Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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sabato 23 giugno 2018

La Pietà, affresco di Perin del Vaga in S. Stefano del Cacco: considerazioni


La Chiesa di S. Stefano del Cacco sorge nello spazio occupato, in epoca romana, dal tempio di Iside e Serapide, l’Iseum Campensis, vale a dire del Campo Marzio. Il toponimo Cacco, che appare verso la fine del XV secolo, deriva da una statua rinvenuta in quei pressi, raffigurante il dio egizio Thot effigiato, in questo caso, con la testa del babbuino in luogo dell’ibis, animale a lui sacro, come viene maggiormente raffigurato. Questa rappresentazione ha determinato il nome del luogo. Infatti, il popolo romano, nei tempi trascorsi, appella ogni singola scimmia “maccacco” e dunque nella forma accorciata “cacco” discende il toponimo dell'area. La scultura, frammentaria, del “Cacco” oggi è conservata presso il Museo Gregoriano Egizio in Vaticano.

L’originario edificio cultuale, molto probabilmente, viene innalzato durante il pontificato di Pasquale I (817 – 824) e titolato al protomartire Stefano. Successivi interventi edificatori avvengono nel corso del XII secolo, mantenendo la costruzione il suo primigenio impianto sino al 1564 quando è realizzato il monastero che ingloba il portico romanico. Profondi restauri sono eseguiti nel decennio 1607 – 1617 quando è distrutta l’ornamentazione dell’abside del IX secolo; tra il 1638 e il 1643 si concreta la trasformazione architettonica nel “gusto barocco” di tutta la struttura. Nel 1640, circa, è compiuto il prospetto, mentre dal 1644 al 1647 si realizza, all’interno del monastero oggetto di restauro, il corridoio, il refettorio e lo scalone. Successivi lavori, comprendenti altresì l’ingrandimento del convento, sono eseguiti per il Giubileo del 1725, giungendo così al periodo 1857 - 1865 quando è decorata la volta della navata centrale e posato l’attuale pavimento, parte di quello già collocato nella basilica di S. Paolo fuori le Mura, devastata da un incendio nel 1823.

Un sito quindi di dense successioni architettoniche e decorative, che all’interno si manifesta asimmetrico a tre navate con presbiterio soprelevato; lungo la parete della navata laterale destra è posto l’affresco della Pietà - ridipinto quasi completamente, nel XVII secolo, aggiungendo il paesaggio con il Golgota – fulgente opera di Perin del Vaga (Pietro di Giovanni Buonaccorsi detto il, 1501 – 1547) realizzata intorno al 1519, suscitando l’ammirazione anche di Giorgio Vasari il quale nelle sue celebri “Vite” scrive: ” Et in San Stefano del Cacco, ad un altare, dipinse in fresco per una gentildonna romana una Pietà con un Cristo morto in grembo alla Nostra Donna, e ritrasse di naturale quella gentildonna che par ancor viva. La quale opera è condotta con una destrezza molto facile e molto bella”.   

La raffigurazione è strettamente congiunta al tema già espresso da Raffaello (il nostro pittore è nella sua cerchia, in primario rilievo, nella realizzazione delle “Logge” in Vaticano) attraverso la Deposizione di Cristo compiuta nel 1507 (conservata presso la Galleria Borghese), che, a sua volta, sembra richiamare il Compianto sul Cristo morto del Perugino (1495; Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina), secondo uno schema iconografico all’epoca già molto frequentato. In effetti come non ricordare, in chiave di immagine archetipa espressa in differenti scenari, ad esempio la raffigurazione, - del medesimo soggetto - creata dalla mano di Luca Signorelli nel ciclo degli affreschi (1503, circa) della Cappella di S. Brizio o Cappella Nova del Duomo di Orvieto. Immagine quindi che riprende, attraverso le varie epoche ove l’arte manifesta la sua continua cifra, la figura di Meleagro, il mitologico personaggio, cui il corpo esamine disteso con un braccio abbandonato e pendulo viene ritratto in una vasta quantità di antichi sarcofagi. Infatti, confermando una scena pittorica piuttosto usuale, sebbene di efficace presa, egli disegna sullo sfondo, in minute dimensioni, un “Trasporto” quale fregio in monocromo, di un antico sarcofago, che palesa un indubbio passaggio da uno schema in cui pur si conferma la centralità della “Lamentazione” dinanzi al corpo, ormai privo di vita, del Messia, a un nuovo modello, per i tempi ardito, cui come soggetto è contemporaneamente rappresentato, soltanto come soluzione accessoria, quel “Trasporto” di Cristo, sorta di “trascrizione” ove la figura mitologica condotta al sepolcro è sostituita proprio da quella del Figlio di Dio.

