Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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martedì 18 agosto 2015

Intorno a Iacopo Torriti nella lettura degli affreschi della Basilica di S. Saba


Le arti figurative, tra l’ultimo periodo del XIII secolo e la prima parte del XIV secolo, esprimono una salda rivisitazione del gotico, attraverso maestri che ne elaborano un mutamento della fisionomia e del percorso.
 
Roma, in questa sorta di operoso programma di rinnovamento, mette in scena assidue opere plastiche, le quali dialogano con il fenomeno artistico che si propaga in altri territori. Infatti, nella “Città Eterna”, in questo volgere tra i due secoli, s’individuano alcuni protagonisti di tale stagione come lo sono Giotto di Bondone e Arnolfo di Cambio; essi vi esplicano, secondo quanto suggeriscono le “testimonianze” a noi giunte, il loro estro in imprese di enorme prestigio, che contribuiscono a identificare “l’Urbe” tra i centri maggiormente vitali della cultura del tempo. Artisti cardini del gotico italiano evoluto, appaiono, in questa loro esperienza particolare, “maestri romani”, determinando la difficoltà di interpretare i contatti e i rapporti esistenti con i maggiori rappresentanti definiti impropriamente “locali”, come Pietro Cavallini, pittore di straordinario pregio artistico, che, secondo differenti interpretazioni cronologiche e qualitative, del rinnovamento della pittura italiana, tradotto in atto all’epoca, ne contende la palma a Giotto –la cui centralità del suo linguaggio rimane indiscutibile- seppure in modo sostanzialmente differente, elaborando fondamentali innovazioni nella rappresentazione tridimensionale delle figure e degli spazi.  
 
Un altro eccellente protagonista della “bottega romana” del tempo s’individua in Iacopo Torriti, misterioso -come indica la sua lacunosa biografia- pittore e mosaicista, la cui opera è incentrata su una precisa connotazione, volta a recuperare valori figurativi tardo antichi e paleocristiani con linguaggio bizantineggiante, attenuato, modificato dalla sua sicura individualità, cogliendo eleganti altezze figurative e decorative, inusitate finezze cromatiche. Autore di affreschi, tra cui alcune attribuzioni, nella Basilica superiore di S. Francesco ad Assisi -uno dei fulcri ove si avvia una nuova sintassi pittorica- raffiguranti scene della “Creazione”, delle “Storie della Genesi” e inolre, le immagini del “Cristo”, della “Vergine”, di “S. Giovanni Battista”, di “S. Francesco” (1288-1290, circa). Il Redentore presenta un solido carattere monumentale, congiunto a un saldo aspetto corposo dello strato pittorico, il quale infonde al dipinto un effetto veramente espressivo, effigiando quasi un contrasto con la soavità che irradia il volto della Madonna. Ella è armoniosamente disegnata, in un brillante sgorgare di linee di contorno, nella frequentata posa iconografica romana della “Madonna advocata” -come ad esempio attestano le due immagini conservate rispettivamente nella Basilica di S. Maria in Aracoeli in Campidoglio e in quella di S. Maria in Via Lata- il cui gesto rivela la sua intercessione rivolta verso Dio.
 
La prima opera del Torriti in Roma, efficacemente provata, si mostra nel mosaico absidale della Basilica di S. Giovanni in Laterano –“Croce gemmata pervasa dalla Grazia tra la Vergine, S. Francesco, S. Pietro, S. Paolo, S. Giovanni Battista, S. Antonio di Padova, S. Giovanni Evangelista, S. Andrea e Personaggi”- come dimostra la sua “firma” nell’angolo inferiore sinistro nella calotta dell’abside, leggibile e “interpretabile” come “Iacobus Torriti pictor hoc opus fecit”. L’aspetto più dibattuto in passato riguarda la data, 1292, impressa nel mosaico odierno, molto rielaborato durante il grande intervento di restauro della Chiesa, avvenuto dal 1876 al 1886, nel corso del quale viene abbattuta l’antica costruzione absidale, per edificarne un’altra, collocata posteriormente rispetto alla precedente; l’anno indicato non appare filologicamente coerente, come indagano studi anche recenti proponendo quale data il 1291. L’impresa decorativa, voluta da Niccolò IV (1288-1292) – il quale riedifica parti della Basilica-, vede la presenza, quale collaboratore dell’artista, di fra Iacopo da Camerino, secondo l’iscrizione posta nella fascia musiva dell’emiciclo absidale:”Frater Iacobus de Camerino socius magistri operis recommendat se misericordiae Christie et meritis beati Iohannis”; le notizie sull’opera appaiono quindi compiute ma ciò che si è estinto è proprio il mosaico. Infatti, come in precedenza accennato, la copia eseguita nel XIX secolo durante l’imponente ricostruzione dell’area absidale, pur riproducendo, in apparenza fedelmente, l’impianto iconografico del mosaico torritiano, ne ha alterato l’entità stilistica sino a estinguerla, annullando la reale possibilità di comprendere e di interpretare, in essa, il tratto distintivo del Torriti, obbligando gli studiosi a volgere la propria attenzione sulle relative difficoltà “ermeneutiche” e sui dubbi concernenti gli elementi compositivi, che l’imponente mosaico espone.
 
