Tra
i molteplici segreti di Roma vi è compreso quello del suo occulto nome, tale perdura
dalla profonda antichità ai giorni nostri.
Plinio
il Vecchio (23 – 79 d.C.) nella sua Naturalis
Historia enorme opera composta da trentasette libri, riguardo alla Città
afferma che dei misteriosi riti proibiscono di pronunciare “l’altro nome di Roma … Non è fuori proposito
accennare … a una particolarità dell’antica religione … La dea Angerona … ha il
simulacro con la bocca chiusa, sigillata”. Lo scrittore latino indica, dunque, il simulacrum di questa dea quale simbolo
della grande valenza che, il silenzio, rappresenta nella cultura romana; esso
appare un mezzo strettamente connesso con la protezione di Roma, contro i suoi
nemici, attuata anche tramite il tacere.
Gaio
Giulio Solino (vissuto tra il III e il IV secolo d.C.), autore della Collectanea rerum memorabilium, raccolta di nozioni
storiche, geografiche e simili, ispirata dal lavoro
enciclopedico di Plinio il Vecchio, conosciuta come Polyhstor, asserisce che il vero nome di Roma è sconosciuto al
popolo, essendone vietata la divulgazione mentre, fin dall’epoca regia, lo
tramandano, con arcane cerimonie, i sommi reggitori dello Stato nel trasmettersi
il potere; soltanto il pontifex maximus, il primo del collegio
sacerdotale, pronuncia, con bassissimo tono della voce, quell’oscuro nome
durante determinati atti rituali e dinanzi all’ara. Anche Macrobio (scrittore vissuto tra il IV e V secolo d.C.)
riferisce che quel nomare “è ignorato
anche dai più dotti”.
Il
motivo di tale segreto risiede nell’idea – presente non solo nella tradizione
romana- che il nome esprima l’energia del soggetto nominato; conoscerlo,
dunque, equivale a possedere nella sua interezza il soggetto medesimo,
imperando sulla sua esistenza sino a estinguerla. Infatti, come rammenta anche
Verrio Flacco (grammatico latino, vissuto tra la fine del I secolo a. C. e la
prima parte del I secolo d. C.), gli stessi Romani, generalmente, durante gli
assedi delle città nemiche ne evocano le divinità tutelari, tramite una
formula. Si concepisce così la ragione del celato nome del dio, al quale Roma
si affida.
Lo
storico Tito Livio (59 a. C. - 17 d. C.) sotto tale aspetto ricorda che, Marco
Furio Camillo, conosciuto il nume protettore di Veio lo invoca, prima di
conquistare quell’antica città etrusca (396 a. C.) esclamando: ” Ti scongiuro oh Uni Regina (Giunone
etrusca), che hai culto in Veio, di
volerci seguire vincitori a Roma, ove la tua grandezza avrà un tempio degno di
te”. Similmente agisce Publio Cornelio Scipione Emiliano, durante l’ultimo
assalto a Cartagine (146 a. C.), allorché pronuncia quella stessa formula, con
la quale supplica la divinità tutelare cartaginese di abbandonare quei templi
eretti in quella città e di accogliere la regale ospitalità offertale da Roma, dove
edificare luoghi di culto e istituire giochi ad essa dedicati. Da questa
consolidata e particolare usanza sembrano scaturire i versi di Virgilio (70 –
19 a. C.), contenuti nel secondo libro dell’Eneide, nel doloroso ricordo di
Enea circa “l’estremo travaglio di Troia”:
”Gli dei si sono tutti ritirati dai loro
santuari, hanno abbandonato le are, essi che avevano protetto questo Stato”.
Soltanto
alcune ipotesi, oggi, si possono proporre relativamente all’identificazione del
dio protettore (maschio e/o femmina) e del nome nascosto di Roma, poiché,
prescindendo dagli antichi racconti con propositi ammonitori, nessun
personaggio che ne avesse avuto conoscenza lo avrebbe, com'è possibile
supporre, “consegnato” a uno scritto, il quale se letto da un “non iniziato” ne
sarebbe sortito un sacrilegio.
