Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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sabato 26 settembre 2015

Chiesa di S. Ignazio di Loyola in Campo Marzio (cenni su Antonio Pozzo): l’affresco della “Annunciazione” della Sacrestia

La Chiesa di S. Ignazio di Loyola in Campo Marzio si manifesta quale uno dei più maestosi esempi di architettura barocca, come conferma la sua grandiosa facciata e il suo sontuoso interno, le cui forme sono opera del gesuita Orazio Grassi (1583-1654) –architetto e matematico-, prefetto della Fabbrica dal 1627 al 1633, al quale subentra un suo collaboratore, Antonio Sasso, anch’egli padre gesuita, che modifica, parzialmente, il prospetto.

Questo luogo di culto rende, però, testimonianza delle elevatissime capacità artistiche di un altro gesuita, Andrea Pozzo (1642-1709), pittore e architetto. Infatti, quest’ultimo è l’autore della stupefacente “Entratura di S. Ignazio in Paradiso”, sua opera maestra, che decora la volta della navata, disserrando con la sua felice fantasia compositiva il senso assoluto, d’incommensurabile profondità, dell’etere sotto al quale (nelle imposte) sono raffigurate le“Quattro parti del mondo” che, profondamente toccate dalla fede cristiana conosciuta per mezzo delle incisive predicazioni gesuitiche, “stanno in atto di gettare da sé i deformissimi mostri o d’idolatria o di eresia o di altri vizi”, come ci indica lo stesso Pozzo. Pur la finta “Cupola” è suo capolavoro d’illusionismo prospettico, il quale diffonde nell’aria la “meraviglia” del Barocco, sigillando con estro l’imponente fastosità di tutto l’enorme spazio, ove anche il catino dell’abside (Gloria di S. Ignazio), la volta del presbiterio (Scene della vita di S. Ignazio) e quella del braccio destro del transetto (S. Luigi Gonzaga) celebrano la felicissima vena di questo maestro, che sembra concludere il suo ciclo pittorico, in tali vastissimi ambienti, nelle quattro superfici limitate dei pennacchi della sua cupola (David, Giuditta, Sansone, Giaele), levati tra le alte e possenti spinte delle arcate. Dal suo lavoro magistrale risaltano le interpretazioni dell’opera sia del Borromini –attraverso l’aspetto pittorico-, per la ricerca dei contrasti di luci geometriche, assimilati mediante differenti grandezze cromatiche, in un avvicendamento di spazi cangianti, speculari a nervature architettoniche portanti, sia del Bernini, per la resa monumentale dei ricchissimi altari dei due bracci del transetto: quello di “S. Luigi Gonzaga”, che riluce nella parte destra (pala marmorea di Pierre Le Gros, il Giovane), quello della “Annunziata” nel braccio sinistro della crociera (pala marmorea di Filippo Valle). L’artista trentino, dunque, in queste due creazioni architettoniche si rivolge al genio beniniano, realizzando una massa scenografica enunciante quella libertà compositiva, che sfugge tuttavia la ridondanza anonima per definire un singolare movimento aereo, morbido.

Oltre queste –ed altre- sfavillanti somme di pieni elementi artistici, appartata rimane la notevole Sacrestia, ritmata da preziose fughe ebanistiche, le quali sembrano incorniciare la volta e le lunette affrescate da un altro gesuita, Pierre De Lattre (1606-1683), mentre l’altare (di origine cinquecentesca), la cui ancona è dipinta dalla stessa mano, dal fondo della parete trasversale in alto sospinge il raggio visivo, con sottile modo prospettico. Di questo pittore, indubbiamente, “minore” sono visibili due opere nella medesima Chiesa nella navata sinistra: S. Gregorio Magno (prima cappella), SS. Francesco Saverio e Francesco Borgia (seconda cappella).

Tutto lo spazio occupato da questo locale, così funzionale alle celebrazioni liturgiche, è decorato dall’artista fiammingo, il quale nelle “lunette trasversali” dipinge -differentemente a quanto dipinto nelle altre parti di questo riservato ambiente (Storie di S. Ignazio)- due altri temi: “Riposo durante la Fuga in Egitto” e “Annunciazione”. Quest’ultimo, secondo confermati studi, riproduce, parzialmente, un affresco di Federico Zuccari (1540, circa-1609), già esistente nella Chiesa dell’Annunziata, edificata tra il 1562 e il 1567, annessa al primo Collegio Romano, demolita nel 1626, poiché divenuta non idonea a contenere, nelle frequenti funzioni religiose, il gran numero di studenti del medesimo Collegio, nel frattempo ingrandito (1581-1584). Se la necessità di innalzare un tempio adeguato al corpus studentesco, costituisce la causa decisiva della nuova costruzione, non si deve escludere, contemporaneamente, la volontà di erigere un monumento, di grande “tangibilità”, che concreti quel sentimento di universalità, quindi cattolico, espresso con nuova ricchezza, sgorgata da contrappunti di luce e di penombre, di audaci sinfonie plastiche e architettoniche e di quiete armonie.

