Le
arti figurative, tra l’ultimo periodo del XIII secolo e la prima parte del XIV
secolo, esprimono una salda rivisitazione del gotico, attraverso maestri che ne
elaborano un mutamento della fisionomia e del percorso.
Roma,
in questa sorta di operoso programma di rinnovamento, mette in scena assidue opere
plastiche, le quali dialogano con il fenomeno artistico che si propaga in altri
territori. Infatti, nella “Città Eterna”, in questo volgere tra i due secoli,
s’individuano alcuni protagonisti di tale stagione come lo sono Giotto di
Bondone e Arnolfo di Cambio; essi vi esplicano, secondo quanto suggeriscono le
“testimonianze” a noi giunte, il loro estro in imprese di enorme prestigio, che
contribuiscono a identificare “l’Urbe” tra i centri maggiormente vitali della
cultura del tempo. Artisti cardini del gotico italiano evoluto, appaiono, in
questa loro esperienza particolare, “maestri romani”, determinando la
difficoltà di interpretare i contatti e i rapporti esistenti con i maggiori
rappresentanti definiti impropriamente “locali”, come Pietro Cavallini, pittore
di straordinario pregio artistico, che, secondo differenti interpretazioni
cronologiche e qualitative, del rinnovamento della pittura italiana, tradotto
in atto all’epoca, ne contende la palma a Giotto –la cui centralità del suo linguaggio
rimane indiscutibile- seppure in modo sostanzialmente differente, elaborando
fondamentali innovazioni nella rappresentazione tridimensionale delle figure e
degli spazi.
Un
altro eccellente protagonista della “bottega romana” del tempo s’individua in
Iacopo Torriti, misterioso -come indica la sua lacunosa biografia- pittore e
mosaicista, la cui opera è incentrata su una precisa connotazione, volta a
recuperare valori figurativi tardo antichi e paleocristiani con linguaggio
bizantineggiante, attenuato, modificato dalla sua sicura individualità, cogliendo
eleganti altezze figurative e decorative, inusitate finezze cromatiche. Autore
di affreschi, tra cui alcune attribuzioni, nella Basilica superiore di S.
Francesco ad Assisi -uno dei fulcri ove si avvia una nuova sintassi pittorica-
raffiguranti scene della “Creazione”,
delle “Storie della Genesi” e inolre,
le immagini del “Cristo”, della “Vergine”, di “S. Giovanni Battista”, di “S.
Francesco” (1288-1290, circa). Il Redentore presenta un solido carattere
monumentale, congiunto a un saldo aspetto corposo dello strato pittorico, il
quale infonde al dipinto un effetto veramente espressivo, effigiando quasi un
contrasto con la soavità che irradia il volto della Madonna. Ella è
armoniosamente disegnata, in un brillante sgorgare di linee di contorno, nella frequentata
posa iconografica romana della “Madonna
advocata” -come ad esempio attestano le due immagini conservate
rispettivamente nella Basilica di S. Maria in Aracoeli in Campidoglio e in
quella di S. Maria in Via Lata- il cui gesto rivela la sua intercessione rivolta
verso Dio.
La
prima opera del Torriti in Roma, efficacemente provata, si mostra nel mosaico
absidale della Basilica di S. Giovanni in Laterano –“Croce gemmata pervasa dalla Grazia tra la Vergine, S. Francesco, S.
Pietro, S. Paolo, S. Giovanni Battista, S. Antonio di Padova, S. Giovanni
Evangelista, S. Andrea e Personaggi”- come dimostra la sua “firma”
nell’angolo inferiore sinistro nella calotta dell’abside, leggibile e
“interpretabile” come “Iacobus Torriti
pictor hoc opus fecit”. L’aspetto più dibattuto in passato riguarda la
data, 1292, impressa nel mosaico odierno, molto rielaborato durante il grande
intervento di restauro della Chiesa, avvenuto dal 1876 al 1886, nel corso del
quale viene abbattuta l’antica costruzione absidale, per edificarne un’altra,
collocata posteriormente rispetto alla precedente; l’anno indicato non appare
filologicamente coerente, come indagano studi anche recenti proponendo quale
data il 1291. L’impresa decorativa, voluta da Niccolò IV (1288-1292) – il quale
riedifica parti della Basilica-, vede la presenza, quale collaboratore
dell’artista, di fra Iacopo da Camerino, secondo l’iscrizione posta nella
fascia musiva dell’emiciclo absidale:”Frater
Iacobus de Camerino socius magistri operis recommendat se misericordiae
Christie et meritis beati Iohannis”; le notizie sull’opera appaiono quindi
compiute ma ciò che si è estinto è proprio il mosaico. Infatti, come in
precedenza accennato, la copia eseguita nel XIX secolo durante l’imponente
ricostruzione dell’area absidale, pur riproducendo, in apparenza fedelmente,
l’impianto iconografico del mosaico torritiano, ne ha alterato l’entità
stilistica sino a estinguerla, annullando la reale possibilità di comprendere e
di interpretare, in essa, il tratto distintivo del Torriti, obbligando gli
studiosi a volgere la propria attenzione sulle relative difficoltà
“ermeneutiche” e sui dubbi concernenti gli elementi compositivi, che
l’imponente mosaico espone.
