Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

Io Spiego

lunedì 15 febbraio 2021

Su alcuni tratti del pensiero di Seneca

 

Il dipinto Morte di Seneca, assegnabile alla bottega di Luca Giordano (1634–1705), è compreso nel complesso dei beni artistici custodito dalla Camera dei deputati, vale a dire l’insieme delle opere d’arte presenti all’interno delle diverse sedi di tale Organo legislativo. L’esclamante cromatica spazialità di questa opera, distesa in un compositivo respiro, ordina le figure in una successione di moti trepidanti intorno al morente filosofo, cui lo sguardo, invece ancora sereno, esprime saggezza trasformandosi da rappresentazione pregna di teatralità a virtù -la virtus latina, vale a dire la forza-, come narra la cronaca della sua morte. Così il pensiero corre a Tacito, che negli Annales (XV, 60-64) descrive il trapasso di Seneca, filosofo e scrittore latino, quasi un epigono, in tal estremo episodio della sua vita, di Socrate -condannato a morte attraverso autoavvelenamento-, che non altera, altresì in quella tremenda circostanza, la pacata e chiara espressione del viso secondo quanto descritto da Platone nel Fedone (114d-118a). Il filosofo greco accetta il verdetto impostogli, non fugge dal carcere per non distruggere le leggi (Platone, Critone 49a–50a), andrà perciò incontro alla morte, poiché non tiene in massima considerazione il vivere come tale, bensì il vivere secondo virtù e giustizia (Critone, 46d - 47e).

Lucio Anneo Seneca (4 a.C.-65 d.C.), addentro alla vita di corte, già arricchito precettore e successivamente consigliere di Nero Claudius Caesar Drusus Germanicus, ossia Nerone, sullo sfondo di brutalità, crudeltà mosse da intrighi, macchinazioni, agisce in un’età che si dimena tra stridenti antinomie. Egli stesso viene accusato -senza alcuna fondante prova- quale partecipe di un complotto, ai danni proprio dello stesso imperatore Nerone (65 d.C.), mentre nei precedenti tre anni è assorto in studi, in profonde riflessioni, nel silente ritiro dalla vita pubblica, nell’alveo filosofico stoico dove cogliere i modi con cui conoscere la realtà, unificata dall’azione ordinatrice: la ragione. Il pensare è facoltà che sostiene la conoscenza e perciò il giudizio, formulato rapportando gli elementi mostrati dalle figurazioni (considerati valori astratti), impressioni fornite da ciò che si pone dinanzi all’animo, imponendo ad esso una mutazione. Conoscendo quindi la realtà si svela l’etica definente i principi – fondamentali- da seguire, il modo del procedere umano, giacché aderente al regolare criterio ordinato esattamente dalla realtà stessa.

Lo stoicismo è scuola di rilevante influenza nella società romana che, nei suoi intrinsechi accenti, osanna la dignità e la libertà individuale; lo stoico quindi è, a sua volta, raffiguramento ideale dell’uomo votato a tale sentire, insensibile al male fisico, saldo nell’affrontare voluta morte, quando si estrinseca unica via sprezzante “i guasti”, considerati avvelenamenti esercitati dal mondo a lui esterno.

Il suicidio di Seneca appare conforme a tale visione ultima, quale morte di illustre personaggio, che si sottrae a un atto di pena capitale altrimenti concretabile da “un agente esterno”, come sembrerebbe esplicitato “tra le righe” della condanna emessa per cospirazione contro l’imperatore. 

Con questo post mi propongo di argomentare alcuni aspetti del suo pensiero -del su citato dipinto ne accennerò ulteriormente in conclusione-, tralasciando ora la scena del suo atto estremo, il veglio filosofo che recide le sue vene, poi avvolto da asfissianti fumi, sicuro nella sua seraficità in attesa di esalare l’ultimo respiro.

