Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

Io Spiego

giovedì 29 gennaio 2015

La Villa pontificia della Magliana, conosciuta come il Castello della Magliana: il Palazzetto di Innocenzo VIII






La Villa pontificia della Magliana, oggetto di un mio studio, è un raro esempio di nobile dimora rinascimentale extraurbana, appartata ed estranea all’intenso traffico dell’autostrada Roma – Aeroporto di Fiumicino. Compresa oggi nella struttura dell’Ospedale di S. Giovanni Battista, è sorta tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento; essa testimonia quel rinnovamento di pensiero, che permea il clima artistico di Roma sino a trasformarla in un centro egemone di raffinate attività d’intrecci culturali, quali appaiono il sentimento di viva affezione per la filosofia, per il sapere, per “il bello”, manifestato per mezzo di ogni espressione artistica, ove si esplicita l’aspirazione umana alla perfezione divina attraverso l’armonia, la bellezza. Tale rifioritura si afferma dal sorgere del XV secolo, in cui attraverso la rilettura delle formule basilari del passato le metamorfosa con nuova espressione. Il Rinascimento che da Firenze, dove Brunelleschi palesa la sua splendida creatività dopo essere venuto nella “Città Eterna”, con il suo amico Donatello –altro grandissimo innovatore-, per osservare e studiare l'antica architettura romana, si espande in altre città sino a invadere Roma. Come non rammentare, a questo proposito, quanto esclama l’erudito papa Niccolò V (1447-1455), il primo pontefice rinascimentale che incide considerevolmente sulle vicende culturali, oltre il suo pontificato: “Roma dovrà essere monumentale e dovrà impressionare coloro che vi giungono da tutto il mondo per convincere tutti, con l’imponenza, della superiorità della Chiesa romana e della fede cattolica”.
 
Si succedono papi mecenati che promuovono quel culto dello splendore e in tale ambito agisce papa Sisto IV (1471-1484), che interpreta questo fervore sia attraverso il riordino edilizio della città, realizzandone l’abbellimento, sia per mezzo del godimento di ambienti in cui la cultura è vivace presenza (apertura al pubblico della Biblioteca Vaticana, donazione al popolo romano di alcune antiche statue bronzee: sorta di atto progenitore di raccolte museali). Questo suo adoperarsi a favore delle “cose belle” ha effetti altresì sulle vicende iniziali della Villa.
 
Il territorio della Magliana, in tal epoca, presenta una lussureggiante vegetazione che ricopre le sue colline con folti boschi e con ubertosi vigneti, contemporaneamente la zona è pervasa da una “salubre” ventilazione dovuta dalla vicinanza della costa marina; oltre a ciò la navigabilità del Tevere consente di raggiungere con facilità, da Roma, questo vastissimo luogo adatto, perciò, a divenire meta di riposo e di refrigerio fisico e spirituale, non dimenticando la sua caratterizzazione quale ritrovo di caccia, molto in voga in tale contesto storico.
 
Le origini del “Castello” sono individuabili già nel secolo XI, quando la zona appartiene al Convento dei SS. Pancrazio e Vittore (attuale Basilica di S. Pancrazio); durante il medesimo secolo vi sorge una piccola chiesa (1070, circa), S. Giovanni (Battista) in Manliana, affidata al Monastero di S. Paolo fuori le Mura, cui la venerazione sarà sempre viva in questo luogo, come conferma la cappella interna della Villa, dedicata a questo Santo. Intorno al XIII secolo il fondo è di proprietà della Basilica di S. Cecilia in Trastevere, che la manterrà a lungo. Nel 1483 Sisto IV concede il godimento del “Palatium S. Joannis della Malliana” al cardinale titolare della Basilica stessa, Giovanni Sclafenato, probabilmente da identificare con la costruzione fatta erigere dal cardinale Nicolò Forteguerri (1464, circa), anch’egli cardinale titolare di S. Cecilia, appassionato dell’attività venatoria e della vita campestre; egli desidera trasformare il fondo in un territorio di caccia e per tale motivo vuole un edificio utilizzabile per la sosta nel corso delle battute. Le cronache contemporanee rivelano che egli: ” fece fare un magnifico palazzo in mezzo fra Roma e Ostia, a un loco chiamato la Mallina, con poderi et giardini e cose dilettevoli”. Nessun elemento, però, sopravvive di questo edificio, del quale si vorrebbe rintracciarne qualcuno nel portico a tre arcate del “Palazzetto di Innocenzo VIII”.  Anche il conte Girolamo Riario, nipote del papa, ottiene l’uso dell’estesa tenuta (1471) per organizzarvi delle “partite” di caccia, alle quali vi partecipano illustri personaggi della corte pontificia. Per tale motivo progetta, con il consenso del pontefice, una ristrutturazione del complesso già esistente, in modo che sia degno del rango dei suoi invitati: proposito concretizzato soltanto in minima parte. 
 