L’attività di mecenate del pontefice raggiunge il suo vertice nel grandioso rinnovamento della Basilica di S. Maria Maggiore, che comprende l’edificazione del transetto e l’innalzamento di una nuova abside, la quale viene arretra di circa sei metri e mezzo, rispetto a quella antica, di cui si conserva l’arco, che diviene perciò quello trionfale. L’imponente mosaico terminato nel 1296, disteso sulla superficie absidale interna, esprime una considerevole articolazione iconografica, pur mostrando le evidenti “impronte” dei restauri posti in atto durante lo svolgersi dei secoli, che, nel complesso, non ne hanno totalmente compromesso la leggibilità stilistica. L’insieme, di elevatissima qualità, conferma l’opera di un grande maestro, al quale non gli è sconosciuta un’innegabile ricerca spaziale innovativa, risaltando quale struttura compositiva originale per la “scuola romana”. Un sicuro centripeto andamento compenetra tutta la scena, ove tutte le componenti, incluso il colore, fluiscono verso il nucleo, il fondamento intorno a cui si è costituita l’intera rappresentazione, vale a dire la “Incoronazione della Vergine” e le “ Storie della Vergine”. Per la prima volta, con molta probabilità, un’abside di Roma afferma una sorprendente sintassi di superfici volumetriche; l’omogeneità plastica è completamente realizzata, i diversi elementi sono del tutto calibrati nei loro reciproci dialoghi, in un armonioso equilibrio delle forme, prive dunque di qualsiasi incoerenza. La grande efficacia della resa prospettica deriva da un concreto studio delle linee di fuga, da assetti cromatici che intensificano lo stacco del soggetto riprodotto dal fondo. Tutta la composizione riflette, attraverso una superlativa maestria d’arte, la cura volta a sostanziare la realtà visiva, intesa quale forma slegata da ogni prefissata, stagnante idealizzazione, attraverso una precisa consistenza dell’intreccio cromatico e un’esplicita resa di colori ordinati in figure spaziali, attraverso cui sono definite le volumetrie dei corpi. Infatti, il panneggio delle figure del Cristo e della Vergine mostra una densa impostazione di pieghe con accentuate convessità ombrate, che suscitano effetti di scandita pienezza delle forme realizzate; attraverso il fitto chiaroscuro emerge plasticamente e vividamente, dal fondo, l’aspetto dei corpi. Tra le “Scene della Vita di Maria”, tutte caratterizzate dalla tecnica coloristica di questo maestro, che sottolinea la fisicità dei soggetti ritratti, quella della “Natività” intona uno dei momenti qualitativamente eminenti, come rivelano le movenze della Vergine nel prendere il Bambino dalla mangiatoia -o a deporlo nella mangiatoia-, che ne segnano l’eleganza e la naturalezza in una consistente spazialità, punto focale di quanto visivamente espresso. Un breve cenno merita altresì l’episodio della “Adorazione dei Magi”, di salda impaginazione estetica e di “intervalli visivi”, ove i re inginocchiati, avvolti da ariosi panneggi, sono collocati su tre differenti piani di profondità, mentre su un trono architettonicamente preciso vi siede la Vergine mentre il Bambino con incisiva spontaneità, tendendo una mano, tocca il dono offerto da uno dei Magi. 
 
L’ultima realizzazione del Torriti, per la quale si hanno notizie e scritture documentarie nonché disegni, è il pannello musivo che orna il monumento funebre di Bonifacio VIII (1294-1303), addossato alla controfacciata dell’antica Basilica di S. Pietro, eseguito da Arnolfo di Cambio, opera demolita verso la fine del XVI secolo. Lavoro assegnabile probabilmente al 1296, voluta dal papa ancora in vita; in questa circostanza le capacità dei due artisti si confrontano senza reciprocamente influenzarsi, compartecipando con pari dignità alla “stesura” del monumento, firmando la parte di propria di pertinenza (Jacobus pictor, Arnolfus architectus). Un brano, raffigurante il “Bambino”, è stato identificato tra le raccolte del Museo Puskin di Mosca e tale frammento, sebbene di esile misura e alterato, rimanda a una soffice resa dell’incarnato, a un'evidenziazione del vivo profilo del volto, a una posa pienamente partecipe.  
 