Seneca, il letterato, filosofo e drammaturgo che giganteggia su altre “figure” durante l’intero I sec. e ancora, successivamente, la sua sarà autorevole voce -di una cultura stoica- talvolta incoerente per l’altalenante, complicato, drammatico confronto con il sistema imperiale, che lo spingono in innegabili allentamenti -se non in cadute e in gravi paternità di eventi tragici- circa “l’impegno filosofico-morale”, non intaccando però le profondità delle sue convinzioni, che quindi resistono, avvicinandolo con maggiore interiore intensità alla più schietta sympatheia, il compiersi, con soggettiva inclinazione sentimentale, di una comunione universale percepibile per mezzo della buona coscienza. La sua dialettica è svolta distante dalle erte cime cosmologiche, metafisiche, teologiche per fondarsi invece sui versanti dei caratteri insiti nella morale, su un’articolata pragmatistica riva, laddove un’assiepata casistica è disegnata da intimi enigmi umani, che egli investiga quali arcani abissi di microcosmi dove si cela una scintilla dell’universale brillante luce. Uomo rivolto ai suoi simili abbracciando uno spirito di fratellanza, con il quale trovare saviezza e probità, intessuto di un’avvertita spiritualità che respirerà pur nei primi secoli del Cristianesimo, scandendosi altresì nel Medioevo e non abbandonato dall’Umanesimo, che afferma, Seneca, paradigma ammantato di ethos insieme a Marco Tullio Cicerone, il quale nell’ultimo suo componimento filosofico -tra i più celebrati-, De officiis, argomenta su come l’uomo debba agire nell’ambito della morale -moralis-, in quanto soggetto attivo nello stato.

Spiritualità pagana, può essere definita, la visuale insita nei concetti senechiani, che dettero vita alla raccolta -elaborata per lo più nel corso del IV sec.- delle quattordici false lettere intercorse tra S. Paolo e, per l’appunto, Seneca, che a lungo sarà considerato, dalla tradizione e non solo, un cristiano con una fervida amicizia con l’apostolo.

Nella acclamata opera, Lettere a Lucilio, il filosofo espone un’elevatissima “sensibilità spirituale” capace di avvertire, di comprendere le incongruenze e gli abbagli umani -errori copiosi pur e maggiormente negli animi più sensibili-, individuando però il percorso affinché le contraddizioni e i tracolli, segnanti le vita dell’uomo, siano sopravanzati. Già l’avvio di questo trattato -che accorda lo stoicismo con alcuni lidi filosofici, tra i quali il platonismo- ne scandisce la sostanza:” Comportati così, Lucilio mio, rivendica il tuo diritto su te stesso e il tempo che fino ad oggi ti veniva portato via o carpito o andava perduto, raccoglilo e fanne tesoro. Convinciti che è proprio così, come ti scrivo: certi momenti ci vengono portati via, altri sottratti e altri ancora si perdono nel vento. Ma la cosa più vergognosa è perder tempo per negligenza. Pensaci bene: della nostra esistenza buona parte si dilegua nel fare il male, la maggior parte nel non far niente e tutta quanta nell'agire diversamente dal dovuto”.