Nel 1484 il nuovo papa, Innocenzo VIII (1484-1492), decide che la tenuta di campagna della Magliana divenga, oltre che residenza di caccia, altresì un confortevole luogo di permanenze di poca durata tra Roma e il mare e quindi sede privilegiata di brevi soggiorni sia per insigni personaggi ospiti del papa, sia per il pontefice stesso; si assiste perciò alla nascita di un luogo di rappresentanza del papato. Si erigono le mura, i merli, il fossato, sistema difensivo reso necessario a causa dei costanti pericoli di assalti e d’incursioni, da cui deriva la denominazione di “Castello”. Inoltre, si costruisce l’ala più antica dell’attuale complesso, quel “Palazzetto” situato sul lato sinistro della corte, appena dopo il portale d’ingresso. I lavori, inizialmente, sono condotti da Jacopo da Pietrasanta (marmorario e architetto, venuto a mancare nel 1485), al quale succede Antonio Graziadeo Prata da Brescia, qualificato come “Murator majoris fabricae palatii Vaticani”, architetto lombardo venuto a Roma, sulla scia di Andrea Bregno, con importanti incarichi tra i quali si rammenta il completamento della Loggia delle Benedizioni (progettata e iniziata da Francesco del Borgo), posta sulla precedente facciata della Basilica di S. Pietro, oggi scomparsa.
 
Nella sua opera architettonica presso la tenuta della Magliana, pur eseguita in un ambiente campestre, reputata perciò un lavoro minore, il “magister” Graziadeo vi sigilla la sua cifra di elegante sobrietà, di chiara “impronta lombarda”, come rivela il “Palazzetto” dal quale si affaccia, verso la corte, la leggiadria del portichetto a tre archi organizzato in due pilastri in muratura, ottagonali, aggraziati da squisiti capitelli decorati da foglie stilizzate, dette foglie d’acqua, cui la forma deriva dal gotico soprattutto fiorentino, membrature riproposte con attenta regia sui semipilastri laterali che chiudono il lungo lato aperto. L’interno di questo piccolo portico è caratterizzato dalla volta a crociera -ornata con lo stemma del papa- che indugia il suo arioso gioco sul vestibolo, in fondo al quale per tutta la parete corre un sedile marmoreo. La presenza di tale struttura architettonica fa supporre la probabile funzione di occasionale riparo che, questo vano, svolge durante le giornate di caldo afoso o di pioggia.
 
Anche la facciata mostra l’elevatezza architettonica dell’edificio, che seppur lineare non appare sommesso, esponendo una raffinatezza compositiva come dimostra quello scandire del marcapiano, che sembra fluire lungo il piano superiore, proiettandolo su un più alto spazio verticale. Le quattro finestre –architravate e con la dedica incisa “Innocen Cibo Genuen Papa VIII” e lo stemma del pontefice- poggiano su tale fascia e si succedono ampliando la superficie orizzontale per quel “simmetrico dialogo” fra le due luci centrali e i due archi laterali del sottostante portichetto.  
 
Delle ornamentazioni pittoriche, del prospetto superiore dell’edificio, se ne nota appena qualche segno sotto la grondaia; dunque nulla quasi rimane di quella pittura parietale in chiaroscuro, detta sgraffito, che decora diverse abitazioni nobiliari, raffigurante finte fughe prospettiche, motivi floreali, figure di amorini e simili.
 
Altre costruzioni amplieranno la Villa, create (progetti e interventi di Donato Bramante e di  Giuliano da Sangallo) durante i pontificati di Giulio II (1503-1513) e di Leone X (1513-1521), che rappresenteranno i periodi del suo massimo splendore.   



Il "portichetto"


Interno del "portichetto"
 


