La
Chiesa di S. Stefano del Cacco sorge nello spazio occupato, in epoca romana,
dal tempio di Iside e Serapide, l’Iseum
Campensis, vale a dire del Campo Marzio. Il toponimo Cacco, che appare
verso la fine del XV secolo, deriva da una statua rinvenuta in quei pressi,
raffigurante il dio egizio Thot effigiato, in questo caso, con la testa del
babbuino in luogo dell’ibis, animale a lui sacro, come viene maggiormente
raffigurato. Questa rappresentazione ha determinato il nome del luogo. Infatti,
il popolo romano, nei tempi trascorsi, appella ogni singola scimmia “maccacco”
e dunque nella forma accorciata “cacco” discende il toponimo dell'area. La
scultura, frammentaria, del “Cacco” oggi è conservata presso il Museo
Gregoriano Egizio in Vaticano.
L’originario
edificio cultuale, molto probabilmente, viene innalzato durante il pontificato
di Pasquale I (817 – 824) e titolato al protomartire Stefano. Successivi
interventi edificatori avvengono nel corso del XII secolo, mantenendo la costruzione
il suo primigenio impianto sino al 1564 quando è realizzato il monastero che
ingloba il portico romanico. Profondi restauri sono eseguiti nel decennio 1607
– 1617 quando è distrutta l’ornamentazione dell’abside del IX secolo; tra il
1638 e il 1643 si concreta la trasformazione architettonica nel “gusto barocco”
di tutta la struttura. Nel 1640, circa, è compiuto il prospetto, mentre dal 1644 al 1647 si
realizza, all’interno del monastero oggetto di restauro, il corridoio, il
refettorio e lo scalone. Successivi lavori, comprendenti altresì
l’ingrandimento del convento, sono eseguiti per il Giubileo del 1725, giungendo
così al periodo 1857 - 1865 quando è decorata la volta della navata centrale e posato
l’attuale pavimento, parte di quello già collocato nella basilica di S. Paolo
fuori le Mura, devastata da un incendio nel 1823.
Un
sito quindi di dense successioni architettoniche e decorative, che all’interno
si manifesta asimmetrico a tre navate con presbiterio soprelevato; lungo la
parete della navata laterale destra è posto l’affresco della Pietà - ridipinto quasi completamente,
nel XVII secolo, aggiungendo il paesaggio con il Golgota – fulgente opera di
Perin del Vaga (Pietro di Giovanni Buonaccorsi detto il, 1501 – 1547)
realizzata intorno al 1519, suscitando l’ammirazione anche di Giorgio Vasari il
quale nelle sue celebri “Vite” scrive:
” Et in San Stefano del Cacco, ad un
altare, dipinse in fresco per una gentildonna romana una Pietà con un Cristo
morto in grembo alla Nostra Donna, e ritrasse di naturale quella gentildonna
che par ancor viva. La quale opera è condotta con una destrezza molto facile e
molto bella”.
La
raffigurazione è strettamente congiunta al tema già espresso da Raffaello (il
nostro pittore è nella sua cerchia, in primario rilievo, nella realizzazione
delle “Logge” in Vaticano) attraverso la Deposizione
di Cristo compiuta nel 1507 (conservata presso la Galleria Borghese), che,
a sua volta, sembra richiamare il Compianto
sul Cristo morto del Perugino (1495; Firenze, Palazzo Pitti, Galleria
Palatina), secondo uno schema iconografico all’epoca già molto frequentato. In
effetti come non ricordare, in chiave di immagine archetipa espressa in
differenti scenari, ad esempio la raffigurazione, - del medesimo soggetto -
creata dalla mano di Luca Signorelli nel ciclo degli affreschi (1503, circa) della
Cappella di S. Brizio o Cappella Nova del Duomo di Orvieto. Immagine quindi che
riprende, attraverso le varie epoche ove l’arte manifesta la sua continua
cifra, la figura di Meleagro, il mitologico personaggio, cui il corpo esamine
disteso con un braccio abbandonato e pendulo viene ritratto in una vasta
quantità di antichi sarcofagi. Infatti, confermando una scena pittorica
piuttosto usuale, sebbene di efficace presa, egli disegna sullo sfondo, in
minute dimensioni, un “Trasporto” quale fregio in monocromo, di un antico
sarcofago, che palesa un indubbio passaggio da uno schema in cui pur si
conferma la centralità della “Lamentazione” dinanzi al corpo, ormai privo di
vita, del Messia, a un nuovo modello, per i tempi ardito, cui come soggetto è
contemporaneamente rappresentato, soltanto come soluzione accessoria, quel
“Trasporto” di Cristo, sorta di “trascrizione” ove la figura mitologica
condotta al sepolcro è sostituita proprio da quella del Figlio di Dio.
