Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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domenica 5 aprile 2015

Il brano affrescato dei “Sensi dell’Uomo” dell’Abbazia delle Tre Fontane

 
 

L’antico Monastero delle Tre Fontane (il Complesso delle Tre Fontane “ad Aquas Salvias” è oggetto di un mio studio) sorge nella zona in cui è avvenuto, secondo la tradizione, il martirio di S. Paolo; in origine (VII secolo) è retto da monaci provenienti dalla Cilicia, attuale regione dell’Anatolia, compresa in gran parte nell’odierna Turchia, con propaggini in Armenia. Dal 1081, circa, è officiato dai Benedettini di S. Paolo fuori le Mura, divenendo una delle proprietà di quell'Abbazia ostiense, sino al 1139, circa, quando l‘area conventuale è affidata ai Cistercensi. In questo periodo si restaura ampiamente l’edificio sino a ricostruirne estese sezioni, permettendo la consacrazione della Chiesa abbaziale, SS. Vincenzo e Anastasio, soltanto nel 1221, mentre il Monastero è completato nel 1306, con la fine dei lavori riguardanti il Chiostro e la Sala capitolare. In tal epoca ha inizio la sua fase di maggior fulgore, come testimoniano gli affreschi in esso eseguiti.
 
Già alla fine del XIV secolo inizia un lungo arco temporale di decadenza, di depauperamento, sino alla seconda metà del XVI secolo, allorché si pongono in atto importanti lavori edilizi, terminati nei primi anni del XVII secolo, con i quali si compie la ricostruzione della Chiesa di S. Maria in Ara Coeli e della Chiesa di S. Paolo, il restauro della Chiesa abbaziale e degli edifici monastici. Il prestigio del Monastero così recuperato, pur con parentesi non propriamente felici, appare rilevante sino alla nascita della Repubblica Romana e l’occupazione della “Città Eterna” attuate dalle truppe napoleoniche (1798-1799). Da questo momento inizia un rapido declino del Complesso monastico, culminato nel 1809 -a seguito della seconda discesa in Italia di Napoleone (1808)-, durante il quale è spogliato di tutti i suoi averi, compresi i pregiati arredi e i preziosi codici; inoltre, a causa della soppressione degli ordini religiosi, i monaci sono costretti ad abbandonare questi luoghi, che restano in desolato stato finché nel 1826, Leone XII (1823-1829), ne affida i locali, parzialmente restaurati, ai Francescani, Frati Minori Conventuali. In realtà le “vacillanti” condizioni degli edifici e l’insalubrità della zona, consentono soltanto una riapertura parziale del Complesso, tanto che la sera viene chiuso e lasciato dai religiosi. Questa triste condizione si protrae fino al 1868, anno in cui Pio IX (1846-1878), con la Bolla del 21 aprile, dona l’Abazia alla laboriosa comunità dei monaci Cistercensi della Stretta Osservanza, costituita da un primo nucleo di quattordici Trappisti. Si avvia, di conseguenza, il recupero dei fabbricati e la bonifica integrale del territorio, terminata, con successo, nel 1904.
 
Ritornando indietro nello svolgersi dei secoli, affacciamo il nostro sguardo sul colmo rigoglio che impregna, tutto quest'ambiente, tra la seconda metà del XIII e la prima metà del XIV secolo, favorito, soprattutto, da un insieme di concessioni pontificie le quali attribuiscono al Monastero dei consistenti privilegi.
 
