danze la festa di Bacco, derivata dalla menade, che l’etimo greco percepisce come donna forsennata, furente, dominata da un’incontrollata passione. Tutto si riconduce alle invasate devote al dio Dioniso-Bacco, allusione all’affrancamento della vita dalle strette funi della quotidianità, della convenzionalità, che soltanto il culto estatico del dio provoca, venerandolo totalmente, rapite con il canto e con la danza, incoronate con ghirlande. Figure ammantate di spontanea bellezza, sono immortalate in una delle più frequentate opere di Euripide, Le Baccanti (405 a.C., circa). Personaggi mitologici viventi nell’arte letteraria e figurativa, traslati e conseguentemente figure metaforiche del singolare stato di abbandono, insito nel culto dionisiaco. Storicamente tuttavia alcuni gruppi femminili praticavano in inverno avanzato -in modo particolare nella Grecia centrale-  un rituale, sorta di “danza della montagna” celebrante il dio.
Dioniso, divinità della vite, della vegetazione, del possesso religioso, che gli esseri umani possono “sentire” attraverso l’ebrezza o per mezzo dell’estasi spirituale, eccitazione esposta per l’appunto in estasi, dal greco ekstasis, vale a dire “essere o stare fuori da sé stessi, essere in un altrove”, ispirazione divina, nella quale la personalità soggettiva umana svanisce, pur se per limitato tempo, mutandosi in essenza della divinità.
E' possibile, per quanto detto, elaborare una colleganza, magari ardita, con uno stato –secondo alcuni elementi- similare: la follia quale “vagare fuori” dunque stravaganza. Se il grigiore dell’ignavo si manifesta nel suo essere arido, frivolo e privo di reale passione, il suo avversario, l’eccesso (sostantivo di eccedere, dal latino “andare fuori”) e quindi questa particolare follia -secondo questa visione- diviene il mezzo unico per scardinare il confine –recinzione dove vi si alberga costantemente- in cui, l’uomo, è collocato dal caso, dall’evento, da ciò che fonda l’ordinario orizzonte del vivere, nel quale esso cade. Questa distinta follia non possiede attinenza con la dissennatezza, al contrario muove lo sforzo estremo che, l’uomo medesimo, compie per non capitolare e seguitare a vivere realmente, contrapponendosi ai colpi della “sorte” –intesa quale vicenda dettata da una “potenza” astratta- che in tal guisa è fortemente avversata.
La giovane dipinta dalla Kauffmann sottintende questa complessa antitesi, in una posa di delicata lieve malinconia, quasi una pausa introspettiva successiva all’estasi, uno sguardo che sospeso indaga un luogo altro, inducendo l’osservatore a “vedere”, nel significato dell’antica radice indoeuropea di vedere con gli occhi della mente –quindi consapevolmente- divenendo “io so”, quindi reale conoscenza, sapienza. Stato di assoluta difformità rispetto al “guardare”, scaturito dal latino medievale a sua volta derivato dal franco “stare in guardia”, perciò chiudersi in difesa di sé stessi, per
una possibile minaccia esterna. Il candido volto dalle rosee gote e l’inghirlandata corona risuonano l’Autoritratto (1786) dello Staatliche Museen di Berlino, dove l’idealità dell’incorruttibile leggiadria viene esposta trafiggendo la piena del tempo. L’aggraziato capo, dalle morbide lunghe chiome, della Baccante è cinto da una corona di foglie di vite, richiamo ai grappoli d’uva dai quali il vino acquista la proprietà di bevanda spirituale dionisiaca-brachica. Le mani tengono delicatamente un tamburello, rimando alla danza osannate la divinità. Alle sue spalle è piantata una quercia, simbolo di durabilità, d’immortalità in virtù della robustezza del legno; nell’antica Grecia con il vocabolo drys, quercia, s’identificavano le Driadi, ninfe proprio delle querce, sotto cui vivevano; divinità minori di aleggiante beltà, caratteristica armoniosamente esposta nell’incarnato e nell’espressione tutta del personaggio femminile. Per il legnoso tronco sale una spirale di edera, abbraccio dal significato d’indissolubilità di questa pianta sempreverde, perciò ribadita interpretazione d’immortalità, eloquente efficacia di vitale forza svelata, felice legame dell’affetto –intenso moto dell’animo- infinito, benefico insieme di sentimenti liberati, emozioni e passioni intramontabili.
L’ambientazione enuncia, seppur delicatamente, la possanza del sentimento, quasi un alternarsi con la quieta immagine, che invece con soavità pronuncia, con vivezza dal tono sapienziale, un’ode sovrana. La nuda spalla, le vellutate membra riflettono una carezzevole luce che gioca con il tenue colore rosa del manto, il quale delicatamente corre lungo il giovane corpo nitido, biancore plasmato con alcuni rosati tratti della levigata pelle. Purezza d’animo eppure allusiva all’ardore che impregna l’anima aperta, quest'ultima sottolineata dalla bianchezza incisa sulla veste tenue; infine, un bracciale –monile e null’altro- adorna il braccio confermando la raffinatezza della figura. Il quadro pertanto palesa tinte chiare, stese con freschezza e genuinità di tocco, in una compostezza di segno classico.
L’opera può essere interpretata come contemplazione dell’autrice, una rappresentazione di un ideale che accarezza il mondo antico, Roma, godendo sino alle profondità dell’animo la bellezza, vivida non stantia, non appartenente a una sfuggita utopia bensì aderente a una veduta possibile, eterna.  




