Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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giovedì 26 febbraio 2015

La “presenza architettonica” di Pietro da Cortona nella fabbrica di Palazzo Barberini

Pietro da Cortona (Pietro Berrettini, 1596-1669) è un artista che imprime un profondo segno, nella dinamica caratterizzazione urbana di Roma, del suo tempo. Egli è protagonista della stagione barocca, sia quale pittore sia come architetto, imprendendo ad attività brillantissime e fondamentali per creare un volto “inedito” della città e del suo basilare “sistema” decorativo. L’inesausta creatività di questo maestro dell’arte viene mostrata attraverso le portentose architetture, gli straordinari affreschi e le formidabili tele, opere che illustrano altresì l’ambiente artistico sviluppatosi intorno alla sua estetica .
 
Cortona assolve, tra i grandi personaggi di quel periodo, compiti che la committenza gli propone, interpretando con originalità il sentimento di sicurezza dottrinale e di supremazia “ecclesiale” canonicamente ben definita, elementi di quel “Cattolicesimo vittorioso” propugnato dalla Controriforma. Nondimeno egli affronta, con arguta padronanza stilistica, il desiderio di quella società di esibire esteriormente il fasto e la ricchezza, uniti alla gloria, al trionfo dello spirito religioso, dovuti alla capacità umana ma assai più alla grazia divina.
 
La cifra di tale artista comprende la rielaborazione del linguaggio classico, realizzato in modo autonomo, originale, accostandone e combinandone alcuni caratteri, senza fissare una rigorosa  condizionante regola, ma al contrario esibendo una rimarchevole libertà creativa, com’è asserito, ad esempio, dalla vigorosa plasticità degli spazi edificati, dalle grandiose compiute rappresentazioni architettoniche, nelle quali spesso le strutture reali si fondono in un mirabile gioco di effetti prospettici, suggestivo esempio di teatralità barocca.
 
La magnificenza del suo registro espressivo è celebrata anche negli ambienti di Palazzo Barberini, come elevatissimo pittore (il grandioso affresco de “La Divina Provvidenza” nel Salone principale o l’insieme pittorico – lavori eseguiti in gran parte da suoi allievi- nella Cappella). L’edificio sorge in prossimità dell’area già occupata dalla villa prima di proprietà del cardinale Rodolfo Pio da Carpi, in seguito appartenente al duca Alessandro Sforza e acquistata, nel 1625, dal cardinale Francesco Barberini, nipote di papa Urbano VIII (1623-1644), alfine di trasformarla in una residenza degna della famiglia di un pontefice. Infatti, nel 1626 il porporato la cede, in parte, a suo fratello Taddeo. Il progetto della nuova costruzione è affidato a Carlo Maderno, avendo come collaboratori il giovane Borromimi, da tempo suo “creativo” assistente, nonché l’altrettanto giovane Bernini (quest’ultimo impostogli dal papa). L’anziano architetto concepisce un voluminoso edificio avente una forma ad “H”, costituito quindi da due, per come appaiono, grandi ville rettangolari collegate tra loro per mezzo di una galleria e di un loggiato. L’ala settentrionale della costruzione deve ospitare il ramo secolare della nobile famiglia, vale a dire: Taddeo Barberini, sua moglie Anna Colonna, i suoi figli e sua madre donna Costanza. L’ala meridionale, invece, è destinata ad accoglierne il ramo ecclesiastico: i cardinali Francesco e -non stabilmente- Antonio Barberini, l’altro suo fratello. Il primo dei due porporati è uomo di enorme cultura, di raffinate abitudini che contraddistinguono la sua esistenza; per tale ragione in quegli ampi appartamenti sono collocati la sua ricchissima libreria, la sua collezione di dipinti e di antiche preziosità.
 
Alla morte del Maderno (1629) succede alla direzione dei lavori il Bernini, che mantiene gran parte del disegno maderniano benché ne modifichi alcune parti, le quali ancora oggi gli sono attribuite con difficoltà, tranne alcune palesemente contenenti l’indubbia impronta della “sua mano” (ad esempio le sette grandi vetrate della finta loggia), in virtù del contemporaneo lavoro svolto dal Borromini, cui l’attribuzione, di certune sezioni dell’edificio, è ugualmente difficile, eccetto quelle a lui manifestamente accreditabili (ad esempio la particolarissima scala elicoidale).

Veduta di Palazzo Barberini, G.B. Piranesi, 1749 circa (Immagine tratta da "Google Immagini")

 
La presenza dell’artista cortonese, chiamato anch’egli a esprimersi in questa fabbrica, non si esaurisce nella sublime decorazione “plastica” di taluni vani, ma vi esplica anche l’altra sua valenza artistica, vale a dire quella architettonica. Invero, al Cortona, molto apprezzato dai Barberini, è richiesto un progetto per il nuovo palazzo, che incontra il favore del papa ma è abbandonato poiché comporta costi elevatissimi. Tuttavia il suo ingegno non può non essere impiegato anche durante quelle fasi costruttive e, quindi, ne concepisce e ne realizza alcuni dettagli architettonici congiunti al palazzo, visibili pur nell’attuale frammentarietà, che ne descrivono il suo gesto.