In questa precisa scena appartengono gli affreschi, che ornano alcune parti dell’Abbazia, del Convento e della Sacrestia. Tali pitture murali, come oggi sono osservabili, sembrano appartenere, in gran parte, a un medesimo artista e di una sua probabile bottega, ovvero a un ristretto numero di pittori di simile cifra stilistica, i cui temi danno spazio a una suddivisione concettuale:
  • due figure, decisamente stinte, di Santi sui pilastri laterali del portico della Chiesa abbaziale (frammenti di un ricchissimo impianto decorativo); a destra, guardando la facciata della Chiesa medesima, è identificabile, per la scritta superstite “SANCTUS IACOBUS”, uno dei due Apostoli di Gesù dal nome Giacomo –ma non quale-; a sinistra s'individua S. Leonardo di Limoges (eremita del VI secolo), riconoscibile dalle catene, segno della sua particolare protezione, attribuitagli nell’epoca medioevale, verso i carcerati incolpevoli, i cavalieri e i “combattenti” caduti prigionieri;
  • due lunette situate nella Sacrestia ove si nota il soggetto “Nascita di Gesù” e quello della “Incoronazione della Vergine”;
  • le volte a crociera, della Sala capitolare, decorate con stelle bianche –luce spirituale prevalente sulla tenebra, secondo alcuni pensieri medievali- su un fondo ocra -lo stesso motivo orna quelle del corridoio che conduce ai campi-, sotto cui, all’epoca, sono dipinti acanti fioriti (per i suoi aculei indica il perfetto svolgimento di un arduo compito), palme (la vittoria spirituale), pavoni (“icone” della contemplazione e della vigilanza spirituale);
  • due pannelli, nell’Aula chiostrale, effigianti S. Onofrio nudo, ricoperto dai soli capelli (dalla tradizione ascritto alla santità quale anacoreta del V secolo); S. Margherita (o Marina) di Antiochia (martire del III secolo, secondo la devozione) e un fedele;
  • nove pannelli, in origine esterni all’edificio conventuale, ritornati alla luce nel 1965, appartenenti al ciclo detto della “Vita Umana”, riquadri imperniati sul tema delle attività umane ma segnatamente sul percorso terreno dell’anima. Attualmente sono conservati, in modo non adeguato a un vero godimento di questi beni della cultura, nella cosiddetta Sala museale (visitabile); infatti, ad oggi, questo spazio ospita altresì il negozio monastico, ove si svolge la vendita diretta dei prodotti trappisti. E´auspicabile che, a breve, siano individuati dei vani adatti ad accogliere le sole diverse testimonianze archeologiche e artistiche, comprese nel “patrimonio culturale” abbaziale.
L’ambiente della Sala museale, dunque, si apre al piano terreno dell’antica Foresteria, affacciata sul giardino; ancora oggi, al piano superiore, i monaci vi ospitano coloro che vogliono sostare, in questo sito, per ritemprare lo spirito. I riquadri -incorniciati da disegni di archi ogivali convessi- incentrati sul tema dell’esistenza umana, non sono collocati in base alla loro originaria disposizione, che li descriveva parti di un fregio continuo, alto quasi tre metri e lungo circa tredici metri. Oggi si susseguono: il “Lavoro dei Progenitori”, l‘immagine “Unicorno”, la “Prova degli aquilotti”, il “Pescatore”, i “Sensi dell’Uomo”, le “Sette età dell’uomo”, la “Raccolta della frutta”, il “Putto vicino alla gabbia” e le “Due gabbie”.
 
La raffigurazione che esprime i “Sensi dell’Uomo” trae la sua fonte dall’articolato pensiero di Tommaso di Cantimpré (1201-1271, circa), domenicano allievo di Alberto Magno. Egli scrive diverse vite di santi, rappresentando una figura di rilievo nell’ambito della biografia mistica; è anche autore del  trattato, “Bonum universale de apibus”, ove tratteggia un’ideale esistenza cristiana interpretata attraverso la vita delle api. Studioso erudito è, perciò, anche attento naturalista come conferma il suo corposo trattato “De natura rerum”, considerato uno dei testi enciclopedici notevoli del Medioevo, cui diversi altri dotti personaggi fanno riferimento, nell’elaborare scritti del medesimo argomento. Molti brani dell’opera frequentemente diventano temi iconografici, come in questo caso.
 
In una sorta di rosone –il cerchio centro onnipresente divino simboleggiante la perfezione e l’intangibilità, piana racchiusa priva d’inizio e di fine- contenente in sé sette cerchi, di cui sei nei quali sono sistemati altrettanti animali, intorno a quello, centrale, dove campeggia un giovane uomo. Per interpretare il significato “semantico” delle figure zoomorfe, dobbiamo introdurci nei concetti del “Fisiologo”, opera letteraria del II secolo, a noi giunta attraverso diverse redazioni di vari libri di scienze naturali, sulla base di uno scritto originario di Alessandria, nel quale s’interpreta la natura di animali, sia reali sia fantastici, cui sono attribuite qualità straordinarie e fantasiose, al fine di illustrare insegnamenti biblici-cristiani; una vasta eco esso suscita nel Medioevo, influenzandone fortemente la simbologia, come evidenziano i “Bestiari”. Questi formano una letteratura sapienziale, che interpreta la natura in senso simbolico, giacché essa cela profonde verità, impresse da Dio nella Sua creazione; la sostanza interpretativa sgorga da principi definiti dalla cultura classica, variandone il significato e spesso ampliandone la capacità ai fini di una lettura, “esegesi” cristiana. Il loro influsso, consapevole, sulla produzione artistica genera densi repertori di soggetti, che codificano la pittura e la scultura.
 
Nel verso dell’accento simbolico, la cognizione intellettuale di questo periodo, consegna al sottile discernimento la visibilità della dimensione “altra”, che permea tutta la società, sino a interessare l’incolto. L’arte –non solo nel corso del Medioevo- scopre nell’intima profondità umana l’inestinguibile necessità di evocare l’immagine e più oltre il simbolo; compie tale atto evidenziando, lungo il corso della storia, tenaci permanenze concettuali nonché affinità non ipotizzabili, le quali si propongono quindi nel tempo e nello spazio. L’uomo esiste quale suprema creatura ed estrinseca, asserisce, sia pure con differenti aspetti, il vincolo divino che comprende in sé l’atto del suo Creatore.
 