Sulle dilettevoli sponde della quietezza ci accompagna “Fratel” Pierre De Lattre, riproponendo quel disegno che, secondo lo Zuccari, si origina nella mente dell’artista come reale ispirazione divina, distinto quindi da quella capacità tecnica che, invece, lo esteriorizza in un contesto ben determinato.
Potremmo tentare di descrivere questa teoria, dell’artista marchigiano, espressa nel suo più importante trattato” L’Idea de’Pittori, Scultori et Architetti” (1607) –“humus” altresì dell’affresco della “Annunciazione” - come il manifestarsi di un moto fluente, spiegato verso la bellezza tanto alta e dall’arte risolta. Moto che svela il linguaggio distinto dal noto, ove l’intelletto è verso di soffio vitale, in quella riva mentale da cui i pensieri s’innalzano d’universo, di mistero. Ricerca, perciò, di quella consonanza intuita tra l’uomo e quel tutto che lo cinge, attraversando lo stato di un interiore squarcio di quella densa coltre, apparente e inscrutabile verità, che lo divide dalla profonda natura divina in lui pulsante. Suscitare quell’innato affetto volto all’infinitezza, che svelle nel petto quella stantia dimora, eretta dall’usualità, attraverso una costa meditativa, sino ad abbracciare, in un vuoto pieno, l’eternità che infrange il tempo. E in tale prospetto si mostra il tratto, con luce, con diafane ali, in quell’empireo quale riva primigenia dell’uomo, luogo esplicito del nume (presenza e volontà divina). L’unicità di questa alterità rimane sospesa, fintanto l’ingegno dà forma a un flutto, che sospinge l’artista all’unità con l’altro se stesso, astraendolo, in quell’istante creativo, dal suo divenire quotidiano, per respirare oltre il cardine dell’esperienza trita, nella visibilità della sua colorata solitudine. Ecco la grazia e la vaghezza, non più distanti dall’umanità, che il talento sprigiona permettendo agli occhi la visione dell’incanto; alveo di viva impressione e di tenera commozione, d’inventiva, di levità e di gaudio.

Certamente il De Lattre della “Annunciazione” ne ripresenta un’impaginazione quasi fedele a quella originale, tale da apparire in un’eccellente resa pressoché “scolastica”, sebbene non avulsa da una certa personale ricerca accurata e dettagliata dei particolari. Invero, la struttura narrativa, dal carattere naturalistico, viene espressa con brillante verso descrittivo, in cui la pittura non rinuncia a evidenziare un’intima partecipazione dell’autore; raffigurazione che, perciò, dona una certa freschezza e una soavità abile ad attrarre lo spettatore, con la -quasi- spontaneità degli atteggiamenti dei personaggi, accostevoli per gli sguardi di chi li osserva. La preziosa leggerezza delle gamme cromatiche, così ariose e, insieme, elaborate e un’ottima impostazione delle figure nello spazio, compongono la scena nella quale diviene tangibile l’immaterialità della fede.

La sostanza iconografica di tale affresco corrisponde a quella funzione esplicativa, teologale, originata dal Concilio di Trento (1545-1563), secondo il quale l’artista deve rendere la sua opera altresì idonea ad insegnare; a questa esigenza si rimodella, generalmente, l’espressione plastica che ne risalta la vena intensa, emozionale. Il nostro affresco realizzato, originariamente, dallo Zuccari intorno al 1591 dà forma –mantenendo, come in tutti i suoi lavori, una certa indipendenza stilistica- a questa temperie con somma eleganza, con adesione, originale, a valori formali prefissati.
Nel copiarlo il pittore fiammingo ne reimposta l’insieme degli elementi figurativi, con alcune sue suggestioni che ne esplicitano le doti coloristiche tenui e il tocco chiaro ed euritmico, affrontando in modo sapientemente didascalico –si tratta pur sempre di un religioso, che agisce in un periodo di glorificazione della Cattolicità attraverso l’enfatizzazione dell'apostolato gesuitico- il tema del peccato e del Verbo incarnato per la redenzione degli uomini tutti. Infatti, la scena dell’annuncio del concepimento verginale è inserita tra le figure di Eva presa dal convincimento del serpente (al lato dell’arcangelo Gabriele, sospeso su una radente e candida nube) e di Adamo dormiente (al lato di Maria in raccolta posa).