Il
soggetto del “Compianto” scaturisce però da una formula ben presente in altre
opere, in Italia, già copiosamente realizzate nella tarda seconda metà del XV
secolo e antecedentemente da un consolidato modello steso nell’Europa del nord
e perciò già vivido, in altri territori, all’incirca negli anni trenta del
medesimo secolo. Invero, la rappresentazione appellata Pietà descrive un episodio non contenuto nei Vangeli, vale a dire quel
doloroso e insistente lamento della Vergine sul corpo del Figlio morto, vicenda
composta dal sentimento appartenente alla forte devozione e alla salda
spiritualità tedesca che pervade le “terre germaniche” nella metà del XIV
secolo. Il braccio pendulo, definibile come “appartenente alla morte”, è perciò
un elemento caratteristico e, secondo particolari prospettive, “autonomo” di
questa reiterata scena, molto vivida in Italia comunque già negli ultimi
decenni del Trecento. Come non rammentare, a tal proposito, il Compianto sul Cristo compreso in uno dei
due pulpiti bronzei, gemme artistiche plasmate da Donatello (1460, circa),
della Basilica di S. Lorenzo di Firenze e, riguardo al componimento della Pietà, non può non essere citato
Michelangelo, che in quella Vaticana (1498 – 1499), coerentemente a quel
sentire caratteristico dell’arte italiana, così distante dalla rigida e aspra
espressività nordica, estrinseca con rinnovata classicità un registro immerso in
un pensiero spiccatamente poetico.
Se,
in questo repertorio, i gesti di disperazione o di forte coinvolgimento emotivo
appaiono ripetuti e quindi convenzionali, essi non sono che parte del
linguaggio insito nei versi pittorici, come dimostra la Deposizione, realizzata da Giotto intorno al 1305 nella Cappella
degli Scrovegni, in cui S. Giovanni mirabilmente afferma la sua inconsolabile e
penetrante angoscia con il significativo gesto delle braccia violentemente
distese - quasi sussultanti -
all’indietro, senza
dimenticare i tre personaggi muliebri che sollevano dolcemente il Cristo, quasi
accarezzandone le mani e i piedi. Come allora non guardare ancora più indietro
e ammirare quell’acuto tormento, quelle disperate membra della madre scolpita (Strage degli innocenti, 1265 circa), da
Nicola Pisano, nel pulpito della Cattedrale di Siena, titolata a S. Maria
Assunta. Di questo scultore è imprescindibile il volgersi verso il suo
capolavoro, che rifulge nel Battistero di S. Giovanni Battista di Pisa, il
pulpito (1259 – 1260), che nel pannello della Crocifissione mostra una viva e dolente espressività esemplificata
da S. Giovanni, che manifesta l’acuminata afflizione tenendo la mano
fortemente sul petto, mentre la Vergine è raffigurata – posa all’epoca quasi
inedita - sopraffatta dal dolore e quindi svenuta. Il
pathos dunque espresso per mezzo di
un’estesa caratterizzazione, svolta durante i secoli, che prescinde dallo
studio di modelli inerenti all’età classica.
Prima
di Raffaello perciò si sviluppa una tematica rinsaldata da molteplici luci
artistiche, ma che sembra attendere un modello alternativo, creato per
l’appunto dall’Urbinate. Un lavoro anticipatore di quanto egli poi concepirà, è
rappresentato dall’incisione Sepoltura di
Cristo (1470, circa), di Andrea Mantegna, oggi custodita presso la
Pinacoteca Repossi di Chiari (Brescia). L’azione si evidenzia nel drammatico
isolamento di S. Giovanni in dolente invocazione, supplica verso il cielo che
non si abbandona alla rassegnazione, in un dinamico quadro ove i necrofori
conducono le mortali spoglie del Cristo, sopra il quale uno straziante urlo,
della Maddalena, disarticola le braccia in alto levate di questa muliebre
figura.
Raffaello
realizza la scena, della Deposizione di
Cristo, in un nuovo insieme stilistico, intensamente sublime volendo
esplicitare con vibrante senso plastico quel corpo morto, tramite un originale
“Trasporto”, che nel pendulo braccio pone
l’accento, pur nella lunga tradizione argomentata, svolgendo un assorbimento concreto
di un modo antico originalmente ricreato: da Meleagro a Gesù Cristo. Arte della
rappresentazione del morire, per mezzo di un’eloquente e luminosissima capacità
pittorica, che suggella una nuova ed espressiva poetica.
Il
“nostro” Perin del Vaga si staglia tra i giovani artisti attivi a Roma, in
quella prima parte del XVI secolo. Tra i collaboratori di Raffaello è quello
che mostra una brillantezza artistica e un’abilità creativa non comune.
Nell’affresco di S. Stefano del Cacco affronta, la sua Pietà, con tratti michelangioleschi uniti a una notevole resa
drammatica e a un’evidente agilità narrativa riconducibile alla cifra dell’Urbinate,
malgrado ne tralasci il coinvolgente senso emotivo per esporre un’incisiva
ornamentazione pregna di eccellente grazia.
L’ampio
lacerto, che attualmente si vede, appalesa un esemplare modello iconografico
volto a una concreta compiutezza, perfezione nella compostezza che ben modula
la felice monumentalità di quanto ritratto, in cui solamente il vero, – aspetto
della rivelazione salvifica- il bene quale bellezza vi albergano.
Questo
dipinto raffigura al centro la Vergine che, con dolente dolcezza, accoglie nel
grembo il corpo ormai preso dalla morte, come è risaltato dal braccio,
morbidamente rilasciato, del Cristo; sulla sinistra un raccolto S. Giovanni
accompagna il gesto della Madre del Messia; sulla destra la Maddalena
inginocchiandosi con fare contristato delicatamente solleva l’avambraccio del
Salvatore, mentre sulla destra Giuseppe d’Arimatea alza, mostrandoli
all’osservatore, gli strumenti del supplizio mortale, vale a dire la corona di
spine e un chiodo; chiude l’impianto figurativo, nel margine inferiore, la
committente dipinta in un delicato palpitare.
Di seguito sono le immagini, secondo diverse angolazioni, dell'affresco.
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