giovedì 2 maggio 2019

Raffaello nell’estro letterario


Nominando Raffaello Santi, vulgato come Raffaello Sanzio (Urbino 1483 - Roma 1520), la mente si volge, priva d’indugio, alla sua opera pittorica (che sovravanza, nella memoria, la sua abilità architettonica), summa eletta dell’arte figurativa rinascimentale, in cui si amalgamano con fulgente equilibrio e chiarezza, attraverso una piena personalità indipendente, le più vive esperienze plastiche della sua epoca. Hanno così sostanza di rilettura autonoma espressioni diverse, come i delicati tratti spaziali della scuola toscana, il profondo senso spirituale umbro, lo “sfumato prospettico” di Leonardo, l’acutissima espressività michelangiolesca, il “colorismo” della pittura veneta. La sua prodigiosa capacità di assimilare l’arte figurativa, nella sua totalità, i variegati modi, può travolgere pittori meno dotati, ma non Raffaello, che invece, già dal suo primo periodo, li disciplina, poi superandoli effondendo, ad esempio, una straordinaria agevole cadenza. Egli raffigura l’ideale di bellezza generato da un’assorta ed empirea meditazione, da cui le opere adempiono i più elevati fini dell’Umanesimo; l’inconfondibile suo virtuoso timbro espressivo, assimila dunque il gusto della pittura coeva. La sua materia di consistente plasticità non può che rinsaldarsi con la monumentalità, che iscrive poderosi aerei raggi di luce, fughe prospettiche, verticalità delle figure, non soggiacendo -lui giovane luminoso talento- supinamente alla fascinazione di acclamati ambienti artistici. Sue le quieti ombre, che armoniosamente stende sino a sfiorare con dolcezza il modellato, condotto con acume raffigurativo nella sinfonia di effetti volumetrici, nell’accuratissima distribuzione chiaroscurale. Ombre enuncianti immagini di superba proporzione, impostate su una rigorosa levità di ritmi, trasmutati in un temperato spazio, rigettante una sterile aulica trasposizione, sino a esporre una riserbata spiritualità che ne pronuncia l’intima passione. La regalità, dei personaggi ritratti, viene esaltata dalla perfezione dei lineamenti incisi nei volti, negli incarnati pregni d’interna luce. A Firenze, il giovane artista, manifesta già uno straordinario rapporto tra figure e spazi architettonici, affondando in chiave monumentale una nuova impostazione compositiva, proemio pieno di ciò che lo magnificherà a Roma, dove eseguirà le maestose opere pittoriche.
Nella “Città Eterna” si trasferisce tra l’estate e l’autunno del 1508, per volontà (su probabile consiglio del Bramante) di Giulio II (1503-1513) –Giuliano della Rovere-, per decorare, inizialmente insieme con altri pittori, tra i quali il Sodoma, a fresco le nuove Stanze vaticane, cominciando da quella della Signatura” (1508-1511). Tale ambiente è così appellato dal nome del più importante tribunale pontificio –che vi si riunirà dalla metà Cinquecento, circa-, quello della “Signatura Gratiae et Iustitiae”, governato dal pontefice, ma in precedenza progettata quale studio privato e biblioteca proprio di papa della Rovere; questo particolare vano sarà utilizzato dal successore, Leone X (Giovanni de’ Medici, 1513-1521), altresì quale “stanza della musica”.
Il fulgore dell’arte figurativa, dell’Urbinate, connota presto i suoi primi lavori vaticani, tanto da convincere lo stesso Giulio II ad affidargli la realizzazione dell’intera impresa degli affreschi. S’irradiano così in quei luoghi un infinito respiro che effigia un soprannaturale sentire, tra argentee luminosità, frementi magnifiche passioni, fulgenti insolite reinterpretazioni di una visione imbevuta di “pensiero classico” e di “antico” reso con nuovo magistrale verso; elementi serrati tutti con equilibrata e monumentale unità nel disegno dello spazio diversificato e dunque libero. La formidabile naturalezza delle figure è svolta con fluente e mossa grandiosità sculturale, imponente animata perfezione che concreta quell’idealità, concepiti dal Rinascimento, sostanziata “nell’idea” di società ideale. Nulla però soggiace a edulcorati schemi, a imbolsiti stilemi, anzi una virulenta drammaticità appare nella stanza di Eliodoro (la seconda decorata da Raffaello tra il 1512 e il 1514; ambiente voluto per le udienze private del pontefice). V’impera un’aria rotta da impenetrabili bagliori e sfingei riverberi, grigie architetture su cui avvampano raggi aurati, vesti agitate da un ardente sentimento policromatico, sontuosi splendori dispiegati di sotto a un cielo sicuramente azzurro ma annunciante la notte, repentini effetti luminosi e preziosi paramenti, freschezze primaverili e rossi squillanti; un’aura di maestosità rivelata da incandescenti sfumati contorni, da strepitosi effetti di controluce fuoriuscenti da cupi schermi. L’opera raffaellesca assurge, in tal modo, altresì a sfida con le, coeve, differenti espressioni della pittura, poiché alla “eroicità” delle figure vi fissa una mirabile agilità compositiva, come se una fertile inquietudine creativa lo inciti, guidandolo, a cimentarsi in nuovi linguaggi figurativi; una sfida volta a privare di qualsiasi “staticità intellettuale” il, magnificente, portato della sua arte. Da questa straordinaria “ansia” sorge ciò che Roberto Longhi, il celebre storico dell’arte, definisce circa la stanza dell’Incendio di Borgo (utilizzata da Leone X come sala da pranzo), la terza dipinta da Raffaello (1514, circa e il 1517), quale atto pittorico declamatorio che ritorna come poesia. Difatti, pur se in grande misura è lavoro eseguito da allievi dell’Urbinate -su suoi disegni-, egli realizza con enfatico slancio un peculiare gergo, pregno di struggente tragicità. Nuova e appassionata meditazione rivelata con linguaggio d'inesorabile spontanea purezza, capace di rivelare con evidenza immediata fisionomie, espressioni, caratteri, atteggiamenti, tratti architettonici, elementi naturali nel battito improvviso di raggi lucenti.
Artista circondato da eclatante ammirazione, tributata assai presto, è oberato da impegni e incarichi, tali da non poter attendere personalmente all’esecuzione di tutte le copiose opere commissionategli, come dimostra, per l’appunto, l’ornamentazione dell’ambiente de “L’Incendio di Borgo”.
Ora però tralasciamo il poetare pittorico del Sanzio, per vergere al suono dei suoi, sparuti, versi lirici assai petrarcheschi, sebbene mantengano talune sue costumanze linguistiche.
Una fonte d’ispirata immagine, per il Sanzio, di artista conscio del proprio sapere, abile a esplicitare rilevanti doti letterarie, è da accordare al padre, Giovanni Santi (1440, circa – 1494). Pittore, cui la capacità figurativa è oggi, in parte, rivalutata, riconoscendone un’abilità che intesse articolazioni evocatrici, certamente non statiche, create con armoniosa intensità di luce e di colori, elementi fondamentali nella realizzazione dei volumi disegnati. Egli è uomo colto, che agisce con valenza nella sfera letteraria e teatrale; artista perciò “totale”, dalla vasta conoscenza delle diverse espressioni dell’arte, fortemente “provata” nel suo animo. Brillante protagonista nella corte di Federico da Montefeltro, signore di Urbino, che accoglie il principe Federico d’Aragona (futuro Federico I, re di Napoli per un breve periodo) con notevoli festeggiamenti, culminati con la rappresentazione teatrale dell’opera in versi, Amore al tribunale della Pudicizia, composta (1474) e diretta proprio dal Santi. Lo spettacolo, metafora della castità, includente recitativi, cantate e balli, desta una ragguardevole eco. Acclamato poeta di corte, realizza -tra il 1482 e il 1485, circa- La vita e le gesta di Federico da Montefeltro duca di Urbino, poema in terza rima (la terzina possiede un metro aperto, incentrato su una struttura generante una continua spinta “in avanti” delle rime, con tensione costante), scritto impegnativo, cui una sezione svolge un disteso scenario delle temperie pittoriche inerenti alla sua epoca. 