Come
narrano notizie ritenute storiche, ai piedi del Colle Palatino, nel primo
periodo della Repubblica Romana (V secolo a. C.), si eleva un’ara su cui è
incisa l’iscrizione: ” GENIO URBIS ROMAE
SIVE MAS SIVE FOEMINA”, vale a dire.”Al
genio della città di Roma, sia esso maschio o femmina”. Come non
rammentare, a questo proposito, che da tempo immemore è venerata la divinità
Pales, originariamente invocata come dio e, in seguito, come dea e altresì
tramutata in una coppia di dei. Il “Genio” generalmente rappresenta, per i
Romani, il nume tutelare che imprime la virtù, la forza dell’azione sia alla
comunità sia all’individuo.
Nel
1829 è stata ritrovata, nella zona prossima alla Basilica di S. Anastasia al
Palatino, un’ara sulla quale è intagliata un’iscrizione: ”SEI DEO SEI DEIVAE SAC(RUM) C. SEXTIUS C.F. CALVINIUS PR(AETOR) DE
SENATI SENTENTIA RESTITUIT”, che tradotta annuncia: ”Sia a un dio, sia a una dea consacrato, Caio Sestio, figlio di Caio
Calvino, pretore, per decreto del Senato rifece”. Indicato come “Ara
Calvini” o “Ara Dei Ignoti” – Altare al Dio Sconosciuto-, questo piccolo
reperto archeologico (oggi conservato presso l’Antiquarium Palatino), di forma arcaica, potrebbe essere stato
restaurato (92 a. C., circa) dal pretore Caio Sesto Calvino, come approvato dal
Senato. Pur tra diverse ipotesi elaborate in merito al culto che essa
rappresenterebbe, la frase rituale rivolta a un nume non identificato (un dio o
una dea) rimanda all’evocazione rivolta al Genius
Loci, “essenza spirituale” di una località, divinità tutelare di ogni
preciso luogo, culto antichissimo assimilato dai Romani. Infatti, il verbo restituit conduce all’idea che l’altare
fosse in modo ricorrente “rinnovato”, mantenendone accesa la sua
caratterizzazione originaria, quell’usanza religiosa arcaica.
Il
segreto nome della divinità protettrice di Roma è celato, secondo quanto si è
considerato, ugualmente come quello occulto della città, che una peculiare
lettura, già usata dai popoli italici preromani riguardo alle denominazioni,
asserisce di svelare. Infatti, esso sorgerebbe da “Amor”, come invero si avverte leggendo tale parola da desta a
sinistra. Il sostegno di tale opinione sarebbe rappresentato da un’iscrizione,
visibile su una parete di una dimora di Pompei, situata nella via fra le insulae VI e X della Regio
I. Questo graffito, accostabile a quello del Sator (detto anche quadrato magico), anch’esso rinvenuto negli
scavi pompeiani -presente altresì in alcuni luoghi della “Città Eterna”-, è
composto da quattro righe sistemate come un quadrato, allusione, per alcuni,
alla “Roma Quadrata” del Colle Palatino. Le lettere esterne, iniziando
dall’alto e volgendosi in basso, continuando a destra e infine proseguendo
nuovamente verso la parte più elevata, formano il nome di Roma alternato a
quello di Amor:
Immagine tratta da "Google Immagini" |
All’inconoscibile
nome di Roma è associato, secondo ulteriori ipotesi, il culto di Venere – madre
di Enea, progenitrice della Gens Iulia,
quindi dei Romani stessi- come attesterebbe il grandioso Tempio ad ella
dedicato insieme alla dea Roma, quest’ultima raffigurata con la mano destra
contenente il Palladium, la piccola
immagine di Pallade Atena, che il mito vuole portata da quell’eroe troiano
nell’approdo laziale -prossimo alla futura potente città-, scultura divenuta
emblema dell’eternità “dell’Urbe”. Divinità complementari, quindi, cui la prima
assume l’ipostasi di dea della fecondità, di dea madre della natura creatrice
universale. In quel luogo le due divinità appaiono nella medesima grandezza,
ambedue assise su un trono, e ad esse si offrono, contemporaneamente, gli
incensi, come canta il poeta latino cristiano Prudenzio (348 – 405). Attraverso
questo vastissimo tempio, voluto dall’imperatore Adriano (costruzione iniziata
nel 121 e terminata nel 141 da Antonino Pio) s’indica quanto il palese nome
della Città, deificata, sia legato a un intimo significato ancestrale, cosmico.
Ara Dei Ignoti, Antiquarium Palatino. Immagine tratta da "Google Immagini" |
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