Nel 1638, circa, il muro di cinta della facciata nord dell’edificio è incorporato in una nuova struttura, costruita per contenere un teatro, di cui il Berrettini ne disegna il prospetto. In un angolo, quasi recondito e silenzioso, si scorge una sorta di rientranza di Via Barberini, estranea “all’incandescente” traffico che segna la circostante zona; al numero ventidue si eleva un portale con timpano spezzato e, come afferma il nipote Luca Berrettini, quattro finestre “al mezzanino inginocchiate”: un insieme di briosa, movimentata eleganza chiaroscurale. Del medesimo teatro, demolito nel 1932 per l’apertura della suddetta strada, sono stati sottratti dalla distruzione questi elementi architettonici, collocandoli sulla facciata del nuovo palazzo costruito seguendo, parzialmente, le linee di quell’ambiente teatrale. Un’altra grande porta d’ingresso decorata, al numero venti, ipotizzata quale accesso della facciata nord della sontuosa residenza, sporge la sua sagoma da una perdurante “momentanea” odierna impalcatura. L’ornamentazione di queste due strutture architettoniche, modellate da bugne e tratti sagomati con sostanziosa duttilità, formano una particolare versione di eterogenei richiami (ad esempio l’ordine rustico), risolti dal Cortona con suo stigma stilistico, che si enuncia avulso da qualsiasi stantio rigore formale animando “pittoricamente” le superfici.    
 

 
 
Il portale al numero 22 di via Barberini
 
 
Particolare del prospetto con tre delle quattro finestre "al mezzanino inginocchiate"
 
 
Il portale al numero 20 di via Barberini
 
 
 
 
  
 
 
 

 

 
 

 
 
 
 
 

 


venerdì 20 febbraio 2015

Il dipinto della “Annunciazione” nella Chiesa di S. Lorenzo de’ Speziali in Miranda

Il complesso di S. Lorenzo de’ Speziali in Miranda (oggetto di un mio studio), formato dalla chiesa e dagli annessi locali –uno dei quali adibito a museo- appartiene al Nobile Collegio Farmaceutico Universitas Aromatariorum Urbis; esso costituisce il portato di una “metamorfosi” pronunciata nel corso dei secoli, che dal tempio di Antonino e Faustina (141, circa) conduce all’attuale aspetto architettonico, il quale ne definisce la particolare monumentalità tra il contesto ambientale dell’area del Foro Romano.
 
Il mutamento da edificio consacrato a quegli antichi “divi” a chiesa risale al 630, circa –ma secondo alcuni studiosi la trasformazione avviene all’inizio del secolo VIII-, per volere del papa Onorio I (625-638), ricordato per la sua intensa attività nel campo delle opere pubbliche e religiose. Il tempio diviene quindi ambiente cristiano dedicato a S. Lorenzo diacono, in quanto si crede che sia adiacente al luogo del martirio del santo (258). L’appellativo “in Miranda” o “de Miranda”, cui la più antica citazione è documentata nel secolo XI, deriverebbe dal verbo “mirare” –dal tardo latino “guardare con ammirazione”- il Foro. Un’altra voce indica che “Miranda” sia, in realtà, il nome della fondatrice di un monastero sorto proprio in questo sito.
 
Papa Martino V (1417-1431), nominato “Temporum suorum felicitas” (Felicità dei suoi tempi), per la sua azione di “riedificazione” -anche culturale- della città, con la bolla del giorno 8 marzo 1429, concede la chiesa di S. Lorenzo, quasi in rovina, alla “Universitas Aromatorium Urbis”, vale a dire in favore a quel Collegio di Speziali dedito alla preparazione di medicamenti a base di erbe, di altre essenze vegetali, di polveri minerali e, per l’appunto, di spezie derivate da sostanze vegetali secche anche profumate. Poiché l’edificio preesistente non può essere utilizzato quale piccolo ospedale, ne viene demolita l’intera struttura (preservando gran parte degli elementi architettonici romani superstiti), sostituita quindi da quella quattrocentesca, formata da un nosocomio e da un minuto luogo di culto.
 
Nel 1536, in occasione della visita di Carlo V, sono demolite alcune case e chiese edificate tra le spoglie del Foro Romano, per aprire la strada costruita per il corteo imperiale (alla realizzazione della quale il popolo contribuisce con il pagamento di una tassa), nella zona il cui aspetto deve apparire degno –per quanto all’epoca possibile- dei trionfi dell’antica Roma; per questa ragione sono abbattute, nell’area del complesso di S. Lorenzo, sia tre cappelle che occupano il pronao dell’antico tempio, sia una parte dell’ospedale del XV secolo.
 