Nel suo ritiro precorrente la morte, egli scruta le proprie esperienze di uomo addentro al corteggio imperiale, dirette, in gran parte, a trasmutare i suoi atti in progetto filosofico, con il quale congegnare la sembianza, del sovrano, circonfusa dalla perfezione, che permetta allo stesso regnante di adoperarsi, nella sua assolutezza, per il bene dell’impero, dunque esiliando qualsiasi manifestazione di volontà, emessa da qualunque ente a lui esterno, come il senato. L’ideale dell’illuminato governo imperiale viene esaltato, da Seneca, nel De clementia -dedicato a Nerone-, che ne disegna l’unicità; un bacino aperto corrispondente al principio di razionalità universale, alla legge di armonia e alla dinamica opera del divenire che ordina e governa l’universo: a tale positivo moto il principato deve essere autentica rispondenza. Il monarca, rischiarato da questa luce, rigetta la dissolutezza, l’atteggiamento dispotico, instaurando con i sudditi un rapporto incardinato sulla clemenza, sulla rettitudine:” Tengo nascosta la severità e sempre pronta, invece, la clemenza; sorveglio me stesso, come se dovessi poi render conto alle Leggi, che ho richiamato dalla dimenticanza e dalle tenebre alla luce. Prima mi sono commosso per la tenera età di uno, poi per l’anzianità dell’altro; ad uno ho perdonato per la sua dignità, ad un altro per la sua umiltà; ogni volta che non ho trovato una ragione di misericordia, ho risparmiato per me stesso. Oggi sono pronto, se gli dei mi chiedono il conto, ad enumerare tutto il genere umano" (De clementia, proemio IV).

Seneca influente uomo di corte, pur nell’eminente posizione che gli garantisce ricchezze e potere, non cessa di evidenziare la superiorità dei principi spirituali; infatti nel De beata vita (IV) –ove sostiene che la reale felicità è sostanziata nell’esercizio della virtù e non dal possesso dei beni materiali- si legge:“ Ma si può definire ancora dicendo felice quell'uomo per il quale il bene e il male non sono se non un animo buono o un animo cattivo, che pratica l'onestà, che si compiace della virtù, che non si lascia esaltare né abbattere dagli eventi fortuiti, che non conosce altro bene più grande di quello che lui stesso è in grado di procurarsi, per cui il piacere più vero sarà il disprezzo dei piaceri. E se vuoi dilungarti, si può ancora presentare lo stesso concetto sotto vari e diversi aspetti, lasciandone intatto il valore; che cosa, infatti, ci vieta di dire che la felicità consiste in un animo libero, elevato, intrepido, saldo, che lascia fuori di sé timore e cupidigia, che considera unico bene l'onestà e unico male la turpitudine e tutto il resto un vile coacervo di cose che non tolgono né aggiungono nulla a una vita felice e che possono venire o andarsene senza accrescere o diminuire il sommo bene? A un comportamento così saldo, si voglia o no, seguirà una ininterrotta serenità e una profonda letizia che nasce dall'intimo, perché si rallegra di quel che ha e non desidera nulla di più di quanto le è proprio Ebbene, tutto questo non ripaga ampiamente i meschini, futili, effimeri moti del nostro fragile corpo? Il giorno in cui si sarà schiavi del piacere lo si sarà anche del dolore; e tu vedi a quale spietata e funesta schiavitù dovrà soggiacere colui che sarà posseduto alternativamente dai piaceri e dai dolori, i più capricciosi e dispotici dei padroni; quindi bisogna trovare un varco verso la libertà. E nessun'altra cosa può darcela se non l'indifferenza nei riguardi della sorte: allora nascerà quel bene inestimabile, la pace della mente che si sente al sicuro, e l'elevazione spirituale, e, una volta scacciati i timori, dalla conoscenza del vero una gioia grande e immutabile e l'amabilità e la disponibilità dell'animo, che di queste cose godrà non in quanto beni, ma in quanto nate da un bene che è suo proprio”.