Raffaello in Roma, durante l’ornamentazione figurativa della Stanza della “Signatura”, verga su fogli (1509, probabilmente) comprendenti i suoi disegni preparatori per l’esecuzione della cosiddetta Disputa del Sacramento, i cinque sonetti –con varianti- a oggi conosciuti e con sicurezza attribuitigli, cui del quarto e del quinto rimangono solo dei frammenti. La relativa paternità raffaellesca è attestata anche dalla grafia, così conforme a quella mostrata dalla lettera scritta, dall’Urbinate, allo zio materno Simone Ciarla (1508).
Poesia dunque, composizione di versi che sembrano, in questo caso, in rapporto con la pittorica somma arte del Sanzio, magnificata altresì dal Parnaso (altro affresco della “Signatura”, eseguito successivamente a quello della “Disputa”). Il Parnaso, massiccio montuoso dalle due cime sacro ad Apollo, il dio -tra le altre sue attribuzioni- della musica, della sapienza filosofica e del culmine creativo, che trova piena realizzazione nell’arte, nel canto poetico, suscitante nell’uomo la sublime emozione del bello, di cui la capacità creativa dell’artista, quale artefice, ne sancisce (etimo dal latino “rendere sacro, inviolabile”) la forma. Il Parnaso, dimora  delle Muse (una delle “residenze”ad esse consacrate), creature armoniose, strettamente congiunte ad Apollo, con le loro conoscenze degli elementi tecnici e delle imprescindibili abilità, che concretano l’arte nelle sue differenti espressioni, delle quali il nume ne è l’ispiratore.
Siamo innanzi a dei “tentativi poetici” di Raffaello, durante la creazione dei suoi, mirabili, affreschi, ove si erge un’ispirazione che, per come “il tutto” appare, dalla tavolozza (soprattutto il Parnaso) arriva, in tono minore, alle metriche. Creatività e passione amorosa in un eccelso pittore, che nel suo ingegno accoglie un’abilità letteraria, come sembra confermare l’immancabile Giorgio Vasari, il quale, terminando le sue “Vite”, scrive riguardo all’elaborazione delle stesse: ”I quali aiuti sono veramente sì fatti, che io ho potuto veramente scoprire il vero e dare in luce quest’opera … Nel che fare mi sono stati … di non piccolo aiuto gli scritti di Lorenzo Ghiberti, di Domenico Ghirllandai e di Raffaello da Urbino”. Altra base di appoggio, dell’acclarata abilità letteraria raffaellesca, è costituita dalle venticinque annotazioni di mano dell’Urbinate, apposte nel testo De Architectura di Vitruvio –il trattatista architetto dell’età augustea- tradotto, probabilmente tra il 1514 e il 1515, dal filologo Fabio Marco Calvo (e non solo, come attualmente si reputa), ai fini della ricostruzione testuale archeologica dell’antica Roma, progetto fondamentale per gli studi di Raffaello, utilizzati inoltre per le corrette ambientazioni architettoniche, così chiaramente definite nei suoi dipinti. Testo quindi colmo di aggiunte, chiose, postille alcune delle quali, come detto, scritte dal Sanzio. La sua rilevanza intellettuale è ancora suffragata dalla nomina insignitagli da Leone X, nel 1515, nominandolo “praefectus marmorum et lapidum omnium”, soprintendente quindi -nell’antico significato generico di colui che, da specifico incarico, esercita una mera verifica- di tutti gli antichi marmi rinvenuti (nel raggio di circa venti chilometri dalla Città) e selezionati per la costruenda Fabbrica di S. Pietro, della quale ne condivide la responsabilità (1514) con il domenicano Giovanni Giocondo da Verona (detto Fra’ Giocondo), alla cui morte (1515) succede Antonio Cordini (o Cordiani), detto Antonio da Sangallo il Giovane (1516). Il pontefice con la carica di “praefectus” gli affida dunque il compito di esaminare l’importanza delle epigrafi, delle inscrizioni incise sugli antichi reperti marmorei, prima del loro eventuale reimpiego edilizio, allo scopo di salvaguardare quelle considerate rilevanti per lo studio della lingua latina. Uomo colto, Raffaello, come evidenzia pure la celeberrima lettera al suo più potente fautore, il medesimo pontefice de’ Medici -scritta tra la fine del 1518 e la metà del 1519, non completata per la morte dell'Urbinate (1520); una sorta di prima stesura è di Baldassare Castiglione-, commissionante all’artista altresì uno studio circa la pianta di Roma antica, di cui l’epistola ne rappresenta la prefazione: ”Sono molti, padre beatissimo, che, misurando col loro debile giudizio le grandissime cose che delli romani, circa l’arme, e della città di Roma, circa ‘l mirabile artificio, ricchezze, ornamenti e grandezza delli edifici si scrivono, più presto estimano quelle fabulose che vere. Ma altramente a me sole avenire e aviene; perché, considerando dalle reliquie che ancor si veggono per le ruine di Roma la divinitade di quelli animi antichi, non estimo fòr di ragione credere che molte cose di quelle che a noi paiono impossibili, che ad essi paressero facilissime. Onde, essendo io stato assai studioso di queste tali antiquitati, e avendo posto non piccola cura in cercarle minutamente e in misurarle con diligenza, e leggendo di continuo li buoni auctori e conferendo l’opere con le loro scripture, penso di aver conseguito qualche notizia di quell’antiqua architectura”.  
Alcun dubbio sorge nei confronti di Raffaello sagace letterato.
Per i sonetti impiega alcuni vocaboli usati, ad esempio, da Brunetto Latini (1225,circa - 1294, circa), da Jacopone da Todi (Iacopone dei Benedetti; ?- 1306), da Dante, dal Tasso e da altri, ma sulla scrittura, memore di Luigi Pulci (1432-1484) e dell’Ariosto, spicca soprattutto il rinnovellato “modo” del Petrarca. Tali poesie sgorgano da una fugace sorgente d’amore per una, a noi sconosciuta, dama.