La nuova temperie artistica-culturale che pervade la “Città Eterna”detta altresì la ricostruzione, d’incipiente registro barocco, di questa chiesa, la quale appare interrata, come tutta l’area del Foro, a causa delle secolari inondazioni del Tevere –non dimenticando la stratificazione derivante dalla plurisecolare attività umana-, le quali con i residui di rocce, di pietre e di fango indurito hanno innalzato il terreno, coprendo in gran parte le vetuste rovine. Il progetto è affidato a Giacomo Della Porta, alla cui morte (1602) succede, come direttore dei lavori, Orazio Torriani che ridisegna l’impianto architettonico dell’interno -nonché dell’altare maggiore- e la facciata. Egli innalza di sei metri circa il livello della costruzione e completa il primo ordine del prospetto poco avanti al 1616; il secondo ordine e il frontone vengono ripresi e terminati- con marginali modifiche del disegno originario- da Matteo Sassi tra il 1721 e il 1726. La figura planimetrica del nuovo luogo di culto (navata unica con cappelle laterali) percorre l’intera larghezza della cella del tempio romano, mentre la lunghezza, ristretta posteriormente dai vani restanti dell’ospedale del ‘400, non occupa per intero il perimetro della cella stessa ma incorpora le prime colonne del pronao templare, prostendendo lo spazio interno verso il Foro. L’aspetto nell’insieme, però, risulta molto simile a quello dell’edificio romano –come dimostra la mancanza dell’abside- giacché i lavori del XVII secolo non ne mutano la struttura complessiva.
 
L’insieme della facciata ne mostra l’ardita creazione, comprendente le lesene con capitelli ionici, il portale con timpano arcuato e la finestra creata sotto il superiore grande timpano curvilineo spezzato. Poiché tale prospetto è posto dietro alle colonne frontali, quest’ultime in tal modo sono trasformate in un portico.
 
 
 

Immagine tratta da "Google Immagini"


 
 
 
 
 
L’interno della chiesa rappresenta un raccolto e pregevole patrimonio pittorico, come palesano le opere ivi esposte, tra le quali cito “S. Caterina da Siena bacia il costato di Cristo”, attribuita a Francesco Vanni (1563–1610) ma da alcuni studiosi ascritto a Giovanni de’ Vecchi (1536-1615) di cui il Vanni è stato allievo. Ho incluso la descrizione, di tale quadro, nel post (pubblicato il primo dicembre 2014) di commento alla mostra “I Papi della Speranza”, poiché compreso in quell’evento.
 
Ora voglio soffermarmi sul dipinto della “Annunciazione”, bellissima pala d’altare, di Alessandro Fortuna (1596, circa-1623), allievo di Domenico Zampieri, detto il Domenichino (1581-1641). Giovanni Battista Passeri (1610, circa-1679), altro seguace dello Zampieri nonché autore di “Vite dei pittori, scultori e architetti che hanno lavorato in Roma, morti dal 1641 al 1673” (pubblicate postume nel 1772), indica con sicurezza quale autore di tale opera il Fortuna; al contrario studi moderni affermano che essa è stata eseguita, con stupefacente abilità tecnica, inconfutabilmente dal Fortuna però su disegni del suo maestro, rilevandone la strettissima dipendenza dal Domenichino.
 
A tutt’oggi questo lavoro (databile intorno al 1620) costituisce l’unico generalmente noto del giovane artista. Invero, la cifra domenichiana vi è del tutto espressa nel vivo ricordo della statuaria antica però con sistema privo di freddezza e di accademico ricalco. Il fondo, scuro, è dischiuso da una calda tonalità paesaggistica scevra da qualsiasi accenno lezioso; la resa dell’atmosfera, sebbene contenuta in un riquadro, palesa graduale e calcolata modulazione dei colori verso la montagna, azzurra, con un gioco di progressive esili velature. La beltà dell’arcangelo Gabriele viene accentuata dal candore dell’incarnato esuberante, dai capelli biondi e dai riccioli, genuina ricerca di effetti preziosi esaltati anche dallo splendore delle forme, dei colori. La saldezza plastica, la purezza dei lineamenti, la cura dei dettagli rimanda a sculture ellenistiche e la sacralità della scena non si dissolve in immagini forzatamente eteree, ostentatamente spirituali, permanendo invece nell’alveo di una soave melodia terrena. Il disegno rende tangibile la propria fulgente accuratezza in morbide cromatiche luci, in un insieme di spessa classicità, avulsa dalla pur splendida magniloquenza barocca in auge nel XVII secolo. I due personaggi, la Vergine -ritratta con esemplare chiarezza e notevolissima disserrata sensibilità plastica- e Gabriele, sono raffigurati in leggeri piani “diagonali”, ritmicamente articolati; una composta sorpresa permea il viso di Maria –reale giovinetta- il cui gesto delle braccia, delle mani -così aperte- è voce della sua consacrazione. I putti dipinti sono tra gli elementi “graziosi” tipici dello stile del Domenichino: tramite essi l’azione scenica, benchè densa di sostanza spirituale, si alleggerisce pur in quel discendere dello Spirito Santo, folto di modulato bagliore.     
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
 

