Presso
l’Accademia di Francia di Roma -Villa Medici- sta per concludersi questa
particolare mostra (7 ottobre 2014 – 18 gennaio 2015), che raccoglie oltre
cinquanta opere (provenienti da musei italiani e da altri paesi europei, nonché
da collezioni private) realizzate nella “Città Eterna” all’incirca dal 1611 al
1667, con le quali diversi artisti sia italiani sia, soprattutto, provenienti
da differenti paesi nord europei, ne hanno raffigurato gli ambienti volgari, truculenti,
miseri, viziosi. In sostanza l’aspetto proprio delle bettole, dei luoghi ove
impera la più sfrenata licenziosità, che rappresentano l’oscura,
contraddittoria, realtà opposta allo sfavillio di Roma barocca.
Si
assiste, in tale ambito, a una sorta di “compendiosa” raffigurazione
caravaggesca –che pur comprende opere di alto valore pittorico-, esasperandone
alcune narrazioni e caratterizzazioni visive, le quali, talvolta, contengono
sfumature morali, fino a conchiuderla in uno specchio ove si riflettono dettagli
bizzarri, fatti di cronaca, paesaggi urbani traboccanti di figure stordite, chiassose
o miserevoli, vedute campestri romane in cui le antiche memorie sono deturpate
da atti di violenza o da oscenità.
Da
tale magma si distinguono i caravaggisti, che imitando la cifra del Merisi, pur
non costituendo un movimento uniforme (composto da due generazioni di pittori) e
privi di analoghi intenti artistici, manifestano in diversi lavori tratti
personali, modi eleganti e raffinati. Tra questi si ricordano, in virtù delle
tele presenti in mostra: Bartolomeo Manfredi (che a sua volta, insieme con
altri, influenza la seconda “ondata” caravaggesca), Pietro Paolini, Nicolas
Régnier, Simon Vouet, Jusepe de Ribera detto lo Spagnoletto, Valentin de
Boulogne detto il Valentin, Nicolas Tournier, Claude Vignon, Bartolomeo
Cavarozzi, Angelo Caroselli (uno dei primi caravaggisti), Dick van Baburen.
Benché,
il Caravaggio, non abbia formato alcun “allievo”, cui trasmettere i principi
attraverso i quali concepisce i suoi lavori, ovvero la “tecnica” utilizzata per
eseguirli, il suo stile, a pochi anni dalla morte (1610), è tra i più affermati
a Roma, divulgandosi rapidamente non solo nel resto dell’Italia (soprattutto
nei luoghi dei suoi soggiorni) ma altrettanto in Europa. Già da lungo tempo la
città è meta di artisti stranieri, che dal 1612, circa, aumentano notevolmente
(tra i primi il Valentin e il Vouet) giungendo, in maggior numero, dai Paesi
Bassi e dalla Francia. Essi studiano l’opera del Merisi, assimilandola e
inserendovi personali interpretazioni sino a diventare, essi stessi, dei
riferimenti per i successivi caravaggisti.
Questa
manifestazione espositiva intende illustrare un preciso lato, una “determinata
tematica” toccata appena o sviluppata da pittori, nella maggior parte dei casi non
confinabili in tale contesto. Trova così ragione la presenza del quadro di
Giovanni Lanfranco, “Giovane nudo sul
letto con un gatto” conosciuto come “Venere
al maschile” (Walpole Gallery, Londra), realizzato tra il 1620 e il 1622, quando
la sua concezione pittorica è già, da circa un lustro, barocca; eppure
l’artista parmense in questo ammirevole dipinto recupera la lezione
caravaggesca, appresa, un decennio prima, attraverso lo studio di coloro che rielaborano,
con brillante personalità, lo stile del Merisi, il suo contrasto chiaroscurale,
le sue potenzialità luministiche. La, quasi, nudità e la posa della figura
rimanda (vagamente) a soggetti immortalati dal Caravaggio, tra i quali il “S. Giovannino” (Pinacoteca Capitolina);
si nota nel viso un’espressione pressoché canzonatoria e un ambiente scenico
che vuole, con mordace ironia, rovesciare i consueti modelli.
Gran
parte di quei pittori, di origine nordica, operosi in Roma segnatamente tra il
1617 e il 1660 circa, crea una fragorosa compagnia (intorno al 1623; soppressa
nel 1720), detta “Schilderbent (vale
a dire “banda di pittori”), nata con propositi di mutua assistenza fra connazionali
o fra artisti stranieri, cui gli “adepti” si nominano “Bentvueghels”(letteralmente “gli uccelli della banda”). Ben presto,
però, si trasforma in una “associazione” che negli eccessi trova l’incandescente
moto creativo, esaltato nei riti dionisiaci, celebrati in infime taverne, nelle
quali il vino scorre in dismisurata quantità tra un’esaltazione di sensi.