In Francesco Petrarca, Laura, è spazio infinito ove l’anima stabilisce la poesia, che svela passione sensuale, in sé provata con dolcezza, con gioia, con l’erompere del pianto. Nei versi egli instaura un insieme di nessi semantici, vivi nella sfera di un elevatissimo svolgimento poetico, trasformando l’istantaneo “carattere” psicologico in eloquente figura, ovvero in insistita metafora. Fronde e piagge, vivide acque e aurati capelli e caduchi fiori, che non vogliono avvinghiarsi a un consueto florilegio amoroso, poiché la continua muliebre immagine si abbiglia di un irraggiungibile desiderio, di un sogno quasi febbricitante. Rime contessute nel tema dell’irrequietezza, rifiutante il solito miscuglio di sentimentali argomenti, canto dove respira invece e anche un segno di negatività fitto di patimenti, d’insonni speranze, di un universo indecifrabile, di memorie disperse in visioni caduche. Laura non è finzione pura ma esistenza, che nella debolezza umana resta la sovrana fonte inarrestabile, che alimenterà il flusso vitale, del poeta, sino all’oscuro velo della foce estrema, quando gli occhi s’inabisseranno nell’eterno gelido sepolcro. Laura vertice della coscienza, lontananza e vicinanza dalle vicende sorte sopra e nelle stagioni dell’esistenza; metafora accesa e apparentemente ossessiva, abbracciata dall’esperienza, originata da un concetto divenuto palpabile. Laura nel pieno sguardo, del poeta, nei diversi periodi della sua vita, cantata costantemente nel medesimo modo, sebbene non accetti un’egoista visione, in cui l’amata si trasforma in narcisistico compiacimento di se stesso, tanto da cristallizzare intorno ad ella una gravosa sintesi di sentimenti, propri soltanto del cantore. Laura attraverso cui il Petrarca dona, ai lettori, la sua inusuale coerenza, celebrando quella donna, verso cui tutte le altre sue vicende sentimentali si sottomettono, determinandone la fama che sarà trasmessa ai posteri. Tutto l’avvenimento riguardante Laura desta un cardine impareggiabile, amore vivissimo che dall’etere - il lucente cielo avvolgente il mondo fisicamente percepito, dove il poeta con tutto se stesso la pone tenacemente- la richiama alla terra non rendendola perciò alternativa a una realtà altra. Ella dimora, con la sua muliebre sublimità, nei passi imbrattati dai terreni pericoli, nella sensualità, nell’incessante dinamico amore vibrante nel petto petrarchesco e dunque, ella, non è mera immaginazione isolata nell’astrattezza. Il bisogno di evocare madonna Laura perciò travalica “il divenire” contrapposto “all’essere”, che, tra la dinamicità mutabile e il perpetuamente immobile, trasformerebbe tale figura in una mera proiezione concettuale, in una sorta di costruzione idealistica, creata dalle transeunti afflizioni o dalle gioie contingenti succedutesi nella vita del Petrarca. Le sue fulgide rime non possono essere adombrate da un modello interpretativo di grossa grana, legato a stantii stereotipi, derivati da una superficiale ottica, adatta a una banale diffusione.
In Raffaello riecheggia, con efficace forma, un’apparente “atmosfera petrarchesca” ma l’humus è altro, per quante e per come sono a noi pervenute le sue rime.
Il Sanzio, venticinquenne giunto da Firenze, è già un famoso maestro di pittura quando, nel 1508 come si è già detto, è chiamato a Roma da Giulio II. Egli, durante il suo percorso artistico, mostra un’eletta cultura a contatto con eruditi quali, tra gli altri, Pietro Bembo e Baldassarre Castiglione. Il suo dolce carattere, come narrano le cronache, saldato alla sua fisica graziosità e alle cortesi maniere, esaltate dal suo indiscutibile genio, non possono che affascinare coloro che lo avvicinano e, a maggior ragione, le donne e di esse egli cerca quelle d’incantevole vaghezza, come confida al Castiglione, nella lettera scritta intorno al 1514: ” per dipingere una bella, mi bisogneria veder più belle … Ma essendo carestia … di belle donne, io mi servo di certa idea che mi viene dalla mente”. Da osservare, riguardo al suo evidente acume “di uomo di lettere”, ciò che vuole intendere quale “idea”, concetto caro ai neoplatonici rinascimentali (a lui vicini), quale “habitus”, vale a dire la qualità, la condizione individuale, l’insita indole che sostiene e muove l’anima. Essa ritrovando il proprio intelletto –fonte essenziale della conoscenza, ove l’animo intende le idee, creando i concetti- ritorna al proprio vero habitus (condizione, stato) che, per l’appunto, comprende le forme delle idee specchianti quelle assolute, permettendo così di conoscere, interpretare la realtà circostante: anima nel puro intelletto, generante un’armonia di figure, di note, di elementi, di luce. 
Raffaello vive in quella Roma, ambita meta di tutti gli artisti, nell’euforia di magnifici e possenti progetti che realizzeranno opere, conosce una donna impareggiabile nella sua bellezza assoluta. Il suo sentimento nobile ne viene rapito e la sua mano ricorrerà alle liriche. L’ignota sua amante mostra nel secondo sonetto “un bel parlar in donnessi costumi”, mentre nel terzo (varianti) il verso, sprigionando l’alterità cui egli è suddito, esclama: “ benigna a me la tua alma inclina abasso … sendo io tuo soggetto”. Alcuni ne vogliono intendere un’esplicita affermazione di notevole differente “condizione sociale” e quindi, l’amata, dovrebbe identificarsi con una gentildonna, dotta, elegante come una tangibile immagine di dama rinascimentale, stupendamente bella. Altri la identificano con la celebre Fornarina, Margherita, figlia di Francesco Luti, fornaio trasteverino. Si deve escludere invece che, il misterioso personaggio femminile, sia Maria Bibbiena, sua promessa sposa morta anzi tempo, nipote del cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, immortalato da Raffaello con il dipinto, oggi esposto alla Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze.
Nel primo sonetto “Un pensier dolce è rimembrarse il modo di quello assalto”, l’assalto indica l’unione carnale dei due amanti; il ricordo di quell’incontro si volge presto alla separazione “ma più grave è ‘l danno del partir” e ancora “Ma io restai pur vinto al mio gran foco che mi tormenta”, mentre, nelle varianti, il Sanzio rima che “molte speranze nel mio peto stanno e questo sol m’è rimasto ancor quel dolce suo parlar”. Composizione metrica di pregevoli accenti, che dalle difficoltà espressive, felicemente superate, sorge supremo l’affetto, nel significato poetico d’intenso sentimento e desiderio.