 
 

 


venerdì 13 febbraio 2015

Le tele “romane” del Guercino esposte nella mostra “da Guercino a Caravaggio”, Palazzo Barberini

 
 

 
Domenica 15 febbraio terminerà la rassegna –prorogata di una settimana- che celebra un aspetto del Barocco, attraverso l’opera del britannico Denis Mahon, famoso storico dell’arte nonché collezionista. Egli studia, per oltre settant’anni, il suo artista prediletto: Govanni Francesco Barbieri, detto il Guercino (1591-1666). Acceso sostenitore della stagione barocca e della pittura italiana del Seicento, s'interessa intensamente pure di altri autori tra i quali Caravaggio, Annibale e Ludovico Caracci, Nicolas Poussin, quest'ultimo affermatosi nell'ambiente artistico romano.

Questo post deriva da un mio studio sul Casino “dell’Aurora” Boncompagni Ludovisi, ove al suo interno si apre la Sala dell'Aurora, nella quale risalta il celebre affresco a tempera del Guercino (con la collaborazione di Agostino Tassi), raffigurante “Aurora che avanza su un carro spargendo fiori”, testimonianza della sua felice deflagrazione luministica pittorica. Anche l’esperienza romana (1621-1623) del Barbieri, nato a Cento -nel ferrarese-, esprime la pittura degli affetti –che non scade in un accademico sentimentalismo-, con la quale il nitore delle scene o il “lume” dei personaggi ha fondamento nella suprema idea di bellezza. La sua entità artistica è magnificata dall’enfasi della sostanza pittorica, materia avvertita come colma di luce, viva nella propria morbida espressività, in un costante contrapporsi di toni caldi-freddi come lo è “il sentire” che scorre nell’esistenza umana, reso con cifra piena di effetti.
 
A Roma sono conservati alcuni suoi lavori considerati “della maturità artistica” -raffrontatasi con l’ambiente culturale che caratterizza la Città-, in cui culminano quella mobilità del “verso atmosferico”, quella sorta d’impeto che traduce il respiro del sentimento, affiorando, in alcuni dipinti, un naturalismo non disgiunto da un’idealizzazione vibrante di alcune figure. Il suo particolare “macchiato” quasi palpitante, inoltre, vuole aggiungere alla “tessitura” delle opere create –così negli intenti- toni di suggestiva liricità.
 
Le quattro tele prescelte per la descrizione, provenienti da sedi museali romane, sostanziano in buona parte la particolarità stilistica del pittore di Cento.

 
Et in Arcadia Ego
Immagine tratta da "Google Immagini"

Questo dipinto (olio su tela), custodito presso la Galleria Nazionale di Arte Antica in Palazzo Barberini, è stato eseguito intorno al 1618. Espressione particolare del tema “vanitas”, di distintivo contenuto metaforico e d’immediata crudezza, introduce l’osservatore nell’ineluttabile caducità della condizione umana. La peculiare genesi di questo lavoro, come rilevato da Mahon, ha inizio con l’elaborazione de “Lo scorticamento di Marsia”, opera commissionata da Cosimo II de’Medici, Granduca di Toscana (Galleria Palatina, Palazzo Pitti, Firenze). Alla drammatica azione dei soggetti principali là raffigurati, il dio Apollo e il satiro Marsia, vi assistono in piano secondario due altri personaggi, due pastori completamente sovrapponibili ai due che appaiono nel quadro conservato a Roma. Plausibile si dimostra, quindi, la tesi enunciata da Mahon stesso, secondo il quale, tale dipinto, ha avuto una prima natura di studio delle due figure di corredo, mutato in un secondo momento, dal Guercino, in una creazione autonoma per mezzo della presenza del teschio e del motto, elementi questi ultimi che sembrano commentare e confermare, come è stato argomentato da studi, la convinta idea espressa dalla tela di Firenze, la quale fissando l’istante immediatamente precedente all’inizio del terribile supplizio, inflitto a Marsia, esplica il concetto dell’inesorabile perdita dell’idillica atmosfera arcadica.
 