giovedì 22 gennaio 2015

Il nome segreto di Roma



Tra i molteplici segreti di Roma vi è compreso quello del suo occulto nome, tale perdura dalla profonda antichità ai giorni nostri.
Plinio il Vecchio (23 – 79 d.C.) nella sua Naturalis Historia enorme opera composta da trentasette libri, riguardo alla Città afferma che dei misteriosi riti proibiscono di pronunciare “l’altro nome di Roma … Non è fuori proposito accennare … a una particolarità dell’antica religione … La dea Angerona … ha il simulacro con la bocca chiusa, sigillata”.  Lo scrittore latino indica, dunque, il simulacrum di questa dea quale simbolo della grande valenza che, il silenzio, rappresenta nella cultura romana; esso appare un mezzo strettamente connesso con la protezione di Roma, contro i suoi nemici, attuata anche tramite il tacere.
Gaio Giulio Solino (vissuto tra il III e il IV secolo d.C.), autore della Collectanea rerum memorabilium, raccolta di nozioni storiche, geografiche e simili, ispirata dal lavoro enciclopedico di Plinio il Vecchio, conosciuta come Polyhstor, asserisce che il vero nome di Roma è sconosciuto al popolo, essendone vietata la divulgazione mentre, fin dall’epoca regia, lo tramandano, con arcane cerimonie, i sommi reggitori dello Stato nel trasmettersi il potere; soltanto il pontifex maximus, il primo del collegio sacerdotale, pronuncia, con bassissimo tono della voce, quell’oscuro nome durante determinati atti rituali e dinanzi all’ara. Anche Macrobio (scrittore vissuto tra il IV e V secolo d.C.) riferisce che quel nomare “è ignorato anche dai più dotti”.
Il motivo di tale segreto risiede nell’idea – presente non solo nella tradizione romana- che il nome esprima l’energia del soggetto nominato; conoscerlo, dunque, equivale a possedere nella sua interezza il soggetto medesimo, imperando sulla sua esistenza sino a estinguerla. Infatti, come rammenta anche Verrio Flacco (grammatico latino, vissuto tra la fine del I secolo a. C. e la prima parte del I secolo d. C.), gli stessi Romani, generalmente, durante gli assedi delle città nemiche ne evocano le divinità tutelari, tramite una formula. Si concepisce così la ragione del celato nome del dio, al quale Roma si affida.
Lo storico Tito Livio (59 a. C. - 17 d. C.) sotto tale aspetto ricorda che, Marco Furio Camillo, conosciuto il nume protettore di Veio lo invoca, prima di conquistare quell’antica città etrusca (396 a. C.) esclamando: ” Ti scongiuro oh Uni Regina (Giunone etrusca), che hai culto in Veio, di volerci seguire vincitori a Roma, ove la tua grandezza avrà un tempio degno di te”. Similmente agisce Publio Cornelio Scipione Emiliano, durante l’ultimo assalto a Cartagine (146 a. C.), allorché pronuncia quella stessa formula, con la quale supplica la divinità tutelare cartaginese di abbandonare quei templi eretti in quella città e di accogliere la regale ospitalità offertale da Roma, dove edificare luoghi di culto e istituire giochi ad essa dedicati. Da questa consolidata e particolare usanza sembrano scaturire i versi di Virgilio (70 – 19 a. C.), contenuti nel secondo libro dell’Eneide, nel doloroso ricordo di Enea circa “l’estremo travaglio di Troia”: ”Gli dei si sono tutti ritirati dai loro santuari, hanno abbandonato le are, essi che avevano protetto questo Stato”.
Soltanto alcune ipotesi, oggi, si possono proporre relativamente all’identificazione del dio protettore (maschio e/o femmina) e del nome nascosto di Roma, poiché, prescindendo dagli antichi racconti con propositi ammonitori, nessun personaggio che ne avesse avuto conoscenza lo avrebbe, com'è possibile supporre, “consegnato” a uno scritto, il quale se letto da un “non iniziato” ne sarebbe sortito un sacrilegio.
Come narrano notizie ritenute storiche, ai piedi del Colle Palatino, nel primo periodo della Repubblica Romana (V secolo a. C.), si eleva un’ara su cui è incisa l’iscrizione: ” GENIO URBIS ROMAE SIVE MAS SIVE FOEMINA”, vale a dire.”Al genio della città di Roma, sia esso maschio o femmina”. Come non rammentare, a questo proposito, che da tempo immemore è venerata la divinità Pales, originariamente invocata come dio e, in seguito, come dea e altresì tramutata in una coppia di dei. Il “Genio” generalmente rappresenta, per i Romani, il nume tutelare che imprime la virtù, la forza dell’azione sia alla comunità sia all’individuo.
Nel 1829 è stata ritrovata, nella zona prossima alla Basilica di S. Anastasia al Palatino, un’ara sulla quale è intagliata un’iscrizione: ”SEI DEO SEI DEIVAE SAC(RUM) C. SEXTIUS C.F. CALVINIUS PR(AETOR) DE SENATI SENTENTIA RESTITUIT”, che tradotta annuncia: ”Sia a un dio, sia a una dea consacrato, Caio Sestio, figlio di Caio Calvino, pretore, per decreto del Senato rifece”. Indicato come “Ara Calvini” o “Ara Dei Ignoti” – Altare al Dio Sconosciuto-, questo piccolo reperto archeologico (oggi conservato presso l’Antiquarium Palatino), di forma arcaica, potrebbe essere stato restaurato (92 a. C., circa) dal pretore Caio Sesto Calvino, come approvato dal Senato. Pur tra diverse ipotesi elaborate in merito al culto che essa rappresenterebbe, la frase rituale rivolta a un nume non identificato (un dio o una dea) rimanda all’evocazione rivolta al Genius Loci, “essenza spirituale” di una località, divinità tutelare di ogni preciso luogo, culto antichissimo assimilato dai Romani. Infatti, il verbo restituit conduce all’idea che l’altare fosse in modo ricorrente “rinnovato”, mantenendone accesa la sua caratterizzazione originaria, quell’usanza religiosa arcaica. 
Il segreto nome della divinità protettrice di Roma è celato, secondo quanto si è considerato, ugualmente come quello occulto della città, che una peculiare lettura, già usata dai popoli italici preromani riguardo alle denominazioni, asserisce di svelare. Infatti, esso sorgerebbe da “Amor”, come invero si avverte leggendo tale parola da desta a sinistra. Il sostegno di tale opinione sarebbe rappresentato da un’iscrizione, visibile su una parete di una dimora di Pompei, situata nella via fra le insulae VI e X  della Regio I. Questo graffito, accostabile a quello del Sator (detto anche quadrato magico), anch’esso rinvenuto negli scavi pompeiani -presente altresì in alcuni luoghi della “Città Eterna”-, è composto da quattro righe sistemate come un quadrato, allusione, per alcuni, alla “Roma Quadrata” del Colle Palatino. Le lettere esterne, iniziando dall’alto e volgendosi in basso, continuando a destra e infine proseguendo nuovamente verso la parte più elevata, formano il nome di Roma alternato a quello di Amor:
Immagine tratta da "Google Immagini"
All’inconoscibile nome di Roma è associato, secondo ulteriori ipotesi, il culto di Venere – madre di Enea, progenitrice della Gens Iulia, quindi dei Romani stessi- come attesterebbe il grandioso Tempio ad ella dedicato insieme alla dea Roma, quest’ultima raffigurata con la mano destra contenente il Palladium, la piccola immagine di Pallade Atena, che il mito vuole portata da quell’eroe troiano nell’approdo laziale -prossimo alla futura potente città-, scultura divenuta emblema dell’eternità “dell’Urbe”. Divinità complementari, quindi, cui la prima assume l’ipostasi di dea della fecondità, di dea madre della natura creatrice universale. In quel luogo le due divinità appaiono nella medesima grandezza, ambedue assise su un trono, e ad esse si offrono, contemporaneamente, gli incensi, come canta il poeta latino cristiano Prudenzio (348 – 405). Attraverso questo vastissimo tempio, voluto dall’imperatore Adriano (costruzione iniziata nel 121 e terminata nel 141 da Antonino Pio) s’indica quanto il palese nome della Città, deificata, sia legato a un intimo significato ancestrale, cosmico.




