Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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giovedì 22 gennaio 2015

Il nome segreto di Roma



Tra i molteplici segreti di Roma vi è compreso quello del suo occulto nome, tale perdura dalla profonda antichità ai giorni nostri.
Plinio il Vecchio (23 – 79 d.C.) nella sua Naturalis Historia enorme opera composta da trentasette libri, riguardo alla Città afferma che dei misteriosi riti proibiscono di pronunciare “l’altro nome di Roma … Non è fuori proposito accennare … a una particolarità dell’antica religione … La dea Angerona … ha il simulacro con la bocca chiusa, sigillata”.  Lo scrittore latino indica, dunque, il simulacrum di questa dea quale simbolo della grande valenza che, il silenzio, rappresenta nella cultura romana; esso appare un mezzo strettamente connesso con la protezione di Roma, contro i suoi nemici, attuata anche tramite il tacere.
Gaio Giulio Solino (vissuto tra il III e il IV secolo d.C.), autore della Collectanea rerum memorabilium, raccolta di nozioni storiche, geografiche e simili, ispirata dal lavoro enciclopedico di Plinio il Vecchio, conosciuta come Polyhstor, asserisce che il vero nome di Roma è sconosciuto al popolo, essendone vietata la divulgazione mentre, fin dall’epoca regia, lo tramandano, con arcane cerimonie, i sommi reggitori dello Stato nel trasmettersi il potere; soltanto il pontifex maximus, il primo del collegio sacerdotale, pronuncia, con bassissimo tono della voce, quell’oscuro nome durante determinati atti rituali e dinanzi all’ara. Anche Macrobio (scrittore vissuto tra il IV e V secolo d.C.) riferisce che quel nomare “è ignorato anche dai più dotti”.
Il motivo di tale segreto risiede nell’idea – presente non solo nella tradizione romana- che il nome esprima l’energia del soggetto nominato; conoscerlo, dunque, equivale a possedere nella sua interezza il soggetto medesimo, imperando sulla sua esistenza sino a estinguerla. Infatti, come rammenta anche Verrio Flacco (grammatico latino, vissuto tra la fine del I secolo a. C. e la prima parte del I secolo d. C.), gli stessi Romani, generalmente, durante gli assedi delle città nemiche ne evocano le divinità tutelari, tramite una formula. Si concepisce così la ragione del celato nome del dio, al quale Roma si affida.
Lo storico Tito Livio (59 a. C. - 17 d. C.) sotto tale aspetto ricorda che, Marco Furio Camillo, conosciuto il nume protettore di Veio lo invoca, prima di conquistare quell’antica città etrusca (396 a. C.) esclamando: ” Ti scongiuro oh Uni Regina (Giunone etrusca), che hai culto in Veio, di volerci seguire vincitori a Roma, ove la tua grandezza avrà un tempio degno di te”. Similmente agisce Publio Cornelio Scipione Emiliano, durante l’ultimo assalto a Cartagine (146 a. C.), allorché pronuncia quella stessa formula, con la quale supplica la divinità tutelare cartaginese di abbandonare quei templi eretti in quella città e di accogliere la regale ospitalità offertale da Roma, dove edificare luoghi di culto e istituire giochi ad essa dedicati. Da questa consolidata e particolare usanza sembrano scaturire i versi di Virgilio (70 – 19 a. C.), contenuti nel secondo libro dell’Eneide, nel doloroso ricordo di Enea circa “l’estremo travaglio di Troia”: ”Gli dei si sono tutti ritirati dai loro santuari, hanno abbandonato le are, essi che avevano protetto questo Stato”.
Soltanto alcune ipotesi, oggi, si possono proporre relativamente all’identificazione del dio protettore (maschio e/o femmina) e del nome nascosto di Roma, poiché, prescindendo dagli antichi racconti con propositi ammonitori, nessun personaggio che ne avesse avuto conoscenza lo avrebbe, com'è possibile supporre, “consegnato” a uno scritto, il quale se letto da un “non iniziato” ne sarebbe sortito un sacrilegio.