Il teschio non è presentato quale “accessorio”, levigato e lucido come se fosse un avorio, dal quale nascono o per il quale si raccolgono meditazioni spirituali o riflessioni filosofiche, argomento così abituale in molti quadri da convertire, il complesso delle ossa della testa, in una sorta di singolare fermacarte. Infatti, in questo caso, il cranio, disegnato bene in vista, rivolgendosi verso lo spettatore con riso macabro e beffardo, trattiene in sé un mestissimo lembo di vita, la cui carne non sembra completamente “disgregata”. In sostanza, rappresenta il sopravvenuto sfasciume del corpo umano assoggettato alla morte, che con il suo miasma attrae vermi, topi, mosconi e così via. Di tale fine mortale l’autore ne pronuncia il gesto sottolineato da quel “macchiato”, quasi che intenda disinteressarsi della compiutezza della forma paesaggistica a favore di un immediato effetto, che pone in rilievo uno sfuggente onirico ambiente, nel quale i profili dei due pastori, invece, sono pienamente raffigurati, mostrando una diversa posa. Invero, uno è sorpreso da quella spettrale scena, l’altro, al contrario, appare preso da profonda mestizia, la quale supera sia il dolore per la perdita, inevitabile, della bellezza terrena e sia lo smarrimento che incute, sull’animo, quella meta finale comune a tutti i viventi –la morte-, come dimostra l’atteggiamento, pensoso e rassegnato, del volto.
 
L’iscrizione incisa sul lato visibile della pietra, su cui posa il teschio, ha spessa valenza “traslata” declamando: “ET IN ARCADIA EGO”. Frase, per come può apparire, dalla struttura ellittica, vale a dire mancante di una parola, che permane sottintesa e identificabile con “sum” (essere, stare, abitare), mentre “et” sembra condurre a “etiam” (anche). Ma il termine omesso potrebbe altresì essere, secondo alcuni, “eram” (ero), coniugazione del verbo essere nell’imperfetto indicativo della prima persona singolare; da queste fondate presupposizioni ne deriva l’interpretazione: “Anch’io sono (o ero) in Arcadia” oppure “Io sono (o ero) anche in Arcadia”. E’ la Morte stessa che dichiara e rammenta, all’umanità, la sua presenza pur nei luoghi più sereni e privi di ansie, esteriormente sospesi in uno spazio temporale di somma –ma temporalmente limitata- felicità.
 
Nell’Arcadia, antica regione storica della Grecia meridionale, sita nel Peloponneso centrale, abitata da pastori, ha origine il culto del dio Pan, divinità delle montagne nonché della vita agreste, spesso associato a Dioniso, accompagnato in molte occasioni dalle ninfe montane. Egli è il protettore degli armenti; molto ama la musica e la danza, le zone boschive e le fresche sorgenti. In origine è effigiato con aspetto spaventosamente ferino, in seguito, però, i suoi caratteri belluini si affievoliscono sino ad assumere un’aria decisamente bonaria. Questo territorio diventa, nei racconti mitologici, idilliaco permettendo ai suoi abitanti –comprese le figure mitiche- di vivere in un’atmosfera incantata, pregna di poesia, lontano dalle tribolazioni degli “altri” uomini. Alla fine del XV secolo la regione è evocata da Jacopo Sannazzaro, che descrive feste e riti pastorali, in una visione che vagheggia una vita altra e, successivamente, l’Arcadia ha ispirato una densa produzione pittorica –e non solo- la quale canta un’utopica età aurea.
 
In questa aulica cornice s’inserisce il quadro “Et in Arcadia Ego” del Guercino -in palese polemica con quell’incantato paesaggio classicista-, autentico “memento mori” già praticato nella pittura ispirata dai e ai canoni della Controriforma in ambientazioni di nature morte. Il tema è ripreso in seguito dal Poussin.
 
 
 
Incredulità di S. Tommaso
 
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Quest’olio su tela, proveniente dalla Pinacoteca dei Musei Vaticani, è stato realizzato intorno al 1621. Ciò che immediatamente si rivela è il movimento delle mani che svelano, che toccano, erompendo da quelle tenebre, vere coltri in cui è impossibile vedere, conoscere, credere. Sono proprio i personaggi fasciati da quelle ombre, le quali si ritirano innanzi al lucente chiaroscuro del Cristo -antinomia avverabile-, magistrale linguaggio dei gesti, che simultaneamente definiscono l’opera quale uno dei vertici dell’artista.
 
Lo scettico S. Tommaso è raffigurato nel momento in cui avanza la sua contrizione, per il suo umanissimo dubbio, evidenziata dalla mano sinistra portata al petto. La scena è colma di figure, di fremente fisicità e di palpiti, sviluppata in un’unica ombrata sostanza di movimenti e di panneggi, che risente del linguaggio del Caravaggio.
 