Ara Dei Ignoti, Antiquarium Palatino. Immagine tratta da "Google Immagini"

sabato 17 gennaio 2015

La mostra “I Bassifondi del Barocco. La Roma del vizio e della miseria”: considerazioni

 
 

Presso l’Accademia di Francia di Roma -Villa Medici- sta per concludersi questa particolare mostra (7 ottobre 2014 – 18 gennaio 2015), che raccoglie oltre cinquanta opere (provenienti da musei italiani e da altri paesi europei, nonché da collezioni private) realizzate nella “Città Eterna” all’incirca dal 1611 al 1667, con le quali diversi artisti sia italiani sia, soprattutto, provenienti da differenti paesi nord europei, ne hanno raffigurato gli ambienti volgari, truculenti, miseri, viziosi. In sostanza l’aspetto proprio delle bettole, dei luoghi ove impera la più sfrenata licenziosità, che rappresentano l’oscura, contraddittoria, realtà opposta allo sfavillio di Roma barocca.
 
Si assiste, in tale ambito, a una sorta di “compendiosa” raffigurazione caravaggesca –che pur comprende opere di alto valore pittorico-, esasperandone alcune narrazioni e caratterizzazioni visive, le quali, talvolta, contengono sfumature morali, fino a conchiuderla in uno specchio ove si riflettono dettagli bizzarri, fatti di cronaca, paesaggi urbani traboccanti di figure stordite, chiassose o miserevoli, vedute campestri romane in cui le antiche memorie sono deturpate da atti di violenza o da oscenità.
 
Da tale magma si distinguono i caravaggisti, che imitando la cifra del Merisi, pur non costituendo un movimento uniforme (composto da due generazioni di pittori) e privi di analoghi intenti artistici, manifestano in diversi lavori tratti personali, modi eleganti e raffinati. Tra questi si ricordano, in virtù delle tele presenti in mostra: Bartolomeo Manfredi (che a sua volta, insieme con altri, influenza la seconda “ondata” caravaggesca), Pietro Paolini, Nicolas Régnier, Simon Vouet, Jusepe de Ribera detto lo Spagnoletto, Valentin de Boulogne detto il Valentin, Nicolas Tournier, Claude Vignon, Bartolomeo Cavarozzi, Angelo Caroselli (uno dei primi caravaggisti), Dick van Baburen.
 