Amor, tu m’envocasti con doi lumi de doi beli occhi dov’io me strugo e sface, de bianca neve e de rosa vivace, da un bel parlar in donnessi costumi”. Apre con questi versi il secondo sonetto, che dell’influenza –riletta- del Petrarca ne appalesa il portato. Il poetare accarezza i pregi della donna amata, sillabandone il candido aspetto, il roseo volto, il nobile dire, la grazia delle sue pose. In una fiamma il suo amore arde e la passione lo colma talmente che, il consumarsi, non gli cagiona sofferenza ”Tal che tanto ardo, che né mar né fiumi, spegnar potrian quel foco: non mi spiace, poiché ‘l mio ardor tanto di ben mi face, ch’ardendo onior più d’arder me consumi”.  Tanto è dolce il gioco - l’abbraccio indicante, nell’ambito poetico, altresì l’amplesso – che, sciogliendosi dalle nivee braccia dell’amata, egli prova un’acuta doglienza ” Quanto fu dolce el gioco e la catena de’ toi candidi braci al col mio volti, che sogliendomi, io sento mortal pena”.
Nuovamente, il Petrarca, pervade il tono della terza poesia, pur rimandando l’inizio al Morgante, il magistrale poema di Luigi Pulci (due edizioni: 1461, 1483): ” Como non podde dir d’arcana Dei Paul, como disceso dal cielo, così el mio cor d’uno amoroso velo ha ricoperto tutti i penser miei”. Similitudine della conversione di “Saulo in S. Paolo”, il quale improvvisamente è cinto da un vivido raggio luminoso, divino, rovesciandolo a terra. Analogamente il cuore di Raffaello, impregnato d’amore, avvolge ogni suo pensiero, ogni sua azione. L’estesa lingua di fuoco, accesa da quell’impetuoso sentimento, alimentata dall’amata, che abbassandosi ad amarlo tutto avvolge ed egli perirà, qualora non riceverà sostegno da colei, che è donna elevata ” … in basso cede, vedrai che non fia a me, ma al mio gran foco … Ma pensa che’el mio spirto a poco a poco el corpo lascerà, se tua mercede socorso non lo dia …”. Varianti composte dall’Urbinate: ” … ma tu rimedio al mio mal sei … te pregarò, ché ‘l peregar qui lice … Adunqua tu sei sola alma felice in cui el ciel tuta beleza pose … che ‘l tien mio cor come infoco … e se benigna a me tua alma inclina abasso … e se il pregar mio in te avesse loco … guarda a l’ardor mio … sendo io tuo soggetto …”.
Il quarto sonetto preludia al distacco dalla dama ” S’a te servir par mi steginiase Amore, per li efetti dimostri da me in parte, tu sai el perché, senza vergante in carte … Io grido e dico che tu sei el mio signiore dal centro al ciel … e che schermo non val, né ingenio o arte, schifar le tue forze e ‘l tuo furore … et quell’alma gentil non mi dislazia, ond’io ringrazio Amor  … a me pietoso …” Raffaello ad Amore –entità- con enfasi pronuncia i versi ” Se ti è parso Amore, ch’io sdegnassi di servirti, per il mio contegno serbato in quegli incontri amorosi, tu ben ne conosci il motivo, pur non scrivendolo. Sopraffatto da te mi conducevo, mio signore, e nulla può schivare la tua forza e contro di te non appare alcun riparo. Ma ti ringrazio Amore, che hai mostrato pietà nei miei confronti, poiché lei non mi ha disfatto né consumato l’animo”.
Quanto è discosto il pulsante sentimento del Petrarca -come si è argomentato- verso Laura. L’ultima poesia (frammento) raffaellesca sancisce che, la relazione amorosa, si è presto estinta; ben altro affetto chiama il novello -e breve, per quanto oggi si conosce- poeta: quello della raffigurazione pittorica. Ad essa vuole interamente donarsi, liberando la sua esistenza dal legame che, ora, gli carpisce i fulgidi anni della sua vigoria artistica e fisica. Esalta l’esempio dei grandi protagonisti, che si adoperano con forza a conquistare la grandissima fama universale; da tale impulso ridesta il suo inerte pensiero affinché ottenga una fama ancor maggiore ” … pensier, che in ricercar t’afanni ? .. dare in preda el cor per più sua pace, non vedi tu l’efetto aspro e tenace, o stolto, che mi usurpa i più belli anni? Dure fatiche, e voi, famosi afanni, risvegliate il pensier che in ozio giace, mostrateli quel sole alto che face salir da’ bassi ai più sublimi scanni. Divine alme celeste, acuti ingeni …”. Varianti ” … voler seguita la nostra stella non vedi tu dal’uno a l’altro polo …”. Allontanamento da quella dama, già amata nella vampa di poche rime, a favore dell’estro inciso nell’infinità del linguaggio pittorico.   


Raffaello (immagine tratta da Google): Autoritratto (particolare), dalla "Scuola di Atene", Stanza della Segnatura,
Città del Vaticano 

cielo di luce spirituale e sede dei beati, che avvolge l’universo fisico


mercoledì 6 marzo 2019

Luigi Rossi: Il Palazzo Incantato, superbo modello di “cantata profana” nell’artistico fervere della Roma seicentesca

Immagine tratta da "Google Immagini"



Nella Roma del XVII secolo, il “magistero” musicale non plasma soltanto, nell’alveo della cantata, composizioni di accenti sacri, benché queste siano copiosamente favorite. Un felice vortice di dialoghi, di echi vuole esprimere una forma esaltante un testo poetico, -spesso preso dai raggi sublimi, ad esempio, del Tasso, dell’Ariosto- che già i titoli manifestano introducendo a quel sentimento, dove strali efficaci saettano frementi affetti. Per questo suo peculiare verso, la “cantata profana”, inizialmente non richiede uno specifico termine, il quale viene accolto con l’appellativo, da camera, dall’ultimo ventennio del Seicento, quando il tessere, che la definisce in un crescendo superbo ed entusiasmante, ha già realizzato una copiosa maniera poetica, dove i periodi ritmici delle parole sono rimati con mescolanza mirabile di versi e di arie e di voci, in un’arricchita intelaiatura strumentale. Poemi comprendenti vivide raccolte di azioni eroiche, nobilmente amorose, che superano spesso il carattere fittizio di eventi per auliche feste, per essere effigiate nell’acuto affresco dell’arte.  
L’arte che, Giulio Rospigliosi (1600, futuro papa con il nome di Clemente IX dal 1667 al 1669), anche in questa peculiare forma teatrale –egli è altresì un formidabile librettista-, ne percepisce la missione universale, così intesa anche per l’irrefrenabile decadenza politica, rispetto alle epoche precedenti, del papato; in tale condizione perciò i pontefici –e i personaggi che ne abbracciano il medesimo volere- esplicitano ancor di più la loro forza di committenti e promotori delle più avanzate ricerche e soluzioni artistiche, mirate a esaltare la centralità religiosa e “civile” della Chiesa, sospingendo a ricolmare la “Città Eterna” con un fervido mosaico di pittori, scultori, architetti, musicisti, letterati, studiosi.