Nella
Roma di quest’epoca sono frequentissime le feste tragicamente terminate, le
brutali contese, le violenze di ogni tipo, che sono poste nella scena pittorica
dai “Bamboccianti”, sorti dalla “Bent”,
in azione, soprattutto, tra il 1624 e il 1653. Questa “corrente naturalistica” -variamente
connotata di echi caravaggeschi- è volta a rappresentare gli atti di vita
quotidiana, erede di un “genere basso”, grottesco, privo di carattere erudito, che
accoglie il mondo dei poveri, dei mendicanti, dei contadini, dei mestieri più
popolari e umili, delle meretrici, della sregolatezza, dei rischi di
un’esistenza posta in pericolo da atti ed eventi rapinosi, travolgenti. La pur
viva partecipazione, dei suoi membri, ai temi e ai personaggi raffigurati, non
possiede, generalmente, la perentoria adesione umana, il rigore psicologico nel
rappresentare la realtà. Poiché l’esponente più noto è il pittore olandese
Pieter Van Lear, detto, durante il suo lungo soggiorno romano (1625-1639), il
Bamboccio (in mostra un suo “Autoritratto”,
piccolo olio su tela) per il suo aspetto fisico deforme e involontariamente
ridicolo, quei dipinti (finestre aperte sul vero) sono appellati “bambocciate”
e, di conseguenza, gli autori “Bamboccianti”. Di quest’ultimi sono esposti quadri di Michael
Sweerts (“bambocciante” solo per un tratto del suo eclettico percorso
artistico), Jan Miel (anch’egli solo per un periodo è compreso in tale
corrente), Johannes Lingelbach, Sebastien Bourdon (versatile pittore,
successivamente approda a un’idealità classica talora permeata d’accenti
barocchi).
L’esposizione
comprende anche due tele di Claude Gelée detto Le Lorrain o Claudio Lorenese
(1600 – 1682), uno tra i maggiori protagonisti della pittura di “paesaggio
classico”, che eserciterà un evidente influsso su questo genere pittorico in
ugual modo nel XVIII e nel XIX secolo. Lontani, invece, da quell’aulica
idealizzazione paesaggistica, i temi di questi quadri –“Veduta di Roma con una scena di prostituzione”, “Scena pastorale con un giovane che orina tra
le rovine”-, pur palesando un’eccellente disegno, confermano il
protagonismo di quel disordine morale, di quel trasgressivo sberleffo,
argomenti della mostra.
“Bacco e un
bevitore”
(Bartolomeo Manfredi, 1621 -1622; Galleria Nazionale
di Arte Antica in Palazzo Barberini)
Bartolomeo Manfredi fa
parte della prima generazione del “gruppo” dei caravaggisti; i suoi lavori sono
caratterizzati da una caratteristica cupezza, impressa sui quadri sia di
carattere religioso sia di segno umile, popolaresco (giocatori di carte,
bevitori –oggetto di un altro lodevole quadro in mostra-, soldati, musici, cartomanti
e così via). Varia il linguaggio del Caravaggio trascurandone gli aspetti più
drammatici o spirituali, la tensione originaria, elaborando un impianto
descrittivo e innovandone il carattere naturalistico.
Il
cosiddetto “metodo manfrediano” (Manfrediana
Methodus) ha grandissimo seguito, specie tra quel gruppo di pittori
nordici, incentrato su una stupefacente abilità tecnica con la quale
distribuisce le luci e le ombre sull’incarnato dei personaggi ritratti e sui
tessuti.
Tra
le opere presentate, questa mi è apparsa la più identificativa rispetto al
soggetto della mostra, considerando l’importanza storico artistica dell’autore.
Bacco,
fin dall’era antica, rappresenta una divinità della natura feconda, che
attraverso il vino spinge i sensi verso la libertà; l’ebbrezza che ne deriva
slega l’uomo dal gravame delle angustie e svela un’occulta conoscenza, un
sapere dal quale s’intensifica la facoltà d’immaginazione e da qui si eleva, inarrestabile,
il furore creativo.
La
tela, di tipica iconografia, contiene il fondo scuro contrastante la luce rasente
che indaga le due figure: il dio sembra distillare, dal racemo, il vino veritas, raccolto nella trasparente
coppa dal bevitore, già colto nell’atto di bere e cinto dallo stordimento
della, solida, ubriachezza. Lo sguardo di Bacco esprime un’allegria che è in
procinto di erompere dalla scena, espressa in lieve diagonale per dare slancio
all’azione, la quale descrive, in antitesi chiaroscurali, la preminenza della
divinità.
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