Benché, il Caravaggio, non abbia formato alcun “allievo”, cui trasmettere i principi attraverso i quali concepisce i suoi lavori, ovvero la “tecnica” utilizzata per eseguirli, il suo stile, a pochi anni dalla morte (1610), è tra i più affermati a Roma, divulgandosi rapidamente non solo nel resto dell’Italia (soprattutto nei luoghi dei suoi soggiorni) ma altrettanto in Europa. Già da lungo tempo la città è meta di artisti stranieri, che dal 1612, circa, aumentano notevolmente (tra i primi il Valentin e il Vouet) giungendo, in maggior numero, dai Paesi Bassi e dalla Francia. Essi studiano l’opera del Merisi, assimilandola e inserendovi personali interpretazioni sino a diventare, essi stessi, dei riferimenti per i successivi caravaggisti.  
 
Questa manifestazione espositiva intende illustrare un preciso lato, una “determinata tematica” toccata appena o sviluppata da pittori, nella maggior parte dei casi non confinabili in tale contesto. Trova così ragione la presenza del quadro di Giovanni Lanfranco, “Giovane nudo sul letto con un gatto” conosciuto come “Venere al maschile” (Walpole Gallery, Londra), realizzato tra il 1620 e il 1622, quando la sua concezione pittorica è già, da circa un lustro, barocca; eppure l’artista parmense in questo ammirevole dipinto recupera la lezione caravaggesca, appresa, un decennio prima, attraverso lo studio di coloro che rielaborano, con brillante personalità, lo stile del Merisi, il suo contrasto chiaroscurale, le sue potenzialità luministiche. La, quasi, nudità e la posa della figura rimanda (vagamente) a soggetti immortalati dal Caravaggio, tra i quali il “S. Giovannino” (Pinacoteca Capitolina); si nota nel viso un’espressione pressoché canzonatoria e un ambiente scenico che vuole, con mordace ironia, rovesciare i consueti modelli.
 
Gran parte di quei pittori, di origine nordica, operosi in Roma segnatamente tra il 1617 e il 1660 circa, crea una fragorosa compagnia (intorno al 1623; soppressa nel 1720), detta “Schilderbent (vale a dire “banda di pittori”), nata con propositi di mutua assistenza fra connazionali o fra artisti stranieri, cui gli “adepti” si nominano “Bentvueghels”(letteralmente “gli uccelli della banda”). Ben presto, però, si trasforma in una “associazione” che negli eccessi trova l’incandescente moto creativo, esaltato nei riti dionisiaci, celebrati in infime taverne, nelle quali il vino scorre in dismisurata quantità tra un’esaltazione di sensi.
 
Nella Roma di quest’epoca sono frequentissime le feste tragicamente terminate, le brutali contese, le violenze di ogni tipo, che sono poste nella scena pittorica dai “Bamboccianti”, sorti dalla “Bent”, in azione, soprattutto, tra il 1624 e il 1653. Questa “corrente naturalistica” -variamente connotata di echi caravaggeschi- è volta a rappresentare gli atti di vita quotidiana, erede di un “genere basso”, grottesco, privo di carattere erudito, che accoglie il mondo dei poveri, dei mendicanti, dei contadini, dei mestieri più popolari e umili, delle meretrici, della sregolatezza, dei rischi di un’esistenza posta in pericolo da atti ed eventi rapinosi, travolgenti. La pur viva partecipazione, dei suoi membri, ai temi e ai personaggi raffigurati, non possiede, generalmente, la perentoria adesione umana, il rigore psicologico nel rappresentare la realtà. Poiché l’esponente più noto è il pittore olandese Pieter Van Lear, detto, durante il suo lungo soggiorno romano (1625-1639), il Bamboccio (in mostra un suo “Autoritratto”, piccolo olio su tela) per il suo aspetto fisico deforme e involontariamente ridicolo, quei dipinti (finestre aperte sul vero) sono appellati “bambocciate” e, di conseguenza, gli autori “Bamboccianti”.  Di quest’ultimi sono esposti quadri di Michael Sweerts (“bambocciante” solo per un tratto del suo eclettico percorso artistico), Jan Miel (anch’egli solo per un periodo è compreso in tale corrente), Johannes Lingelbach, Sebastien Bourdon (versatile pittore, successivamente approda a un’idealità classica talora permeata d’accenti barocchi).
 
L’esposizione comprende anche due tele di Claude Gelée detto Le Lorrain o Claudio Lorenese (1600 – 1682), uno tra i maggiori protagonisti della pittura di “paesaggio classico”, che eserciterà un evidente influsso su questo genere pittorico in ugual modo nel XVIII e nel XIX secolo. Lontani, invece, da quell’aulica idealizzazione paesaggistica, i temi di questi quadri –“Veduta di Roma con una scena di prostituzione”, “Scena pastorale con un giovane che orina tra le rovine”-, pur palesando un’eccellente disegno, confermano il protagonismo di quel disordine morale, di quel trasgressivo sberleffo, argomenti della mostra.
 
