Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

Io Spiego

sabato 17 gennaio 2015

La mostra “I Bassifondi del Barocco. La Roma del vizio e della miseria”: considerazioni

 
 

Presso l’Accademia di Francia di Roma -Villa Medici- sta per concludersi questa particolare mostra (7 ottobre 2014 – 18 gennaio 2015), che raccoglie oltre cinquanta opere (provenienti da musei italiani e da altri paesi europei, nonché da collezioni private) realizzate nella “Città Eterna” all’incirca dal 1611 al 1667, con le quali diversi artisti sia italiani sia, soprattutto, provenienti da differenti paesi nord europei, ne hanno raffigurato gli ambienti volgari, truculenti, miseri, viziosi. In sostanza l’aspetto proprio delle bettole, dei luoghi ove impera la più sfrenata licenziosità, che rappresentano l’oscura, contraddittoria, realtà opposta allo sfavillio di Roma barocca.
 
Si assiste, in tale ambito, a una sorta di “compendiosa” raffigurazione caravaggesca –che pur comprende opere di alto valore pittorico-, esasperandone alcune narrazioni e caratterizzazioni visive, le quali, talvolta, contengono sfumature morali, fino a conchiuderla in uno specchio ove si riflettono dettagli bizzarri, fatti di cronaca, paesaggi urbani traboccanti di figure stordite, chiassose o miserevoli, vedute campestri romane in cui le antiche memorie sono deturpate da atti di violenza o da oscenità.
 
Da tale magma si distinguono i caravaggisti, che imitando la cifra del Merisi, pur non costituendo un movimento uniforme (composto da due generazioni di pittori) e privi di analoghi intenti artistici, manifestano in diversi lavori tratti personali, modi eleganti e raffinati. Tra questi si ricordano, in virtù delle tele presenti in mostra: Bartolomeo Manfredi (che a sua volta, insieme con altri, influenza la seconda “ondata” caravaggesca), Pietro Paolini, Nicolas Régnier, Simon Vouet, Jusepe de Ribera detto lo Spagnoletto, Valentin de Boulogne detto il Valentin, Nicolas Tournier, Claude Vignon, Bartolomeo Cavarozzi, Angelo Caroselli (uno dei primi caravaggisti), Dick van Baburen.
 
Benché, il Caravaggio, non abbia formato alcun “allievo”, cui trasmettere i principi attraverso i quali concepisce i suoi lavori, ovvero la “tecnica” utilizzata per eseguirli, il suo stile, a pochi anni dalla morte (1610), è tra i più affermati a Roma, divulgandosi rapidamente non solo nel resto dell’Italia (soprattutto nei luoghi dei suoi soggiorni) ma altrettanto in Europa. Già da lungo tempo la città è meta di artisti stranieri, che dal 1612, circa, aumentano notevolmente (tra i primi il Valentin e il Vouet) giungendo, in maggior numero, dai Paesi Bassi e dalla Francia. Essi studiano l’opera del Merisi, assimilandola e inserendovi personali interpretazioni sino a diventare, essi stessi, dei riferimenti per i successivi caravaggisti.  
 
Questa manifestazione espositiva intende illustrare un preciso lato, una “determinata tematica” toccata appena o sviluppata da pittori, nella maggior parte dei casi non confinabili in tale contesto. Trova così ragione la presenza del quadro di Giovanni Lanfranco, “Giovane nudo sul letto con un gatto” conosciuto come “Venere al maschile” (Walpole Gallery, Londra), realizzato tra il 1620 e il 1622, quando la sua concezione pittorica è già, da circa un lustro, barocca; eppure l’artista parmense in questo ammirevole dipinto recupera la lezione caravaggesca, appresa, un decennio prima, attraverso lo studio di coloro che rielaborano, con brillante personalità, lo stile del Merisi, il suo contrasto chiaroscurale, le sue potenzialità luministiche. La, quasi, nudità e la posa della figura rimanda (vagamente) a soggetti immortalati dal Caravaggio, tra i quali il “S. Giovannino” (Pinacoteca Capitolina); si nota nel viso un’espressione pressoché canzonatoria e un ambiente scenico che vuole, con mordace ironia, rovesciare i consueti modelli.
 
Gran parte di quei pittori, di origine nordica, operosi in Roma segnatamente tra il 1617 e il 1660 circa, crea una fragorosa compagnia (intorno al 1623; soppressa nel 1720), detta “Schilderbent (vale a dire “banda di pittori”), nata con propositi di mutua assistenza fra connazionali o fra artisti stranieri, cui gli “adepti” si nominano “Bentvueghels”(letteralmente “gli uccelli della banda”). Ben presto, però, si trasforma in una “associazione” che negli eccessi trova l’incandescente moto creativo, esaltato nei riti dionisiaci, celebrati in infime taverne, nelle quali il vino scorre in dismisurata quantità tra un’esaltazione di sensi.
 