L’attività
di mecenate del pontefice raggiunge il suo vertice nel grandioso rinnovamento
della Basilica di S. Maria Maggiore, che comprende l’edificazione del transetto
e l’innalzamento di una nuova abside, la quale viene arretra di circa sei metri
e mezzo, rispetto a quella antica, di cui si conserva l’arco, che diviene perciò
quello trionfale. L’imponente mosaico terminato nel 1296, disteso sulla
superficie absidale interna, esprime una considerevole articolazione
iconografica, pur mostrando le evidenti “impronte” dei restauri posti in atto
durante lo svolgersi dei secoli, che, nel complesso, non ne hanno totalmente
compromesso la leggibilità stilistica. L’insieme, di elevatissima qualità,
conferma l’opera di un grande maestro, al quale non gli è sconosciuta un’innegabile
ricerca spaziale innovativa, risaltando quale struttura compositiva originale
per la “scuola romana”. Un sicuro centripeto andamento compenetra tutta la
scena, ove tutte le componenti, incluso il colore, fluiscono verso il nucleo,
il fondamento intorno a cui si è costituita l’intera rappresentazione, vale a
dire la “Incoronazione della Vergine” e
le “ Storie della Vergine”. Per la
prima volta, con molta probabilità, un’abside di Roma afferma una sorprendente
sintassi di superfici volumetriche; l’omogeneità plastica è completamente
realizzata, i diversi elementi sono del tutto calibrati nei loro reciproci
dialoghi, in un armonioso equilibrio delle forme, prive dunque di qualsiasi incoerenza.
La grande efficacia della resa prospettica deriva da un concreto studio delle
linee di fuga, da assetti cromatici che intensificano lo stacco del soggetto riprodotto
dal fondo. Tutta la composizione riflette, attraverso una superlativa maestria
d’arte, la cura volta a sostanziare la realtà visiva, intesa quale forma
slegata da ogni prefissata, stagnante idealizzazione, attraverso una precisa
consistenza dell’intreccio cromatico e un’esplicita resa di colori ordinati in
figure spaziali, attraverso cui sono definite le volumetrie dei corpi. Infatti,
il panneggio delle figure del Cristo e della Vergine mostra una densa
impostazione di pieghe con accentuate convessità ombrate, che suscitano effetti
di scandita pienezza delle forme realizzate; attraverso il fitto chiaroscuro
emerge plasticamente e vividamente, dal fondo, l’aspetto dei corpi. Tra le “Scene della Vita di Maria”, tutte
caratterizzate dalla tecnica coloristica di questo maestro, che sottolinea la
fisicità dei soggetti ritratti, quella della “Natività” intona uno dei momenti qualitativamente eminenti, come
rivelano le movenze della Vergine nel prendere il Bambino dalla mangiatoia -o a
deporlo nella mangiatoia-, che ne segnano l’eleganza e la naturalezza in una
consistente spazialità, punto focale di quanto visivamente espresso. Un breve
cenno merita altresì l’episodio della “Adorazione
dei Magi”, di salda impaginazione estetica e di “intervalli visivi”, ove i
re inginocchiati, avvolti da ariosi panneggi, sono collocati su tre differenti
piani di profondità, mentre su un trono architettonicamente preciso vi siede la
Vergine mentre il Bambino con incisiva spontaneità, tendendo una mano, tocca il
dono offerto da uno dei Magi.
L’ultima
realizzazione del Torriti, per la quale si hanno notizie e scritture
documentarie nonché disegni, è il pannello musivo che orna il monumento funebre
di Bonifacio VIII (1294-1303), addossato alla controfacciata dell’antica
Basilica di S. Pietro, eseguito da Arnolfo di Cambio, opera demolita verso la
fine del XVI secolo. Lavoro assegnabile probabilmente al 1296, voluta dal papa
ancora in vita; in questa circostanza le capacità dei due artisti si
confrontano senza reciprocamente influenzarsi, compartecipando con pari dignità
alla “stesura” del monumento, firmando la parte di propria di pertinenza (Jacobus pictor, Arnolfus architectus). Un brano, raffigurante il “Bambino”, è stato identificato tra le
raccolte del Museo Puskin di Mosca e tale frammento, sebbene di esile misura e
alterato, rimanda a una soffice resa dell’incarnato, a un'evidenziazione del
vivo profilo del volto, a una posa pienamente partecipe.