Bacco e un bevitore
(Bartolomeo Manfredi, 1621 -1622; Galleria Nazionale di Arte Antica in Palazzo Barberini)
Bartolomeo Manfredi fa parte della prima generazione del “gruppo” dei caravaggisti; i suoi lavori sono caratterizzati da una caratteristica cupezza, impressa sui quadri sia di carattere religioso sia di segno umile, popolaresco (giocatori di carte, bevitori –oggetto di un altro lodevole quadro in mostra-, soldati, musici, cartomanti e così via). Varia il linguaggio del Caravaggio trascurandone gli aspetti più drammatici o spirituali, la tensione originaria, elaborando un impianto descrittivo e innovandone il carattere naturalistico.
 
Il cosiddetto “metodo manfrediano” (Manfrediana Methodus) ha grandissimo seguito, specie tra quel gruppo di pittori nordici, incentrato su una stupefacente abilità tecnica con la quale distribuisce le luci e le ombre sull’incarnato dei personaggi ritratti e sui tessuti.
 
Tra le opere presentate, questa mi è apparsa la più identificativa rispetto al soggetto della mostra, considerando l’importanza storico artistica dell’autore.
 
Bacco, fin dall’era antica, rappresenta una divinità della natura feconda, che attraverso il vino spinge i sensi verso la libertà; l’ebbrezza che ne deriva slega l’uomo dal gravame delle angustie e svela un’occulta conoscenza, un sapere dal quale s’intensifica la facoltà d’immaginazione e da qui si eleva, inarrestabile, il furore creativo. 
 
 
La tela, di tipica iconografia, contiene il fondo scuro contrastante la luce rasente che indaga le due figure: il dio sembra distillare, dal racemo, il vino veritas, raccolto nella trasparente coppa dal bevitore, già colto nell’atto di bere e cinto dallo stordimento della, solida, ubriachezza. Lo sguardo di Bacco esprime un’allegria che è in procinto di erompere dalla scena, espressa in lieve diagonale per dare slancio all’azione, la quale descrive, in antitesi chiaroscurali, la preminenza della divinità.
 
 
Immagine tratta da "Google Immagini"
 
 




mercoledì 14 gennaio 2015

Un’originaria ornamentazione dell’arte cosmateca: il pavimento della Chiesa di S. Benedetto in Piscinula




La minuscola Chiesa di S. Benedetto in Piscinula, oggetto di un mio studio come la zona che la circonda, contiene delle bellezze artistiche inaspettate, tra episodi di profonda spiritualità secolare, che la palesano quale preziosità al pari di altre, più note, del rione di Trastevere.
Edificata nel XII secolo -i primi documenti ad essa riferiti sono datati 1192- inglobando le mura di un piccolo oratorio (VIII secolo, circa), che la tradizione individua come cella di S. Benedetto, ancora oggi vi risalta l’originario pavimento cosmatesco.
La scuola cosmatesca inizia proprio nel XII secolo ed è in auge sino a tutto il XIII secolo; essa è formata da “artigiani” romani attivi a Roma e in qualche località del Lazio, appartenenti a due distinte famiglie, nel seno delle quali è tramandata tale educazione artistica. Questa è caratterizzata, prevalentemente, da decorazioni delle superfici attuate con motivi geometrici, elaborati accostando zone marmoree bianche con folti pannelli di forma quadrata, rettangolare, rotonda, esagonale, triangolare e così via, nei quali risalta la policromia musiva (piccolissime tessere di pasta vitrea o di pietra). In alternativa la realizzazione avviene in opus sectile, vale a dire utilizzando lastre marmoree, di diverso spessore e di differenti dimensioni, che disegnano “mosse” raffigurazioni. Tale espressione artistica nel riprendere la tecnica dell’incrostatura (decorazione a tarsia marmorea parietale) dell’antichità, utilizza elementi decorativi locali, motivi bizantini sino ad accogliere, nella sua fase conclusiva, influenze arabe.
Gli artefici di tali ornamenti sono, dunque, detti Cosmati -già definiti altresì “marmorari romani”-, perché sovente ricorre il nome di Cosma; la loro attività si estende, con ammirevoli risultati, oltre la sistemazione ornamentale di pavimenti o di suppellettili liturgiche, comprendendo quindi opere architettoniche –però non affrontando quasi mai reali problemi costruttivi- e lavori scultorei, nei quali emerge, talvolta, una plasticità con richiami alle figurazioni del registro antico romano e da questo a quello paleocristiano.   
L’interno della Chiesa di S. Benedetto contiene la raffinata pavimentazione cosmatesca, nella quale il mosaico avvolge dischi di marmo, mostrandosi in irregolare asse con l’abside, quindi non con il muro obliquo dell’entrata; in tal modo il visitatore non avverte l’anomalia insita nell’allineamento delle pareti dell’edificio. Sorta di coloratissimo tappeto lapideo, il pavimento conduce il fedele dall’ombroso occidente (l’ingresso) al raggiante oriente (l’altare), percorso “metaforico” che allude al passaggio dalle tenebre e dai mortali affanni propri del “mondo” alla gloria celeste, attraverso Gesù Cristo, luce divina.  
 