Il Rospigliosi, ecclesiastico di penetrante sentire, possiede quell’elevatezza culturale, quella fulgida profondità di gusto, così prominente da considerare, insieme con altri numerosi “illuminati”, l’arte come tangibilità di alti scopi, offrendo tutto il respiro del mirabilis, lo stupore che nutre lo straordinario, alla scena del Divino, luce dell’Assoluto. 
I fecondi e lunghi anni trascorsi sotto l’egida dei Barberi (1624-1644), famiglia di Urbano VIII (1623-1644), lo rivelano brillante curiale e vivido letterato, attivo partecipe della vita culturale e “laica” di Roma. Quella sua affabilità intensa “nel vivere” e quella sua fine disposizione “di trattare”, rappresentano il suo paradigma di autorevole ecclesiastico, meticoloso nel suo lavoro di Curia, svolto però con animo gentile, avvolto nella temperie culturale e positivamente “mondana”, propria della Roma di questo periodo. Il suo nome è conosciuto più in là dell’ambiente “barberiniano”, in virtù anche dei suoi componimenti poetici e dei primi felici libretti per opere musicali.
La sua laboriosità, il suo comportamento irreprensibile, la cordialità che effonde e la stima a lui manifestata dallo stesso particolare ambiente curiale, sono doti che gli permettono di attraversare, indenne, il pontificato di Innocenzo X (1644-1655), così avverso ai Barberini e al loro circolo. Questi suoi pregi caratteriali, confermati dall’eterogeneo ambiente romano, lo avvicinano al nuovo papa Alessandro VII (1655-1667), divenendone uno dei più suoi assidui collaboratori, soprattutto quale artefice e frequentatore di eventi letterari, tenuti sia alla presenza dello stesso pontefice, sia nei cenacoli culturali “dell’Urbe”, nel frattempo raggiunta da Cristina di Svezia (1655).
Eletto, il Rospigliosi, papa con il nome, come già detto, di Clemente IX, appare tuttavia minato da una salute cagionevole, che gli consente di “regnare” solo per un biennio, non tralasciando però di continuare la committenza -nel solco dei suoi ultimi predecessori- di magnifiche opere architettoniche, come l’ornamentazione scultoria di ponte S. Angelo, disegnata dal Bernini, al quale affida altresì il progetto della nuova tribuna della basilica di S. Maria Maggiore (in seguito completata, con sostanziali modifiche, da Carlo Rainaldi); ambedue i lavori però saranno terminati dopo la sua morte.             
Un uomo di densa cultura, che, ritornando ai suoi inizi di compositore letterario in ambito “barberiniano”, manifesta efficacemente con la scrittura del S. Alessio (1632), musicato da Stefano Landi e scene realizzate da Pietro da Cortona, con il quale intrattiene uno scambievole rapporto di programmi artistici, idee che vedono protagonisti altresì Gian Lorenzo Bernini, Andrea Sacchi, Nicolas Poussin, Giacinto Gimignani suo protetto. Opera religiosa –inaugurante il teatro dei Barberini, colossale spazio contenente circa tremilacinquecento posti, edificato nel loro grandioso palazzo- ma cardine evolutivo della scuola, musicale, romana seicentesca, rappresentata con scenografie del Bernini.
L’arte dunque, quando è moto di vero ispirato animo, ha inarrestabile corso e accoglie, nel suo seno Luigi Rossi (1598, circa-1653) giunto a Roma nel 1620, circa, quale “musico virtuoso" del principe Marcantonio Borghese, nipote di papa Paolo V (1605-1621), mentre dal 1640, circa, è musicista dei Barberini, nel cui circolo conosce il Rospigliosi. In tale lasso temporale egli acquisisce palese notorietà, dovuta alla sua maestria attestata dall’attributo di “novello cigno”, eminente appellativo coniato per musicisti e per poeti. La sua dimora è frequentata da numerosi artisti di diverse espressioni e uno di questi è Salvator Rosa, pittore e poeta. Accadimento singolare, a questo proposito, riveste la visita del giovane Antoon van Dyck, che già dipinge (tra il 1622 e il 1623) il coetaneo Rossi, in azione di musicista, effigiandone una sorta di preannunciata gloria.
Di fama, invero, ne raccoglie molta, poiché il suo ricco e talentuoso repertorio lo eleva tra i più ispirati creatori, di musica, della prima metà del Seicento (non solo italiano).
Se pur il suo “registro” include inizialmente quelle “manère”, dal tessuto melodico orecchiabile, “simplificato” quasi popolareggiante, presto si evolve impiegando cantate quali pluripartite con sovrapposizioni di voci e strumenti, sino a quattordici sezioni, a rondò (caratterizzate del costante ritorno di una frase principale), su libera struttura astrofica (prive della risposta del coro, che perciò non ripete l’andamento ritmico delle strofe principali), con brevi componimenti lirici, con ordinata alternanza fra parti liriche (arie) e recitative, su ritmi cui il movimento si distende in battute di tre unità di tempo (ritmi ternari), ove s’innestano movimenti danzanti quali gighe (danze in tempo ternario di tono veloce), passacaglie (danze con variazioni) e ciaccone (danze in ritmo ternario moderato). Scale diatoniche (spediti passaggi sonori tra i gradi della scala musicale), sistemi tonali (suoni sistemati in rapporto con un punto focale, nominato tonica) poggiati su bassi continui (sezioni basse delle melodie, stese ininterrottamente per tutta la durata della composizione, che così organizza tutta l’esposizione armonica dell’accompagnamento), spesso costruiti quali bassi ostinati (frase melodica frequentemente unita a un’armonizzazione continuamente ripetuta con variazioni), elementi tutti eterogenei ma che formano le sorgenti delle sue arie vocali. Queste non disperdono le esperienze, che il Rossi ha acquisito dalla scuola napoletana (la spontaneità) e da quella fiorentina (la raffinatezza), fondendosi perciò in una straordinaria varietà di modelli e di vie espressive in differenti forme: arie, canzoni, canzonette (componimenti che rispetto alla canzone sono più brevi e con tono più leggero e andamento ritmico mosso), duetti e, per l’appunto, cantate. Un materiale quindi d’inesauribile estro musicale e di profonda eloquente efficacia, che sprigiona un insieme di giustapposizioni armoniche con, talvolta, un’ordinata alterazione dei suoni. Un fascinoso mosso lirismo assegnato, particolarmente, alle voci acute e vivaci e chiare dei sopranisti.