Stando alle scarse conoscenze biografiche torritiane, l’esistenza di una sua bottega “organizzata” è argomento che, per certi peculiari aspetti, suscita ampie ipotesi; sembra perciò tradursi in maggiore attendibilità che, un gruppo di pittori e di mosaicisti, si sia raccolto intorno al maestro -ormai famoso- e che le loro opere, riconducibili a modelli del Torriti, siano cronologicamente databili in un periodo successivo alle prove maggiori del maestro, vale a dire intorno alla fine del nono decennio del XIII secolo.  Inoltre, la serie di attribuzioni assegnategli forma una sorta di nutrito corpus, in cui elementi eterogenei costituiscono punti cruciali, quindi complicati e difficoltosi, circa il grado di accettabilità di opere riferibili all’artista.
 
In questo annoso tema si effonde, altresì, la lettura degli affreschi che ornano la “quarta navata” della Basilica di S. Saba. In realtà, tale ambiente caratterizzato da volte a crociera, affiancato alla navata laterale sinistra, può individuarsi quale portico, edificato entro la prima metà del XII secolo durante la ricostruzione della Chiesa, utilizzato ai fini del diretto ingresso tra il luogo di culto e il monastero; le tamponature che ne hanno mutato l’aspetto -e “l’uso”- risalgono al XIII secolo, al cui termine sono eseguite le opere pittoriche murali. Queste riuniscono, attraverso la figurazione, alcune memorie tradizionali e storiche del complesso monastico ricordate in quel periodo, che possono essere riassunte iniziando dalla famiglia di S. Gregorio I, Magno (590-604), appartenente all’antica “Gens” degli Anicii.
 
Secondo la più conosciuta voce tradizionale, la madre del papa, S. Silvia, alla morte del consorte si ritira (574, circa) con altre donne in una sua domus, posta sul fianco orientale del Colle Aventino; la proprietà diviene, di conseguenza, luogo di preghiera –caro altresì all’eminente figlio- appartato dal mondo: la Cellae Novae, coincidente con l’area della Basilica di S. Saba, ove si spegne tra il 590 e il 591. Le fonti storiche, invece, indicano la fondazione di un primo nucleo monasteriale avanti al 648, quando un gruppo di monaci provenienti da Biserta (Tunisia), fuggiti in seguito all’invasione araba, s’insedia in questa zona, forse restaurando e trasformando una costruzione già esistente. A questi primi religiosi se ne aggiungono altri provenienti da Gerusalemme, dal Deserto di Giuda e da altri siti di quel territorio oggetto dell’avanzata islamica; questa folta comunità dedica il nuovo monastero, in onore delle proprie origini, a S. Saba, uno dei maggiori e venerati esponenti del monachesimo orientale. In seguito a un periodo di decadenza (IX secolo), l’Ordine Benedettino vi subentra durante il X secolo, sostituito da quello Cluniacense poco prima della metà del XII secolo, che intraprende la ricostruzione del complesso nelle forme ancor oggi, in buona misura, visibili.
 
Ritornando al "molto indagato" ciclo di affreschi -oggetto di questo post- compiuto intorno, come s'ipotizza, al 1292, esso viene attribuito al così denominato “Maestro di S. Saba” pur se diversi studi insistono su un’assegnazione al Torriti. Le scene raffigurate presentano, sulla corta parete di fondo sinistra, la “Vergine in trono con il Bambino tra S. Saba e S. Andrea Apostolo, mentre sulla parete longitudinale risalta “S. Gregorio I, Magno tra S. Benedetto e un Santo Vescovo”, concludendosi la visone d’insieme nella scena di “ S. Nicola e le tre fanciulle povere”. Sebbene larghe sezioni delle pitture siano mancanti, quanto è ancora osservabile ne permette un’ampia lettura, che di tali dipinti ne afferra la persistente, reale, importanza nel percorso storico dell’arte; quanto si esamina e si deduce insorge soltanto, perciò, da uno specifico metodo, filologico, circa il dato oggettivo di evoluzione e di personalità espressiva.  
 
Iniziando l’osservazione con l’episodio di “S. Nicola” questo può essere accostato, marginalmente, a quello rappresentato nel Sancta Sanctorum (1278-1279, con tutta probabilità), desumendone una dipendenza compositiva, non disgiunta da alcune affinità decorative e da certe strutture architettoniche disegnate. Il nostro affresco però narra il fatto con un’impostazione semplificata dell’ambiente, rispetto all’affresco compreso nella Cappella votiva del Santuario della Scala Santa, ove la scena viene esposta in due distinti momenti: all’atto misericordioso, del santo, verso le tre fanciulle dormienti segue il ringraziamento del loro padre, tra linee architettoniche maggiormente articolate. Continuando a ritroso questo nostro esame, ci poniamo innanzi al dipinto murale di “S. Gregorio I, Magno”, la cui presenza di S. Benedetto menziona sia la presenza del suo Ordine nella storia del complesso conventuale, sia la sua bellezza spirituale affermata proprio dal grande pontefice effigiato, attraverso l’intero suo secondo libro dei “Dialoghi”, la prima testimonianza scritta sulla vita del santo nato a Norcia.
 