L’imperturbabilità è dote del sapiente, colmo della sua coscienza morale, che estraniandolo dal male lo ripara da ogni vituperazione (De costantia sapientis); serenità del sapiens preparato dalla coscienza medesima a rinunciare con serenità ad ogni bene -e pur alla vita in alcune circostanze-, poiché nulla gli appartiene se non la rettitudine posta al servizio della comunità, anche nelle funzioni più modeste:” Eppure c'era Socrate e consolava i senatori affranti, esortava quanti disperavano della repubblica, ai ricchi che temevano a causa delle loro ricchezze rimproverava il tardivo pentimento di una cupidigia foriera di pericolo e a quanti erano desiderosi di imitarlo andava portando un grande esempio, col suo incedere libero fra i trenta dominatori. Tuttavia quest'uomo la stessa Atene lo uccise in carcere, e la Libertà non tollerò la libertà di colui che aveva sfidato la schiera compatta dei tiranni: sappi pure che anche in uno stato oppresso c'è la possibilità per un uomo saggio di manifestarsi, e in uno fiorente e felice regnano la sfrontatezza l'invidia e mille altri vizi che rendono inerti. Dunque, comunque si presenterà la repubblica, comunque lo permetterà la sorte, così o esplicheremo le nostre possibilità o le contrarremo, in ogni modo ci muoveremo e non ci intorpidiremo paralizzati nel timore. Anzi, sarà davvero un uomo colui che, mentre incombono pericoli da tutte le parti, mentre intorno fremono armi e catene, non infrangerà la virtù né la occulterà; nascondersi infatti non significa salvarsi.  A buon diritto, a quel che penso, Curio Dentato (Manio Curio Dentato, console del III sec. a. C. considerato l’emblema dell'antico romano incorruttibile, invincibile) diceva di preferire la morte alla vita: è l'estremo dei mali uscire dal novero dei vivi prima di morire.

Dissolta la visione, attraverso la sua iniziale guida, di Nerone illuminato sovrano e filosofo, donandogli gran parte del suo patrimonio, Seneca nell’appartato asilo -decisione scaturita dal deterioramento del rapporto con l’imperatore- converge tutte le energie intellettuali nel rielaborare le sue teorie, portando a termine il suo orizzonte saldato sulla morale. Essa si esplicita sapienza e non mera erudizione, discernimento acuto unente azione concreta “nella società” ed ozio -l’otium, l’indefinito stare nella profondità degli studi e delle relative attività- ambedue imprescindibili per raggiungere l’intima quiete, una sorta di stato spirituale, che non soltanto rinuncia a individuate vacuità, ma sottomette le passioni con razionale austerità.

La sua dipartita si veste di tragicità scenica, che il pregevole olio su tela, ascrivibile alla florida ed eminente bottega di Luca Giordano -come citato all’inizio del post- efficacemente sprigiona. In deposito presso una delle dipendenze dalla Camera dei deputati, proviene dal partenopeo Museo di Capodimonte. Brevemente vi sostiamo dinanzi, completando quanto inizialmente esposto.

Di autore sinora ignoto, l’opera estende, senza alcuna esitazione, la cifra del Giordano nell’accostarsi a una parziale rilettura caravaggesca per la dialettica tra luce e ombra, abbinata a una tavolozza fermamente pittorica e accuratamente cromatica. Un’originale narrazione prospettica rievoca l’arditezza espressa nei lavori del Giordano, che il telo (a sinistra), quasi veementemente mosso da un arcano soffio, sembra accendere; accanto, sull’asta, è posato un pappagallo -alludente all’imitazione della voce umana-, elemento simbolico confermante la “spiritualità senechiana”, ricollegabile a un passo delle Regole di S. Basilio Magno, il vescovo e dottore della Chiesa del IV sec.:” Imita la vita dei giusti per diventare degno anche tu di conseguire i loro splendidi troni immersi nella luce”. L’elegante gusto pittorico offre pienezza espressiva a tutto l’impianto e le positure agitate dei personaggi, che contornano il morente filosofo, non cedendo a logori effettistici atteggiamenti, imprimono, all’insieme della raffigurazione, intensa ed efficace drammaticità. Il felice brio esecutivo e inventivo determina una, frenata, suggestione virtuosistica, che adeguatamente esalta la cadenza chiaroscurale nel sentimento doloroso, mentre la morte sembra far levitare il robusto corpo di Seneca, contrastando la lama bagnata di sangue che lambisce un tomo poggiato su altri tra sparsi cartigli, coerente parafrasi testimoniante quanto postulato in vita dal morituro, assumendo significato di innalzata lode nei suoi confronti.