 
 
Ritratto del Cardinale Bernardino Spada
 
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Dipinto conservato presso la Galleria Spada, eseguito a Bologna nel 1631 -quando il Guercino è ospitato dal Cardinale-, composto in un taglio orizzontale, lievemente “obliquo”, che mostra una pianta geometrica a forma di stella a otto punte, la quale allude al progetto della fortezza urbana nei pressi di Castelfranco Emilia, di cui lo Spada quale legato pontificio ne dirige e ne controlla le fasi costruttive, voluta da papa Urbano VIII per difendere il confine nord-ovest dello Stato pontificio, a cui Bologna appartiene.
 
Ritratto commemorativo nel quale il personaggio è raffigurato a distanza ravvicinata, in un contesto indubbiamente ossequioso ma che comunica all’osservatore un senso di compiaciuta affabilità, scandita da quella espressione morbidamente accesa, intensificata dalle sue pupille scure. Questa sembianza quasi intima è accentuata dal fondo buio, con il quale ogni insegna o evocazione della sua preminente dignità ecclesiastica e politica viene rimossa, pur estrinsecandone con leggerezza la padronanza delle facoltà del porporato.
 
 
 
Sibilla Persica
 
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Dipinto appartenente alla Pinacoteca dei Musei Capitolini, composta nel 1647, caratterizzata da una posa meditativa -che lambisce la malinconia-, della giovane donna, Sibilla Persica” -storicamente la veggente è identificata con quella Caldaica-, la cui testa appoggiata sulla mano sinistra coincide con il realistico disegno del volto, che il ricercato cromatismo delle vesti pone in rilievo con raffinato contrasto. L’insieme pittorico pare reiterare un attimo sospeso, nel quale la “Sibilla” è colta quando sembra distaccarsi dal proprio personaggio, tratteggiando una interruzione scenica che ne svela i caratteri più incisivi, più riposti. La giovane si rivolge a un’intima platea, a un pubblico ideale, al quale offre il suo profondo stato psicologico ed emotivo, manifestando un concetto dialettico ed esplicativo dell’arte pittorica.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 









 


 


 
 

 



 

 

 



venerdì 6 febbraio 2015

Handel nello splendido vivore artistico di Roma


Alla fine dell’estate del 1706 il ventunenne Georg Friedrich Handel intraprende l’indispensabile viaggio “formativo” in Italia, paese artisticamente poliedrico e ricchissimo poiché costituito da piccoli stati, autonomi l’uno dall’altro, molto spesso in competizione tra loro, ognuno con una diversificata e raffinata identità.
 
Handel giunge a Roma nei primi giorni di gennaio del 1707, città che ne investe l’animo del per la sua vita artistica, per lo sfavillio dei “convegni” dell’aristocrazia, per la presenzialità di grandi mecenati amanti delle “belle arti”, per i sorprendenti allestimenti scenici creati per le aristocratiche feste. La “Città Eterna” appare, agli occhi di un così acuto visitatore, come un vastissimo teatro all’aria aperta, nel quale in ogni istante sorge un evento musicale, tra le spettacolari realizzazioni architettoniche barocche e le nuove controllate espressioni arcadiche. Nelle grandi chiese romane egli incontra la fantasia pulsante dei colori degli ornamenti, un’orchestrazione vibrante di pitture e di sculture.
 
Il quattordici gennaio di quell’anno, il giovane musicista, esegue cinque sue composizioni, suonando l’organo monumentale costruito da Luca Blasi (1598, circa) per il Giubileo del 1600, che si stende sopra il portale, del transetto destro, della Basilica di S. Giovanni in Laterano. In questa prima “occasione pubblica romana” mette in mostra la sua personale ricercatezza armonica unitamente a temi propri di Arcangelo Corelli. Questa esibizione molto impressiona i presenti come attesta un passo, scritto nel medesimo giorno, del Diario di Roma di Francesco Valesio:”E’ giunto in questa città un Sassone eccellente suonatore di cembalo e compositore di musica, il quale oggi ha fatto gran pompa della sua virtù in sonare l’organo della Chiesa di S. Giovanni con stupore di tutti”.
 