Celebrità che elargisce, al Rossi, un cospicuo patrimonio, una considerevole collezione di dipinti, di preziosi manoscritti e di pregiati strumenti musicali; raccolte confermanti la temperie culturale vissuta nella sua abitazione (come in precedenza si è accennato), in cui ricchezza e splendore artistico sono vissuti pienamente nel cuore della cultura musicale e letteraria di Roma. Difatti, questo artista, oltre a essere un magnifico compositore mostra virtuosismo all’organo, al clavicembalo, al liuto e al canto. Egli può essere definito, per tali caratteristiche, un instancabile rinnovatore e animatore e protagonista della cultura romana, sebbene sia in concorrenza con altre risonanti “personalità”, che felicemente affastellano il tessuto urbano della città, traboccante di arte nelle sue più alte forme e perciò anche di musica e di eventi teatrali. Il suo carattere artistico lo muove nella sperimentazione di nuove formule musicali, esplicitando un nuovo -più organico- modello di cantata (da camera), che ne afferma, l’eclatante, contributo compositivo esplicitato in circa duecento “lavori”, di cui molti per sola voce, ai quali se ne aggiungono più di cento, dall’incerta però attribuzione. Cantata che acquista, per mezzo delle composizioni create dal Rossi, una fisionomia eclettica e policroma, un singolare impulso melodico, cadenze accarezzate da sensualità, schietta effusione di note, varietà di nuove armonie, d’inusitati ritmi, di originali schemi, guardando, per come appare tale pluralità di lineamenti, alla coeva espressività “barocca” di argute combinazioni delle arti figurative.
Il Palazzo Incantato rappresenta il primo dei suoi lavori cui è legata, in modo così indissolubile, la genialità di Rossi in chiave operistica, con la quale percorre una nuova esperienza stilistica. Il calmo ma, in parecchie sezioni, inedito assetto musicale slega l’aria e la melodia, dando a esse un insolito andamento, sorta di “chiaro” collocato dinanzi allo “scuro” del declamato (dove la voce legge un testo senza alcun accento melodico) e del recitativo (la voce sebbene sia intonata sulle note e accompagnata musicalmente, non è inserita nella melodia in sé conclusa, seguendo invece le cadenze e le modulazioni del discorso recitato), con il sostegno di un raffinato e composito linguaggio armonico, eseguito con elegante sensibilità.
L’Orfeo, del 1647, rappresenta la sua seconda esperienza in ambito di vigorosa “sperimentazione”, sfarzosamente allestita al Palais Royal di Parigi, residenza della regina madre Anna d’Austria (vedova di Luigi XIII), dei suoi figli (all’epoca bambini) Luigi XIV e Filippo duca d’Angiò e del cardinale Giulio Raimondo Mazzarino. Lavoro musicale e teatrale della durata di sei ore, viene replicato sei volte, -sebbene il libretto, del poeta Francesco Buti, sia di scarsa caratura letteraria- decretando, nei confronti del compositore, il riconoscimento di elevato spessore artistico oltre le terre italiane. Episodio importante, nell’Europa “barocca”, indubbiamente pregno di superbi passaggi musicali, che stabilisce un’inedita visione teatrale incentrata su una nuova ispirazione lirica.         
Ritornando alla “temperie” romana, a quanto su di essa il papato incida, inarrestabilmente racchiuso in una situazione di debolezza politica, per vicende insite nell’evoluzione della storia, ne scorgiamo la sua vitale azione di “forte visibilità”, che soltanto la creatività artistica può rendere palese,  celebrandolo come autorità vivida e possente, nella gloria della centralità del Cattolicesimo,  mostrato indissolubilmente legato alla tradizione apostolica, trasmessa da Cristo stesso ai suoi primi discepoli. A quest’aspetto “declaratorio” i pontefici assommano quello di donare, alla propria famiglia, maggiore prestigio, creando in tal modo, nel corso dei decenni, differenti e plurimi “centri propulsivi” di mecenatismo. A Roma, dagli ultimi anni del XVI secolo, i principali nuclei familiari aristocratici svolgono perciò un’impegnativa attività, che promuove le arti e le lettere, profondendo larga liberalità ai diversi autori. Fervore volto a consolidare la propria immagine e il conseguente potere e i lavori teatrali ne sono una porzione cospicua, con le loro magnificenze e sontuosità espresse attraverso numerosissime feste.  
La celebrazione, di se stessi, muove il cardinale Antonio Barberini, nipote di Urbano VIII (1623-1644), a progettare una fastosa rappresentazione scenica, che alluda, nel suo significato allegorico, alla sontuosa dimora della sua famiglia, quale emblema di rilevante “dominio”. Notevole è la considerazione che il porporato, generoso mecenate, nutre per il Rossi, tanto da nominarlo “virtuoso da camera” e affidargli il suo desiderio teatrale, sostenendolo finanziariamente affinché, una volta compiuto, abbia forma di magniloquente dramma. Questo viene allestito, il 22 febbraio 1642, in occasione del carnevale, con testo di Giulio Rospigliosi, ispirato e tratto dall’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto: Il Palazzo Incantato overo La Guerriera Amante, indicato pure Il Palagio d’Atlante nei manoscritti, a noi giunti, della partitura.
Le cronache dell’epoca riferiscono circa il caloroso successo tributato dal pubblico che, per quanto si deduce, non rivela alcuna noia, malgrado l’enorme durata dello spettacolo. In esso si erge la magnificenza delle scenografie (che, secondo alcune notizie, per un breve periodo avrebbero visto la mano del Bernini) concretate sotto la direzione di Andrea Sacchi -già impiegato altresì come architetto per creare scene di altre rappresentazioni, svolte nel teatro dei Barberini, nonché per apparati effimeri-, i policromi disegni pittorici di Filippo Gagliardi, la ricchezza dei costumi, i fascinosi cambi di scena, lo sfavillio dei balletti, la decorata grandezza dei meccanismi scenici, la piacevole ed elevata essenza della musica. Questo florilegio di sublime bellezza rapisce gli spettatori, sostanziando lo scopo primario di glorificare lo splendore dei Barberini. Spettacolo dalle dimensioni mai prima posto in scena a Roma, dal quale definitivamente risalta la valenza creativa del Rossi. L’unicità- allora- di questo evento è testimoniato dall’esasperata ressa dei meno abbienti, per assicurarsi un posto, scaturendone addirittura furibonde colluttazioni tra le persone.
La monumentale rappresentazione, sebbene sia enormemente lodata, è assalita anche da qualche critica, derivata da “convinzioni istituzionali” (l’esposizione dell’argomento trattato); oltre a ciò, secondo alcuni, il lavoro, nel suo complesso, appare “lagrimoso”, quindi ostentatamente di tono patetico e sospiroso. Non giova neppure la rivalità fra i cantanti e le difficoltà inerenti alla messinscena, poiché qualche “macchina teatrale” –dovute alla “mano tecnica” di Apollonio Guidoni, già assistente del Bernini in un precedente apparato effimero- si rivela difettosa, guastando, in alcuni momenti, il dramma.