Come narrano notizie ritenute storiche, ai piedi del Colle Palatino, nel primo periodo della Repubblica Romana (V secolo a. C.), si eleva un’ara su cui è incisa l’iscrizione: ” GENIO URBIS ROMAE SIVE MAS SIVE FOEMINA”, vale a dire.”Al genio della città di Roma, sia esso maschio o femmina”. Come non rammentare, a questo proposito, che da tempo immemore è venerata la divinità Pales, originariamente invocata come dio e, in seguito, come dea e altresì tramutata in una coppia di dei. Il “Genio” generalmente rappresenta, per i Romani, il nume tutelare che imprime la virtù, la forza dell’azione sia alla comunità sia all’individuo.
Nel 1829 è stata ritrovata, nella zona prossima alla Basilica di S. Anastasia al Palatino, un’ara sulla quale è intagliata un’iscrizione: ”SEI DEO SEI DEIVAE SAC(RUM) C. SEXTIUS C.F. CALVINIUS PR(AETOR) DE SENATI SENTENTIA RESTITUIT”, che tradotta annuncia: ”Sia a un dio, sia a una dea consacrato, Caio Sestio, figlio di Caio Calvino, pretore, per decreto del Senato rifece”. Indicato come “Ara Calvini” o “Ara Dei Ignoti” – Altare al Dio Sconosciuto-, questo piccolo reperto archeologico (oggi conservato presso l’Antiquarium Palatino), di forma arcaica, potrebbe essere stato restaurato (92 a. C., circa) dal pretore Caio Sesto Calvino, come approvato dal Senato. Pur tra diverse ipotesi elaborate in merito al culto che essa rappresenterebbe, la frase rituale rivolta a un nume non identificato (un dio o una dea) rimanda all’evocazione rivolta al Genius Loci, “essenza spirituale” di una località, divinità tutelare di ogni preciso luogo, culto antichissimo assimilato dai Romani. Infatti, il verbo restituit conduce all’idea che l’altare fosse in modo ricorrente “rinnovato”, mantenendone accesa la sua caratterizzazione originaria, quell’usanza religiosa arcaica. 
Il segreto nome della divinità protettrice di Roma è celato, secondo quanto si è considerato, ugualmente come quello occulto della città, che una peculiare lettura, già usata dai popoli italici preromani riguardo alle denominazioni, asserisce di svelare. Infatti, esso sorgerebbe da “Amor”, come invero si avverte leggendo tale parola da desta a sinistra. Il sostegno di tale opinione sarebbe rappresentato da un’iscrizione, visibile su una parete di una dimora di Pompei, situata nella via fra le insulae VI e X  della Regio I. Questo graffito, accostabile a quello del Sator (detto anche quadrato magico), anch’esso rinvenuto negli scavi pompeiani -presente altresì in alcuni luoghi della “Città Eterna”-, è composto da quattro righe sistemate come un quadrato, allusione, per alcuni, alla “Roma Quadrata” del Colle Palatino. Le lettere esterne, iniziando dall’alto e volgendosi in basso, continuando a destra e infine proseguendo nuovamente verso la parte più elevata, formano il nome di Roma alternato a quello di Amor:
Immagine tratta da "Google Immagini"
All’inconoscibile nome di Roma è associato, secondo ulteriori ipotesi, il culto di Venere – madre di Enea, progenitrice della Gens Iulia, quindi dei Romani stessi- come attesterebbe il grandioso Tempio ad ella dedicato insieme alla dea Roma, quest’ultima raffigurata con la mano destra contenente il Palladium, la piccola immagine di Pallade Atena, che il mito vuole portata da quell’eroe troiano nell’approdo laziale -prossimo alla futura potente città-, scultura divenuta emblema dell’eternità “dell’Urbe”. Divinità complementari, quindi, cui la prima assume l’ipostasi di dea della fecondità, di dea madre della natura creatrice universale. In quel luogo le due divinità appaiono nella medesima grandezza, ambedue assise su un trono, e ad esse si offrono, contemporaneamente, gli incensi, come canta il poeta latino cristiano Prudenzio (348 – 405). Attraverso questo vastissimo tempio, voluto dall’imperatore Adriano (costruzione iniziata nel 121 e terminata nel 141 da Antonino Pio) s’indica quanto il palese nome della Città, deificata, sia legato a un intimo significato ancestrale, cosmico.




Ara Dei Ignoti, Antiquarium Palatino. Immagine tratta da "Google Immagini"

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