Il soggetto del “Compianto” scaturisce però da una formula ben presente in altre opere, in Italia, già copiosamente realizzate nella tarda seconda metà del XV secolo e antecedentemente da un consolidato modello steso nell’Europa del nord e perciò già vivido, in altri territori, all’incirca negli anni trenta del medesimo secolo. Invero, la rappresentazione appellata Pietà descrive un episodio non contenuto nei Vangeli, vale a dire quel doloroso e insistente lamento della Vergine sul corpo del Figlio morto, vicenda composta dal sentimento appartenente alla forte devozione e alla salda spiritualità tedesca che pervade le “terre germaniche” nella metà del XIV secolo. Il braccio pendulo, definibile come “appartenente alla morte”, è perciò un elemento caratteristico e, secondo particolari prospettive, “autonomo” di questa reiterata scena, molto vivida in Italia comunque già negli ultimi decenni del Trecento. Come non rammentare, a tal proposito, il Compianto sul Cristo compreso in uno dei due pulpiti bronzei, gemme artistiche plasmate da Donatello (1460, circa), della Basilica di S. Lorenzo di Firenze e, riguardo al componimento della Pietà, non può non essere citato Michelangelo, che in quella Vaticana (1498 – 1499), coerentemente a quel sentire caratteristico dell’arte italiana, così distante dalla rigida e aspra espressività nordica, estrinseca con rinnovata classicità un registro immerso in un pensiero spiccatamente poetico. 

Se, in questo repertorio, i gesti di disperazione o di forte coinvolgimento emotivo appaiono ripetuti e quindi convenzionali, essi non sono che parte del linguaggio insito nei versi pittorici, come dimostra la Deposizione, realizzata da Giotto intorno al 1305 nella Cappella degli Scrovegni, in cui S. Giovanni mirabilmente afferma la sua inconsolabile e penetrante angoscia con il significativo gesto delle braccia violentemente distese  - quasi sussultanti - all’indietro, senza dimenticare i tre personaggi muliebri che sollevano dolcemente il Cristo, quasi accarezzandone le mani e i piedi. Come allora non guardare ancora più indietro e ammirare quell’acuto tormento, quelle disperate membra della madre scolpita (Strage degli innocenti, 1265 circa), da Nicola Pisano, nel pulpito della Cattedrale di Siena, titolata a S. Maria Assunta. Di questo scultore è imprescindibile il volgersi verso il suo capolavoro, che rifulge nel Battistero di S. Giovanni Battista di Pisa, il pulpito (1259 – 1260), che nel pannello della Crocifissione mostra una viva e dolente espressività esemplificata da S. Giovanni, che manifesta l’acuminata afflizione tenendo la mano fortemente sul petto, mentre la Vergine è raffigurata – posa all’epoca quasi inedita - sopraffatta dal dolore e quindi svenuta. Il pathos dunque espresso per mezzo di un’estesa caratterizzazione, svolta durante i secoli, che prescinde dallo studio di modelli inerenti all’età classica.

Prima di Raffaello perciò si sviluppa una tematica rinsaldata da molteplici luci artistiche, ma che sembra attendere un modello alternativo, creato per l’appunto dall’Urbinate. Un lavoro anticipatore di quanto egli poi concepirà, è rappresentato dall’incisione Sepoltura di Cristo (1470, circa), di Andrea Mantegna, oggi custodita presso la Pinacoteca Repossi di Chiari (Brescia). L’azione si evidenzia nel drammatico isolamento di S. Giovanni in dolente invocazione, supplica verso il cielo che non si abbandona alla rassegnazione, in un dinamico quadro ove i necrofori conducono le mortali spoglie del Cristo, sopra il quale uno straziante urlo, della Maddalena, disarticola le braccia in alto levate di questa muliebre figura.

Raffaello realizza la scena, della Deposizione di Cristo, in un nuovo insieme stilistico, intensamente sublime volendo esplicitare con vibrante senso plastico quel corpo morto, tramite un originale “Trasporto”, che nel pendulo braccio pone l’accento, pur nella lunga tradizione argomentata, svolgendo un assorbimento concreto di un modo antico originalmente ricreato: da Meleagro a Gesù Cristo. Arte della rappresentazione del morire, per mezzo di un’eloquente e luminosissima capacità pittorica, che suggella una nuova ed espressiva poetica.

Il “nostro” Perin del Vaga si staglia tra i giovani artisti attivi a Roma, in quella prima parte del XVI secolo. Tra i collaboratori di Raffaello è quello che mostra una brillantezza artistica e un’abilità creativa non comune. Nell’affresco di S. Stefano del Cacco affronta, la sua Pietà, con tratti michelangioleschi uniti a una notevole resa drammatica e a un’evidente agilità narrativa riconducibile alla cifra dell’Urbinate, malgrado ne tralasci il coinvolgente senso emotivo per esporre un’incisiva ornamentazione pregna di eccellente grazia.

L’ampio lacerto, che attualmente si vede, appalesa un esemplare modello iconografico volto a una concreta compiutezza, perfezione nella compostezza che ben modula la felice monumentalità di quanto ritratto, in cui solamente il vero, – aspetto della rivelazione salvifica- il bene quale bellezza vi albergano.

Questo dipinto raffigura al centro la Vergine che, con dolente dolcezza, accoglie nel grembo il corpo ormai preso dalla morte, come è risaltato dal braccio, morbidamente rilasciato, del Cristo; sulla sinistra un raccolto S. Giovanni accompagna il gesto della Madre del Messia; sulla destra la Maddalena inginocchiandosi con fare contristato delicatamente solleva l’avambraccio del Salvatore, mentre sulla destra Giuseppe d’Arimatea alza, mostrandoli all’osservatore, gli strumenti del supplizio mortale, vale a dire la corona di spine e un chiodo; chiude l’impianto figurativo, nel margine inferiore, la committente dipinta in un delicato palpitare.  

Di seguito sono le immagini, secondo diverse angolazioni, dell'affresco.









  
  

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