Imponente spettacolo, cui il costo ammonta, secondo alcune fonti, a ottomila scudi, rilevante somma finanziaria, in parte necessaria per concretare le scene e i costumi, richiedenti squadre costituite da numerosi operai e sarti.
La trama si snoda tra un prologo comprendente una sinfonia -introduzione strumentale legata alla vocalità e alla drammaticità dell’opera, che subito segue sulla scena-, tre atti, i quali, complessivamente, si svolgono attraverso quaranta diverse scene, interpretate da diciotto dei più acclamati cantanti di Roma (cito i sopranisti Marcantonio Pasqualini e Loreto Vittori, il contralto Mario Savioni; uomini, per il divieto alle donne di recitare e cantare in pubblico), i quali danno volto e voce a ventiquattro personaggi; essi sono per la maggior parte cantori della Cappella Pontificia. La sontuosità e la “vastità” di questo evento, memorabile e costosissimo, sono manifestate dalla sua durata complessiva che occupa sette ore, tra parti vocali solistiche, cori, balletti, mutamenti di scena.
L’argomento del dramma sviluppa un turbinio di bagliori, accenni arguti, rimandi sottintesi, espansioni di contrastati sentimenti. Vicenda tratta dal corto brano –inerente al mago Atlante- del poema dell’Ariosto, il quale in questo lavoro invece costituisce il soggetto così lungamente espresso in versi e in musica.  
Nel prologo dibattono la pittura, la poesia, la musica e la magia (concepita come capacità di produrre effetti) su chi tra esse, sublimi arti, sia la più elevata. L’esito scaturisce dalle vicende narrate nei seguenti tre atti dell’opera, incardinati sul valore dimostrato dal paladino Ruggiero. Nei labirintici e magni spazi del Palazzo Incantato voluto dal mago Atlante, per un oscuro incantesimo vagano, dame e cavalieri, alla tormentata ricerca di amori perduti. Nomi che si susseguono, incalzanti, dall’Orlando Furioso  (già presenti nell’antecedente poema Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo): Angelica, Astolfo, Orlando, Bradamante, Ferraù, Marfisa, Sacripante. Un coro di spiriti commenta i fallaci cimenti amorosi, mentre avviluppati accadimenti dettano l’agire dei personaggi -tra i quali si muove Atlante con avversi scopi nei loro confronti- sino a quando la virtù, la forza dell’amore, prevale sulla magia, che delle arti è la sola sconfitta, svanendo nel nulla e quindi dalla vista delle dame e dei cavalieri, così ricongiunti con i rispettivi amanti.
Secondo uno scritto, Allegoria dell’Opera (datato 1662), essa “asconde sotto favolose sembianze quei sentimenti morali, ch’ella si propone d’insegnar dilettando”. L’edificio, ove si svolge la sceneggiatura, dunque raffigura quella brama di felicità, a cui l’umanità affannosamente si volge per abbrancarla, senza riuscirvi. In Atlante -il mago e gigante- si cela il mondo, che, con inganno, blandisce gli uomini per mezzo dell’illusorietà agitante nei sensi, poiché immagini, della circonfusa realtà non osservata nella sua effettiva dimensione, appaiono colossali rispetto alla loro vera consistenza. Gli stessi cavalieri erranti, che rappresentano il principio attivo delle facoltà dell’intelletto, della volontà e del sentimento, possono smarrirsi nel labirinto della colpa, del peccato. Bradamante, intrepida guerriera e donna grandemente innamorata, con la sua irrefrenabile tenacia, descrive la ragione vittoriosa sull’oscura frode che minaccia l’anima.
Si è osservato in precedenza il motivo originario, per cui è stato creato questo dramma; attraverso i particolari gesti, gli artifici e il giganteo consegnato alle figure delle similitudini, si effonde la munificenza dei Barberini, che troneggia la copiosa meraviglia, dove lo slancio degli affetti –che nel linguaggio poetico indicano la vastità dei sentimenti-, non è scevro di sciolta voluttuosità, verso cui un tetro ammonimento però chiama a sé tutti i respiri, volgendoli a quell’inevitabile lido, dalle scure onde che gettano l’uomo nella morte. Vanitas alludenti alla caducità di ogni bellezza e alla transitorietà della condizione umana, ma proprio nella vaghezza che l’esistenza può declamare le sue più eminenti strofe.
Il Rossi impronta a questa opera (come in altri suoi lavori) improvvisi acceleramenti armonici e ritmici al basso continuo (divenendo basso ostinato), unendo soavi melodie utilizzando il canto fiorito, vale a dire con frazionamento dei suoni, manifestante l’espressiva liricità, che scandisce, in alcuni passaggi, una schietta passione, attestando il trionfo della cantata nelle rappresentazioni musicali-teatrali. La struttura dell’armonia più complessa, dalla quale derivano i “pezzi chiusi” (musicalmente autonomi rispetto alla composizione), a scapito dei recitativi, si appalesa nel successivo –più maturo- Orfeo, ciononostante nel Palazzo Incantato la melodia si svela in incisive e riuscite dissonanze, di frazioni sonore anticipanti passaggi seguenti, di vivaci rallentamenti, di accordi sovrapposti, di note salienti e discendenti; intensa esposizione i cui le voci dei numerosi cori (molti dei quali strettamente uniti agli accordi armonici e perciò privi di ornamentazioni) ripetutamente si snodano all’unisono e sporadicamente in chiave contrappuntistica, questa voluta da quel canone, già sviluppato nel XV secolo, dove l’impostazione di una voce è imitata, in prefissati intervalli di altezza e di tempo, dalle altre.
Arte, che Luigi Rossi ascolta nel soffio etereo dell’ispirazione, tentando di valicare, almeno nella sua intima percezione, i ristretti segmenti che, la nobile e facoltosa committenza, tratteggia con la sua autocelebrazione.     

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Riporto di seguito, in ordine cronologico, i precedenti post di argomento musicale sinora pubblicati.

·         Mozart a Roma (27 novembre 2014)
·      Alessandro Scarlatti: il clima musicale della Roma barocca; l’oratorio; “Il martirio di S. Cecilia” (9 dicembre 2014)
·        Handel nello splendido vivore artistico di Roma (6 febbraio 2015)
·    Arcangelo Corelli, il paradigma musicale dell’ambiente aristocratico e artistico romano (18 luglio 2015)
·     Il Grand Tour a Roma di Felix Mendelssohn-Bartholdy (20 giugno 2016; attualmente sesto post dei più letti)
·      Giacomo Carissimi nella definizione dell’oratorio (25 settembre 2017)