Il clamore suscitato da tale avvenimento raggiunge alcuni grandi mecenati dell’ambiente aristocratico –culturale della Città, tra cui il marchese Francesco Maria Ruspoli per il quale, Handel, compone l’oratorio “La Resurrezione”, messa in scena (primavera 1708) nel palazzo, oggi Valentini, abitato dal nobile (1705-1713), che vi dà residenza al suo teatro privato, ospitando oltre al giovane compositore altresì Alessandro Scarlatti e Arcangelo Corelli. E’ un ambiente testimone del grande sfarzo imperante nella Roma del tempo; infatti, per questo evento nel salone principale, sito al piano terreno dell’edificio, è allestito un “Teatro à scalinata”, formato da quattro ordini di posti per i musicisti. Dal soffitto pende un grande tendaggio decorato sul quale è riportato il titolo dell’oratorio con lettere ritagliate e sostituite con carta trasparente, posteriormente illuminate da settanta lucerne. Tutt’intorno è rappresentato un florilegio d’intarsi d’oro e d’argento, di splendidi fregi di velluto, di tessuti di seta, di rosette con merletti e così via; la decorazione dipinta sulla tela di fondo della scena, che raffigura i personaggi dell’oratorio, è alta quattro metri per lato ed è realizzata da Michelangelo Cerruti detto anche il Candelottaro -artista in quel momento al servizio del Ruspoli-, così come le scenografie e gli apparati della rappresentazione. Infine, un’orchestra di circa cinquanta elementi, per quei tempi considerata immensa, è condotta dal famosissimo Corelli. La parte della Maddalena è data all’eccellente presenza vocale e scenica di Margherita Durastanti, per la quale, secondo alcune fonti, Handel nutre amore. Ma la partecipazione di una donna, soprattutto in un’opera di soggetto sacro, suscita l’ammonimento del pontefice Clemente XI, cosicché alla successiva messa in atto la cantante viene sostituita da un evirato. Questo fatto non impedisce, però, alla virtuosa cantante di essere ancora al servizio del Ruspoli e invero si esibisce in una serenata di Antonio Caldara –altro acclamato autore-, durante una grande festa voluta dal suo aristocratico “datore di lavoro”(estate 1709), alla presenza di alcuni cardinali tra cui Pietro Ottoboni ! 
 
L’illustre violinista e compositore emiliano, Corelli, guida ancora un’orchestra -questa volta quella privata del cardinale Benedetto Pamphilij-, impegnata a eseguire un altro oratorio hendeliano, “Il trionfo del tempo e della verità”.  Egli è personaggio colto e raffinato, indomabile collezionista di libri e di manoscritti, raccolti in un ampio spazio del "palazzo di famiglia" situato nell’attuale Via del Corso, la “libraria”, luogo destinato agli incontri che, il Pamphilij, settimanalmente intrattiene con letterati, musicisti ed eruditi per “fare accademia”. Celebri sono le sue fastose messe in scena, alle quali partecipano i maggiori “musici” del tempo, realizzate anche presso “l’orto” fuori Porta Pia o nella Villa prossima a S. Pancrazio. Principalmente, come ovvio, le rappresentazioni si svolgono nel  palazzo al Corso, fra le quali impressiona quella eseguita per l’inaugurazione del teatro privato, che vede come autore della cornice scenica l’architetto Carlo Fontana e tra gli illustri spettatori Cristina di Svezia. Quale dotto letterato nonché musicista dilettante, il “padrone di casa” è membro dell’Arcadia con il nome di “Fenicio Larisseo”; parimenti la sua notorietà, nell’ambiente romano, nasce dal suo largo poetare, dalle sue commedie anche satiriche. Oltre a ciò è un ottimo librettista di oratori e di cantate, i cui testi sono musicati da grandi compositori e infatti Il trionfo del tempo e della verità”, sua opera di maggior eco, è messa in musica proprio da Handel.  
 
Lo svolgimento di questo oratorio comprende l’autore della musica al clavicembalo e Corelli al (primo) violino, che pure conduce l’orchestra. Un curioso aneddoto, tramandatoci dalla biografia di Handel scritta con toni celebrativi da John Mainwaring e pubblicata una prima volta nel 1760, sembrerebbe legato a questa opera, che esalta l’insorgere del nuovo stile handeliano e, nel contempo, mostra un’insolita capacità del giovane talentuoso di suonare lo strumento ad arco, tanto da permettergli di “affrontare” il grande maestro italiano -di cui ne ha altresì assimilato il modo musicale- tratteggiando la differenza di effetti e di tecnica tra il gusto classicheggiante del compositore emiliano e il proprio, ritmicamente più dinamico, più marcato, di tale veemente intensità, soprattutto in questo suo periodo iniziale, il quale non può congiungersi con le dolci grazie e le pacate finezze dell’altro genio –Corelli- così dissimile, tanto che, quest'ultimo, non riesce a eseguire con pienezza i vivacissimi passaggi dell’ouverture. Handel, perciò, stizzito a causa della timidezza corelliana, quasi strappando il violino dalle mani del musicista italiano, prendendo con foga lo strumento ne fa uscire fuori un suono di grande forza per mostrare, all’altro, la giusta interpretazione esecutiva. Pur nella sua grandezza, il compositore emiliano, è “persona di indole modestissima e mite” tale da esprimere, con calma schiettezza, di non comprendere l’andamento energico di quella apertura oratoriale, esclamando: ”Ma, caro Sassone, questa musica è nel stilo francese, di ch’io non m’intendo”. Su richiesta del famoso violinista, quindi, Handel la sostituisce con una sinfonia –introduzione strumentale dell’opera- di stile italiano.
 