 


 

 

giovedì 8 gennaio 2015

Francesco Cozza: La nascita della Vergine



Eccellente artista di grande fama (al suo tempo), Francesco Cozza (1605-1682), già allievo del Domenichino ne riprende, con personale cifra, la “nobilitazione pittorica” che imposta il suo stile, quasi non comparabile con altre coeve esperienze artistiche. Infatti, il suo paradigma plastico si realizza con sorprendente nitore e con intensa eleganza, in un armonico complesso di sorridente espressione e di straordinaria forza, di purezza e di misurata impostazione scenica non disgiunta da un naturalismo moderato ma vissuto intimamente.
 
A questo pittore non può essere attribuita un’identità barocca ma neppure una rigorosa metrica classicista, come dimostra il suo modello paesaggistico e la soavità dell’immagine femminile, la tenera proclività verso le scene della vita familiare e la leggiadria delle figure sacre nonché l’ariosa compostezza delle allegorie profane. Nel suo universo creativo trova consistenza il senso lieto e diffuso di un disegno proposto con calibrate luci, la penetrante attenzione nei riguardi sia dell’anatomia sia della prospettiva, il morbido brillio e i soffici riflessi che si diffondono, svelando una bellezza interminabile e una fervida spiritualità.
 
Da queste sue imprescindibili, spontanee, formule nascono i temi che lo “esprimono” artista singolarissimo per mezzo della sua raffinata capacità pittorica, la quale impagina la sua rara equilibrata sensitività in scenari ove è manifestamente percepibile il suo “nobile sentire”, le affascinanti figure sospese.
 
Un dipinto di Francesco Cozza, che ne mostra i tratti dello stile, è conservato presso la fastosa Galleria Colonna (Sala dei Primitivi) dell’omonimo Palazzo: La nascita della Vergine (1640, circa). Opera superstite della collezione della nobile famiglia romana, eseguita dall’artista calabrese, poiché le altre realizzate tra il 1650 e il 1654 (circa) sono andate disperse. Quadro già attribuito al Passignano (1559-1638) è stato definitivamente restituito al Cozza nel 1929.
 
D’impianto finemente narrativo, il soggetto sacro è raffigurato impiegando diversi dettagli rispondenti al “vero”, al “naturale”, come la donna che scalda il panno per avvolgere la neonata Maria o l’altra intenta a porgere il piatto contenente il brodo, elementi che illustrano una devota quotidianità. La scena è risolta in tre piani, i quali perfettamente si completano in un'articolata esposizione di luce e di chiaroscuri, quest’ultimi ben presenti nella parte superiore occupata dal grande letto a baldacchino, in cui S. Anna non giace passivamente ma è fulcro dell’azione; ella è avvolta dalla semioscurità in duttile contrasto con la luce del giorno, che lo spazioso arco ne distingue l’ingresso nella capace stanza, aperta, dunque, verso un paesaggio sereno confermato dall’atteggiamento dei due personaggi. Il dipinto è svolto con disegno che si ammorbidisce in un’armoniosa resa dei tessuti e degli ampi panneggi.       

 
Immagine tratta da "Google Immagini"
 
 
 

mercoledì 7 gennaio 2015

Roma: cenni geologici



 

Gli elementi portanti geologici del territorio, ove sorge Roma, spiegano lo strettissimo legame che li unisce alla plurimillenaria storia della “Città Eterna”. 
Il costante sereno aspetto morfologico dei suoi colli, definisce la dolcezza del territorio romano; piccole alture che lievemente discendono sino alla valle del Tevere e a quelle dei suoi antichi affluenti, cui gli intricati percorsi ancor oggi sono descritti, in parte, da alcune strade del Centro Storico.
 
Sottostante all’odierna pavimentazione stradale giace una copiosa eterogeneità di materiale, derivato sia dall’attività umana, sia dai differenti accadimenti geologici; ne deriva che, dunque, lo strato più superficiale è costituito da residui dovuti dall’opera svolta, durante le diverse epoche, dall’uomo, occupando un’estensione profonda da, circa, 5 a 10 metri.  Tale sostrato, attraverso il quale si ricostruiscono le articolate fasi storiche della città, conserva reperti archeologici ed è formato da detriti alluvionali, che hanno colmato una sorta di vasto canale di cospicua profondità (60 metri, circa), molto probabilmente da identificarsi con l’antico letto del Tevere, quando scorreva sino a una linea costiera più “dilatata” rispetto a quella attuale, che si estende in posizione molto arretrata rispetto a quella remota. Successivamente il livello del mare si è innalzato in modo rilevante durante il primo periodo postglaciale (12.000-10.000 anni fa, circa), con effetti sulla valle del Tevere, che è stata riempita da sabbie fluviali, da ciottoli e da fango.
Al di sotto di questi sedimenti alluvionali si trova un fitto “insieme” di sabbie fossilifere e di strati di limo, appartenenti a un antichissimo luogo costiero di, circa, 2/3 milioni di anni fa.
 