Lo schema iconografico dei due affreschi, sebbene non difetti di un buon accento decorativo, si sussegue senza ragguardevoli varianze e, rispetto alla lezione del Torriti, l’insieme composto appare appiattito, deprivato di un gusto fortemente plastico e di un autentico e autonomo svolgersi figurativo; i personaggi non possiedono una loro viva corposità, tradotti in figure rigidamente ricostruite da questo pittore, che si limita a ricalcare, palesando una debole “mano inventiva”, arcaici convenzionalismi. La meticolosa osservanza, descrittiva, di questi ultimi, produce formule confinate in una retroguardia culturale, dimostrata dalle incoerenze spaziali e dalle semplici architetture che contornano le figure. Nella stesura cromatica delle pitture murali il disegno, nella sua totalità, è reso in forma iconizzata, abbandonato in stereotipati modelli, distante da qualsiasi raffinata esposizione dei piani facciali, consegnandosi ai nostri sguardi privo di salde ed espressive forme. Appare qui evidente in ogni personaggio la pressante staticità, che sottomessa al peso di un’irrigidita trasmissione temporale iconografica, sottrae l’opera a un qualsiasi contrasto chiaroscurale.
 
L’affresco raffigurante la “Vergine con il Bambino chiude la nostra particolare rassegna; le due figure laterali rievoca l’origine del monastero, fondato da monaci orientali. Invero, a sinistra della Madonna è individuabile, in base al frammento superstite, S. Andrea Apostolo per la posa –che include la stola e il “cartiglio” avvolto e ben stretto nelle mani- corrispondente all’immagine frequentatissima, nel culto orientale, del Protocletos, ossia del “Primo chiamato” dal Cristo; a destra si nota S. Saba con il suo emblema: il pastorale. Quest’ultimo personaggio, non esente da una rigida postura, mostra una maggiore autonomia da vieti schemi e una vicinanza ai nuovi percorsi artistici nel taglio degli occhi, nella forma della bocca, nella stesura delle pennellate, nella disposizione delle pieghe delle vesti monacali. L’effetto pittorico, della Vergine, è quello che più dimostra di aver recepito, in una certa misura, la cifra del Torriti, per la sua altezza qualitativa, per gli accurati particolari dei lineamenti, per gli accenni chiaroscurali, i quali ne risaltano la forma evidenziandone il rilievo, separandola, parzialmente, dal compatto fondo, come permette la sottolineatura del colore bruno, utilizzato nella parte superiore delle orbite oculari e nei delicati contorni del viso, ben modellato, che nitidamente si mostra sopra lo sfondo dell’aureola. Il disegno del manto e del velo realizzato con ispirata eleganza, le mani, morbide dalle dita sottili, sono elementi che confermano una nobiltà pittorica intrinseca in questa figura, la cui consistenza volumetrica è creata con soffici passaggi cromatici. L’impostazione prospettica del trono, su cui siede la Vergine, è del tipo frontale, presentando semplici decorazioni e una struttura con uno schienale avvolgente. In sostanza, un lavoro che, in larghi tratti, segue gli stilemi torritiani ma ne diverge, in diversi passaggi, dagli originari elementi compositivi e perciò dalla sua attenzione naturalistica, dalla sua autorevole forza espressiva e dalla sua ineguagliabile competenza con cui affronta il repertorio definibile classico. Si percepisce che, quest'affresco, deriva da un compimento del lavoro commissionato e come tale attento e ripercorrere, per quanto possibile, la via tracciata da un altro artista, tanto celebrato, la cui sigla stilistica, sebbene in questo caso a essa riconducibile, rimane, nella sua sostanza, distante. Non può sfuggire la sincrona secchezza modellante alcuni brani, esemplificato dal gesto -il quale sembra bruscamente interrompersi- del Bambino, dipinto in un atteggiamento artificioso, privo di reciprocità con l’immagine della Vergine, che nella sua indubbia consistenza plastica è pur accolta un’espressione ferma, come se il suo modo imperturbabile di guardare sia pervaso di un’immota eternità.
 
 
La "quarta navata" della Basilica di S. Saba



L'affresco di “ S. Nicola e le tre fanciulle povere


L'affresco di  “S. Gregorio I, Magno tra S. Benedetto e un Santo Vescovo


L'affresco "Vergine in trono con il Bambino tra S. Saba e S. Andrea Apostolo