Viene effigiata, dunque, l’antitesi tra la Vergine ed Eva, contrapposizione che scaturisce da quella tra Cristo Gesù e Adamo, come afferma S. Paolo.”Poiché per mezzo di un uomo venne la morte, così anche per mezzo di un uomo verrà la resurrezione dai morti. Poiché come tutti muoiono in Adamo, così anche in Cristo saranno tutti vivificati” (I Lettera ai Corinzi, capitolo 15, versetti 21-22). La simmetria fra Cristo e Adamo ha condotto, nel corso della storia del Cristianesimo, a quello tra Maria ed Eva progenitrice definita “la madre di tutti i viventi” (Genesi, capitolo 3, versetto 20), attribuzione che viene definitivamente identificata con la nuova Eva, la Vergine, madre del nuovo Adamo, Gesù Cristo, assimilazione argomentata in particolar modo da S. Ireneo di Lione (130, circa-202, circa), che nel suo testo “Adversus Haereses” (Contro le Eresie), afferma che “come Eva, la quale, … avendo come marito Adamo... disobbedendo divenne causa di morte per sé e per tutto il genere umano, allo stesso modo Maria … obbedendo divenne causa di salvezza per sé e per l'intero genere umano... Così dunque il processo della disobbedienza di Eva trovò la soluzione grazie all’obbedienza di Maria. Ciò che Eva aveva legato a causa della sua incredulità, Maria lo ha sciolto mediante la sua fede”. Tale concetto è strettamente connesso, dunque, a quello della riconducibilità di “tutte le cose” in Cristo, fondamento della salvezza divina, che annienta il peccato e il suo portato, la definitiva morte, introdotti della disobbedienza di Adamo, ristabilendo l’immagine di Dio dell’umanità, guastata da quella primitiva trasgressione. L’obbedienza al Padre, del nuovo Adamo, compensa pienamente l’improbo comportamento del primo Adamo; l’azione redentrice non può che comprendere la Vergine, poiché con il suo cosciente spontaneo candore distrugge, accettando immediatamente il piano di Dio –azione positiva-, la superbia e l’astuzia del serpente, diversamente da Eva irretita –azione negativa- dalla tremenda furbizia di quel rettile: ” Come Eva fu sedotta dalla parola dell'angelo (decaduto) al punto di fuggire davanti a Dio, avendo trasgredito la sua parola, così Maria ricevette il lieto annuncio per mezzo della parola dell'angelo, cosicché, obbedendo alla sua parola, portò Dio dentro di sé. E come quella si lasciò sedurre fino a disobbedire a Dio, così questa si lasciò persuadere in modo da obbedire a Dio”. La sua obbediente risposta, colma di fede, alla parola dell’Eterno è causa di salvezza; dal suo seno inizia la presenza tra gli uomini del Messia, che si è affermata sul mondo: “il peccato del primo uomo fu riparato dalla retta condotta del Figlio primogenito (di Dio); … la scaltrezza del serpente fu vinta dalla semplicità della colomba (Maria)… sono stati spezzati i legami che ci tenevano vincolati alla morte”.

Il dipinto, che stiamo osservando, vuole porre in rilievo queste conclusioni e perciò Eva, viene volutamente raffigurata sul lato opposto alla Vergine, sottolineando un frastagliato parallelismo comprendente atti contrapposti tra somiglianza e differenza, rovina dell’ordine divino e suo ristabilimento: Serpente (Satana)-Eva-(dunque) Adamo (intimo legame tra la donna e l’uomo)-Angelo (azione diretta di Dio nella storia dell’uomo)-Maria (concepimento di Cristo, Verbum  e Vero Uomo). L’antinomia ritratta delle due figure femminili restituisce, alla nostra vista, il loro atteggiamento: Eva accoglie nel suo animo la voce di Satana, Maria offre tutta se stessa alla volontà di Dio.



 





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Annunciazione (visione d'insieme) 

Annunciazione (particolare)


 





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