Si è accennato, all’inizio di questo post, dei complicati “tragitti geologici” rintracciabili in alcune aree del centro cittadino. Infatti, ad esempio, quella circostante alla Fontana di Trevi poggia sui depositi del Tevere, mentre quelle delle strade contigue a essa ripropongono il percorso degli antichi affluenti del fiume. Ancora, ad esempio, il pendio oggi corrispondente a Via del Tritone ricalca una sorta di canale fluviale, colmato da depositi alluvionali e da detriti relativi “dall’opera dell’uomo”.
 
Tutta la zona che conduce al Quirinale è di origine argillosa e sabbiosa, a causa dell’attività alluvionale del Tevere, il quale ampliandosi per la caduta di fitte piogge e quindi, sino all’inizio del XX secolo, oltrepassando i suoi argini, ha invaso spesso i terreni pianeggianti situati lungo le sue rive, spargendosi nel Centro Storico di Roma.
 
L’area sulla quale sorge il Palazzo del Quirinale corrisponde a una delle estremità di un espandimento lavico, un territorio pianeggiante formato da materiale solidificato -sovrapposto su depositi alluvionali dell’antico Tevere- emesso per la maggior parte dai vulcani presenti nell’attuale territorio dei Colli Albani e, in quantità minore, da quelli dei Monti Sabatini oggi zona collinare scaturita dai resti dell'antico Vulcano Sabatino, visibilmente testimoniati dai crateri che delineano i laghi di Bracciano e di Martignano. Tali manifestazioni proprie dell’attività vulcanica sono accadute tra 600.000 e 300.000 anni fa,  presentando colate piroclastiche, vale a dire un notevole scorrimento di elementi gassosi, di ceneri e di molteplici frammenti solidi mossi, dall’eruzione, con grande velocità. Le consistenti colate vulcaniche hanno interagito, in modo determinante, con il corso del Tevere e dei suoi tributari, colmandone le valli, imponendone nuovi percorsi attraverso i quali sono state incise altre depressioni sul territorio.
 
Attualmente la valle del Tevere appare limitata a occidente dai rialti formati da Monte Mario (colle alto 139 metri, rappresenta l’altura più elevata di Roma), dal Colle Vaticano e dal Gianicolo. L’origine di questi colli è molto differente e parecchio più antica rispetto a quella degli altri sette – così come sono definiti: Aventino, Capitolino (o Campidoglio), Celio, Esquilino, Palatino, Quirinale e Viminale-, situati a oriente del fiume, morfologicamente uniformi nonché strettamente connessi con il territorio pianeggiante; essi sono stati creati dall’azione di un vasto espandimento lavico. I tre colli occidentali, al contrario, devono la loro diversa composizione ai sedimenti sabbioso-argillosi giacenti, oltre 1.000.000 di anni fa, sui fondali di un mare non profondo, ricoprente l’intera area. In epoca successiva una faglia - frattura nelle rocce della crosta terrestre che scivolano sopra altre rocce- ne ha determinato il sollevamento, sino a raggiungere la collocazione oggi visibile.
 
L’effetto di questa lunga e complessa “reciprocità” di fenomeni e di elementi è delineata dalla peculiarità morfologica, che ha permesso la trasformazione del territorio interessato come luogo ideale per piccoli insediamenti, agevolmente difendibili e in posizione strategica ai fini degli scambi commerciali; da tale felice circostanza nasce Roma. Oltre a ciò, dai depositi magmatici sono stati tratti i blocchi di tufo, utilizzati, come descrive la sua storia, quali pietre da costruzione, poiché queste rocce -non particolarmente dure e quindi agilmente lavorabili- offrono un ausilio ottimale riguardo alla stabilità di quanto si edifica. In sostanza, essi hanno costituito cave facilmente sfruttabili per il rifornimento edilizio. Altresì questa “naturale” linea di sviluppo urbano ha consentito la crescita e la straordinaria affermazione dell’antica Roma, in cui il terreno pianeggiante si destina, maggiormente, a edifici di uso pubblico (templi, teatri, caserme e così via) e quindi tutti facilmente evacuabili se minacciati o colpiti da gravosi eventi naturali (e non); si privilegiano, invece, per l’edilizia abitativa (a favore dei più abbienti) le aree collinari, oggettivamente più salubri e più sicure.
 
L’insediamento di edifici privati nelle aree alluvionali del Tevere inizia, in via generale, soltanto nel Medioevo, esponendo le abitazioni, soprattutto le più misere, a rovinose inondazioni.
 
 
Uno scorcio del Gianicolo