Dal già citato “De natura rerum”, l’affresco dei “Sensi dell’Uomo”, ne rielabora in chiave pittorica alcuni principi: ” il cinghiale gli è superiore nell’udito, la lince nella vista, la scimmia nel gusto, l’avvoltoio nell’odorato, il ragno nel tatto”. Il leone –emblema aggiunto- ne rimarca il solido valore, più recondito, della rappresentazione, che formula un’iconografia cristiana. Infatti, il cinghiale –animale forte e “coraggioso”-, talvolta, rappresenta Cristo, forse per la sua etimologia latina, aper, reputata erroneamente collegabile al nome del supposto capostipite degli Ebrei (Eber); la lince, in questo caso, assume il senso della lungimiranza; la scimmia, nell’immaginario cristiano, è la caricatura dell’uomo decaduto; l’avvoltoio, già considerato dal naturalismo romano animale divinatorio, le cui uova sono fecondate dal vento di levante, diviene il simbolo della Vergine. Il “Fisiologo”, a tal proposito, afferma che la femmina, quando è fecondata vola verso l’Oriente per sedere sulla pietra del parto, la quale libera da ogni sofferenza e quindi.” anche tu uomo che sei gravido dello Spirito Santo, prendi la pietra del parto spirituale … e sedendoti su di essa … partorirai lo spirito della salvezza … questa pietra del parto dello Spirito Santo è il Signore Gesù Cristo … cresciuto da una vergine senza il seme dell’uomo”. Il ragno rammenta ogni vana speranza, a causa della sua tela facilmente danneggiabile, come esemplifica il testo biblico (Giobbe, capitolo 8, versetti 13-15): “ Tale la sorte di tutti quegli empi che dimenticano Dio, la speranza dell’empio perirà. La sua baldanza è troncata, la sua fiducia è come una tela di ragno. Egli si appoggia alla sua casa ma essa non regge; vi si aggrappa ma quella non sta salda”.  All’interno di un sistema di simboli perciò è rimarcato il dualismo, la coesistenza di due principi distinti, opposti: “luce” e “oscurità”.
 
Il leone sintetizza completamente questi vivi cardini della realtà umana; invero, nel “Fisiologo tale felino possiede cariche tinte simboliche. Esso, a causa della sua andatura, cancella con la coda le sue tracce: ” così anche Cristo … inviato dal Padre invisibile, ha cancellato le Sue tracce spirituali, cioè la Sua divinità”; dorme a occhi aperti: ” così dorme sulla Croce il mio Signore ma la Sua divinità veglia alla destra di Dio, del Padre” e altre similitudini immaginate. Diversi autori lo associano alla resurrezione del Messia, credendo che quest'animale nasca morto e sia resuscitato, dal soffio del padre, dopo tre giorni. Il riferimento al suo carattere negativo –le forze minacciose e tenebrose- è figurato dal divorare altri animali o uomini, intrappolati nei loro stessi peccati.
 
Questo affresco contiene un’ulteriore “sembianza”, appartenente alla numerologia: il numero sette, che in tale pittura murale deriva dalla somma tra quattro e tre.
 
Nell’uomo, secondo una caratterizzazione metafisica, agiscono tre elementi: il soffio vitale, lo spirito intellettuale e l’anima, quest’ultima essenza divina misteriosa. Quando la ragione si unisce all’anima, attraverso la sapienza illuminante dell’essenza divina, colta attraverso l’esperienza spirituale, ambedue formano un elemento che riluce riflettendo il bagliore di Dio; in tal modo l’uomo è trasformato in tempio, terrestre, dello Spirito e i sensi così dominati vengono rischiarati; questa identità è raffigurata, nel “nostro” riquadro, dal giovane umano, allegoria del pieno governo sensuale.
 
Il numero quattro plasma l’emblema del moto e dell’infinito, comprendendo sia il principio corporeo -il sensibile-, sia quello incorporeo, perché esso esplicita il costante e naturale rapporto tra l’Uno trascendente e la quaterna –teoria di quattro fattori- della sua manifestazione, rilevata azione nel mondo creato, in cui l’uomo vive portando in sé il principio divino tra gli elementi essenziali - fuoco, aria, acqua, terra- fondamenta dell’ordine del “tutto” creato. È giudicato, quindi, il numero della realtà, della concretezza, delle leggi fisiche, della logica, della ragione, dell’orientamento, concretizzato dai quattro punti cardinali (sud–nord, est-ovest), vale a dire i cardini, i “sostegni” di ogni direzione, oltre a cadenzare il ritmo basilare del ciclo della natura: il succedersi delle stagioni.  Il quattro si pone come palesamento di ciò che è concreto, immutabile e permanente nella realtà umana caratterizzata dalla materia, dal percorso terreno esteso dalla nascita alla morte corporale, dalla crescita dal livello spirituale più basso a quello più elevato, ovvero l’ascensione dell’anima al cielo. 
 
SANCTUS IACOBUS, pilastro laterale destro del portico

 
S. Lorenzo di Limoges, pilastro laterale di sinistra del portico


 
Riquadro "Sensi dell'Uomo". Immagine tratta da "Google Immagini"