Stando
alle scarse conoscenze biografiche torritiane, l’esistenza di una sua bottega
“organizzata” è argomento che, per certi peculiari aspetti, suscita ampie
ipotesi; sembra perciò tradursi in maggiore attendibilità che, un gruppo di
pittori e di mosaicisti, si sia raccolto intorno al maestro -ormai famoso- e
che le loro opere, riconducibili a modelli del Torriti, siano cronologicamente
databili in un periodo successivo alle prove maggiori del maestro, vale a dire
intorno alla fine del nono decennio del XIII secolo. Inoltre, la serie di attribuzioni assegnategli
forma una sorta di nutrito corpus, in
cui elementi eterogenei costituiscono punti cruciali, quindi complicati e
difficoltosi, circa il grado di accettabilità di opere riferibili all’artista.
In
questo annoso tema si effonde, altresì, la lettura degli affreschi che ornano
la “quarta navata” della Basilica di S. Saba. In realtà, tale ambiente
caratterizzato da volte a crociera, affiancato alla navata laterale sinistra,
può individuarsi quale portico, edificato entro la prima metà del XII secolo durante
la ricostruzione della Chiesa, utilizzato ai fini del diretto ingresso tra il
luogo di culto e il monastero; le tamponature che ne hanno mutato l’aspetto -e “l’uso”-
risalgono al XIII secolo, al cui termine sono eseguite le opere pittoriche
murali. Queste riuniscono, attraverso la figurazione, alcune memorie
tradizionali e storiche del complesso monastico ricordate in quel periodo, che
possono essere riassunte iniziando dalla famiglia di S. Gregorio I, Magno
(590-604), appartenente all’antica “Gens”
degli Anicii.
Secondo
la più conosciuta voce tradizionale, la madre del papa, S. Silvia, alla morte
del consorte si ritira (574, circa) con altre donne in una sua domus, posta sul fianco orientale del Colle
Aventino; la proprietà diviene, di conseguenza, luogo di preghiera –caro
altresì all’eminente figlio- appartato dal mondo: la Cellae Novae, coincidente con l’area della Basilica di S. Saba, ove
si spegne tra il 590 e il 591. Le fonti storiche, invece, indicano la
fondazione di un primo nucleo monasteriale avanti al 648, quando un gruppo di
monaci provenienti da Biserta (Tunisia), fuggiti in seguito all’invasione
araba, s’insedia in questa zona, forse restaurando e trasformando una
costruzione già esistente. A questi primi religiosi se ne aggiungono altri
provenienti da Gerusalemme, dal Deserto di Giuda e da altri siti di quel
territorio oggetto dell’avanzata islamica; questa folta comunità dedica il
nuovo monastero, in onore delle proprie origini, a S. Saba, uno dei maggiori e
venerati esponenti del monachesimo orientale. In seguito a un periodo di
decadenza (IX secolo), l’Ordine Benedettino vi subentra durante il X secolo,
sostituito da quello Cluniacense poco prima della metà del XII secolo, che
intraprende la ricostruzione del complesso nelle forme ancor oggi, in buona misura,
visibili.
Ritornando
al "molto indagato" ciclo di affreschi -oggetto di questo post- compiuto intorno, come s'ipotizza,
al 1292, esso viene attribuito al così denominato “Maestro di S. Saba” pur se
diversi studi insistono su un’assegnazione al Torriti. Le scene raffigurate
presentano, sulla corta parete di fondo sinistra, la “Vergine in trono con il Bambino tra S. Saba e S. Andrea Apostolo”, mentre
sulla parete longitudinale risalta “S.
Gregorio I, Magno tra S. Benedetto e
un Santo Vescovo”, concludendosi
la visone d’insieme nella scena di “ S.
Nicola e le tre fanciulle povere”. Sebbene larghe sezioni delle pitture
siano mancanti, quanto è ancora osservabile ne permette un’ampia lettura, che di
tali dipinti ne afferra la persistente, reale, importanza nel percorso storico
dell’arte; quanto si esamina e si deduce insorge soltanto, perciò, da uno
specifico metodo, filologico, circa il dato oggettivo di evoluzione e di
personalità espressiva.
Iniziando
l’osservazione con l’episodio di “S.