La circostanza che accompagna il “Sassone” in quel particolare fervente momento artistico, che agita gli spazi romani, di cui Corelli permane  la figura principe della forma sonata a tre –composizione strumentale per due violini e basso-, confermandosi uno dei giganti della musica occidentale, gli permette di aderire al gusto italiano con grande e solida capacità, che la sua arditezza armonica esplicita.
 
A Roma un’altra attivissima personalità riveste un ruolo chiave nell’ambito culturale: il cardinale, già menzionato, Pietro Ottoboni. Mecenate, letterato, anch’egli collezionista di libri e di manoscritti; commissiona opere d’arte, sostenendo forti spese altresì per spettacoli teatrali e concerti, restauri, allestimenti effimeri affidati a rinomati artisti, banchetti. La sua residenza presso il Palazzo della Cancelleria assume l’aspetto di piccola ma suntuosa corte, nella quale si muovono eruditi personaggi, pittori, decoratori, architetti. Fonda l’Accademia dei Disuniti, detta in seguito “Ottoboniana”e prende parte alle attività di altre simili, le quali perseguono lo scopo di promuovere le arti, le lettere, le scienze, come si adoperano quelle degli Infecondi e dell’Arcadia, cui nell’aderire a questa prende il nome di Crateo Ericinio Pastore. Egli vagheggia, attraverso tali nobili attività, la formazione di un homo novus, che sia contemporaneamente artista, letterato pur calato nella mondanità per mezzo di discipline quali il ballo, l’equitazione, la scherma ma lontano da ogni diverso intrattenimento considerato, pertanto, inutile o spregevole. Tra i suoi interessi la musica ne è uno dei più vasti –crea drammi e oratori- e difatti si circonda di compositori –che musicano le sue opere- nonché di strumentisti di primissimo piano, tra i quali, ovviamente, Alessandro Scarlatti e Arcangelo Corelli, oltre a celebri cantanti come Andrea Adami da Bolsena. Possiede, inoltre, molti preziosissimi strumenti tra cui sedici clavicembali e un grande organo da camera. Per elargire ancora più lustro attraverso questa sua passione, il porporato assume Filippo Juvarra con l'incarico di architetto e di scenografo teatrale, volendo erigere uno spazio di rappresentanza attrezzato per allestimenti musicali e scenici, che diviene una fucina artistica.
 
Il teatro appena inaugurato (primavera 1709) –oggi non più esistente- è il luogo di una “musical tenzone” tra Handel e Domenico Scarlatti, due giovani musicisti che si sfidano prima al clavicembalo, uguagliando il loro creativo virtuosismo -vere prodezze d’improvvisazione-, poi all’organo, cui l’esibizione del “Sassone” però stabilisce l’incontestabile sua superiorità, riconosciuta dal medesimo Scarlatti, il quale esclama di aver scoperto, dopo aver udito il suo “antagonista”, le enormi possibilità sonore insite in tale strumento. Dal singolare confronto emerge la diversità dei rispettivi tratti stilistici: quello scarlattiano è basato su una brillante eleganza e sulla delicatezza espressiva, mentre quello handeliano palesa una vivacità, un’energica pienezza, caratteristiche che contraddistinguono le sue composizioni (“non solo” oratori, anche cantate sacre, mottetti, salmi) scritte durante la sua permanenza romana (1707-1709). La disputa però non divide i due protagonisti, tra i quali sorge, al contrario, una reciproca ammirazione.

Verso la fine del febbraio 1710, a venticinque anni, Handel lascia l’Italia, avendovi soggiornato dal 1706 toccando pure Firenze, Napoli e Venezia (ultima meta del suo soggiorno); negli anni futuri vi ritorna soltanto per brevi periodi: la sua formazione si è conclusa. La musica che crea comprende, dunque, molti elementi italianizzanti, derivati da quel lavoro di raffinamento compositivo –cui la “fase” romana è determinante- dato dallo studio dei testi classici italici. Invero, la sua produzione complessiva include quarantadue opere italiane, incentrate, per lo più, su temi della storia antica e dell’affermato repertorio eroico di ascendenza ariostesca o ispirato all’epica del Tasso. Inoltre, crea un discreto numero di cantate e altri lavori musicali d’inconfondibile impronta italiana, sebbene molto elaborati coerentemente alla sostanziale unità del suo moto espressivo.      


Immagine tratta da "Google Immagini": lo sfarzoso organo Blasi, Basilica di S. Giovanni in Laterano


 





 
Immagine tratta da "Google Immagini": Palazzo Bonelli-Valentini in un'incisione della metà del XVIII sec.







 
Targa marmorea commemorativa posta nel vano d'ingresso di Palazzo Bonelli-Valentini

 
Immagine tratta da "Google Immagini": Palazzo della Cancelleria in un' incisione della metà del XVIII sec.