Nella Roma di quest’epoca sono frequentissime le feste tragicamente terminate, le brutali contese, le violenze di ogni tipo, che sono poste nella scena pittorica dai “Bamboccianti”, sorti dalla “Bent”, in azione, soprattutto, tra il 1624 e il 1653. Questa “corrente naturalistica” -variamente connotata di echi caravaggeschi- è volta a rappresentare gli atti di vita quotidiana, erede di un “genere basso”, grottesco, privo di carattere erudito, che accoglie il mondo dei poveri, dei mendicanti, dei contadini, dei mestieri più popolari e umili, delle meretrici, della sregolatezza, dei rischi di un’esistenza posta in pericolo da atti ed eventi rapinosi, travolgenti. La pur viva partecipazione, dei suoi membri, ai temi e ai personaggi raffigurati, non possiede, generalmente, la perentoria adesione umana, il rigore psicologico nel rappresentare la realtà. Poiché l’esponente più noto è il pittore olandese Pieter Van Lear, detto, durante il suo lungo soggiorno romano (1625-1639), il Bamboccio (in mostra un suo “Autoritratto”, piccolo olio su tela) per il suo aspetto fisico deforme e involontariamente ridicolo, quei dipinti (finestre aperte sul vero) sono appellati “bambocciate” e, di conseguenza, gli autori “Bamboccianti”.  Di quest’ultimi sono esposti quadri di Michael Sweerts (“bambocciante” solo per un tratto del suo eclettico percorso artistico), Jan Miel (anch’egli solo per un periodo è compreso in tale corrente), Johannes Lingelbach, Sebastien Bourdon (versatile pittore, successivamente approda a un’idealità classica talora permeata d’accenti barocchi).
 
L’esposizione comprende anche due tele di Claude Gelée detto Le Lorrain o Claudio Lorenese (1600 – 1682), uno tra i maggiori protagonisti della pittura di “paesaggio classico”, che eserciterà un evidente influsso su questo genere pittorico in ugual modo nel XVIII e nel XIX secolo. Lontani, invece, da quell’aulica idealizzazione paesaggistica, i temi di questi quadri –“Veduta di Roma con una scena di prostituzione”, “Scena pastorale con un giovane che orina tra le rovine”-, pur palesando un’eccellente disegno, confermano il protagonismo di quel disordine morale, di quel trasgressivo sberleffo, argomenti della mostra.
 
Bacco e un bevitore
(Bartolomeo Manfredi, 1621 -1622; Galleria Nazionale di Arte Antica in Palazzo Barberini)
Bartolomeo Manfredi fa parte della prima generazione del “gruppo” dei caravaggisti; i suoi lavori sono caratterizzati da una caratteristica cupezza, impressa sui quadri sia di carattere religioso sia di segno umile, popolaresco (giocatori di carte, bevitori –oggetto di un altro lodevole quadro in mostra-, soldati, musici, cartomanti e così via). Varia il linguaggio del Caravaggio trascurandone gli aspetti più drammatici o spirituali, la tensione originaria, elaborando un impianto descrittivo e innovandone il carattere naturalistico.
 
Il cosiddetto “metodo manfrediano” (Manfrediana Methodus) ha grandissimo seguito, specie tra quel gruppo di pittori nordici, incentrato su una stupefacente abilità tecnica con la quale distribuisce le luci e le ombre sull’incarnato dei personaggi ritratti e sui tessuti.
 
Tra le opere presentate, questa mi è apparsa la più identificativa rispetto al soggetto della mostra, considerando l’importanza storico artistica dell’autore.
 
Bacco, fin dall’era antica, rappresenta una divinità della natura feconda, che attraverso il vino spinge i sensi verso la libertà; l’ebbrezza che ne deriva slega l’uomo dal gravame delle angustie e svela un’occulta conoscenza, un sapere dal quale s’intensifica la facoltà d’immaginazione e da qui si eleva, inarrestabile, il furore creativo. 
 
 
La tela, di tipica iconografia, contiene il fondo scuro contrastante la luce rasente che indaga le due figure: il dio sembra distillare, dal racemo, il vino veritas, raccolto nella trasparente coppa dal bevitore, già colto nell’atto di bere e cinto dallo stordimento della, solida, ubriachezza. Lo sguardo di Bacco esprime un’allegria che è in procinto di erompere dalla scena, espressa in lieve diagonale per dare slancio all’azione, la quale descrive, in antitesi chiaroscurali, la preminenza della divinità.
 
 
Immagine tratta da "Google Immagini"
 
 




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