Nicola” questo può essere accostato, marginalmente, a quello rappresentato
nel Sancta Sanctorum (1278-1279, con
tutta probabilità), desumendone una dipendenza compositiva, non disgiunta da
alcune affinità decorative e da certe strutture architettoniche disegnate. Il
nostro affresco però narra il fatto con un’impostazione semplificata
dell’ambiente, rispetto all’affresco compreso nella Cappella votiva del
Santuario della Scala Santa, ove la scena viene esposta in due distinti
momenti: all’atto misericordioso, del santo, verso le tre fanciulle dormienti
segue il ringraziamento del loro padre, tra linee architettoniche maggiormente
articolate. Continuando a ritroso questo nostro esame, ci poniamo innanzi al
dipinto murale di “S. Gregorio I, Magno”,
la cui presenza di S. Benedetto menziona sia la presenza del suo Ordine nella
storia del complesso conventuale, sia la sua bellezza spirituale affermata
proprio dal grande pontefice effigiato, attraverso l’intero suo secondo libro
dei “Dialoghi”, la prima testimonianza scritta sulla vita del santo nato a
Norcia.
Lo
schema iconografico dei due
affreschi, sebbene non difetti di un buon accento decorativo, si sussegue senza ragguardevoli
varianze e, rispetto alla lezione del Torriti, l’insieme composto appare
appiattito, deprivato di un gusto fortemente plastico e di un autentico e
autonomo svolgersi figurativo; i personaggi non possiedono una loro viva
corposità, tradotti in figure rigidamente ricostruite da questo pittore, che si
limita a ricalcare, palesando una debole “mano inventiva”, arcaici
convenzionalismi. La meticolosa osservanza, descrittiva, di questi ultimi,
produce formule confinate in una retroguardia culturale, dimostrata dalle
incoerenze spaziali e dalle semplici architetture che contornano le figure. Nella
stesura cromatica delle pitture murali il disegno, nella sua totalità, è reso
in forma iconizzata, abbandonato in stereotipati modelli, distante da qualsiasi
raffinata esposizione dei piani facciali, consegnandosi ai nostri sguardi privo
di salde ed espressive forme. Appare qui evidente in ogni personaggio la
pressante staticità, che sottomessa al peso di un’irrigidita trasmissione
temporale iconografica, sottrae l’opera a un qualsiasi contrasto chiaroscurale.
L’affresco raffigurante la “Vergine con il Bambino” chiude
la nostra particolare rassegna; le due figure laterali rievoca l’origine del
monastero, fondato da monaci orientali. Invero, a sinistra della Madonna è individuabile,
in base al frammento superstite, S. Andrea Apostolo
per la posa –che include la stola e il “cartiglio” avvolto e ben stretto nelle
mani- corrispondente all’immagine frequentatissima, nel culto orientale, del Protocletos, ossia del “Primo
chiamato” dal Cristo; a destra
si nota S. Saba con il suo emblema: il pastorale. Quest’ultimo personaggio, non
esente da una rigida postura, mostra una maggiore autonomia da vieti schemi e
una vicinanza ai nuovi percorsi artistici nel taglio degli occhi, nella forma
della bocca, nella stesura delle pennellate, nella disposizione delle pieghe
delle vesti monacali. L’effetto pittorico, della Vergine, è quello che più
dimostra di aver recepito, in una certa misura, la cifra del Torriti, per la
sua altezza qualitativa, per gli accurati particolari dei lineamenti, per gli
accenni chiaroscurali, i quali ne risaltano la forma evidenziandone il rilievo,
separandola, parzialmente, dal compatto fondo, come permette la sottolineatura
del colore bruno, utilizzato nella parte superiore delle orbite oculari e nei
delicati contorni del viso, ben modellato, che nitidamente si mostra sopra lo
sfondo dell’aureola. Il disegno del manto e del velo realizzato con ispirata
eleganza, le mani, morbide dalle dita sottili, sono elementi che confermano una
nobiltà pittorica intrinseca in questa figura, la cui consistenza volumetrica è
creata con soffici passaggi cromatici. L’impostazione prospettica del trono, su
cui siede la Vergine, è del tipo frontale, presentando semplici decorazioni e
una struttura con uno schienale avvolgente. In sostanza, un lavoro che, in
larghi tratti, segue gli stilemi torritiani ma ne diverge, in diversi passaggi,
dagli originari elementi compositivi e perciò dalla sua attenzione
naturalistica, dalla sua autorevole forza espressiva e dalla sua ineguagliabile
competenza con cui affronta il repertorio definibile classico. Si percepisce
che, quest'affresco, deriva da un compimento del lavoro commissionato e come
tale attento e ripercorrere, per quanto possibile, la via tracciata da un altro
artista, tanto celebrato, la cui sigla stilistica, sebbene in questo caso a
essa riconducibile, rimane, nella sua sostanza, distante. Non può sfuggire la
sincrona secchezza modellante alcuni brani, esemplificato dal gesto -il quale
sembra bruscamente interrompersi- del Bambino, dipinto in un atteggiamento artificioso,
privo di reciprocità con l’immagine della Vergine, che nella sua indubbia consistenza
plastica è pur accolta un’espressione ferma, come se il suo modo imperturbabile
di guardare sia pervaso di un’immota eternità.
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