Francesco de’ Rossi (1509, circa – 1563)
nasce a Firenze e sin dalla giovanissima età è introdotto da suo zio orafo,
Dionigi da Diacceto, nel relativo ambiente artistico, dove conosce Giorgio
Vasari con il quale stringe inossidabile amicizia e, successivamente al
percorso formativo avvenuto sotto la “direzione” di Baccio Bandinelli (1526
-1527), approda alla bottega di Andrea del Sarto (1529, circa). Dal 1531 al 1539
affronta il suo primo soggiorno romano - quasi subito seguito dal Vasari -
presso il cardinale Giovanni Salviati di cui fa proprio il nome di famiglia
(sarà chiamato altresì Cecchino del Salviati). Il porporato dispone che il
giovane pittore “in Borgo Vecchio avesse
le stanze, et quattro scudi il mese et il piatto alla tavola de’ gentiluomini”,
come scriverà il medesimo Vasari nelle “Vite
dei più eccellenti pittori, scultori et architetti italiani da Cimabue insino a’
tempi nostri”, che, in un altro passo del capitolo dedicato al Salviati, ne
evidenzia l’impegnativa attività condotta in sua compagnia, volta a disegnare opere
artistiche, sia antiche e sia a essi contemporanee, presenti nella Città Eterna:
“ … ambidue di compagnia con molto
profitto alle cose d’arte, non lasciando né in palazzo, né in altra parte di
Roma, cosa alcuna notabile la quale non disegnassono.” Una lettura dunque
che indaga soprattutto Michelangelo e Raffaello.
La sua cifra inizia così a svilupparsi
in modo brillante, assumendo in sé antiche lezioni che trasforma, inizialmente,
in versi interpretativi accademici non disgiunti però da un’oggettiva abilità pittorica
e quest’ultima raggiunge il vertice nella Visitazione
(1538) affresco eseguito nell’Oratorio di S. Giovanni Decollato, ambiente
attiguo all’omonima Chiesa.
Tale notevole opera è preceduta da un’altra
gemma dipinta dal “nostro” pittore, vale a dire l’olio su tavola, Annunciazione (1534/1535), troneggiante
sull’altare della terza cappella di sinistra, che conferma le pregevolezze plastiche
e architettoniche della Chiesa di S. Francesco a Ripa Grande. Basti rammentare,
ad esempio, il monumento funebre della Beata Ludovica Albertoni del Bernini, o la pala S. Anna, la Vergine e il Bambino del Gaulli detto il
Baciccia (o Baciccio), o ancora l’impianto edificatorio della Cappella del SS.
Crocifisso attribuita a Carlo Fontana. Giorgio Vasari, a questo riguardo,
asserisce che Francesco Salviati: “ …
fece per la Chiesa di S. Francesco a Ripa una bellissima tavola … d’una
Nunziata, che fu condotta con grandissima diligenza”.
Incomprensibilmente l’identità del suo
autore, nel corso dei secoli, cade nell’oblio benché, come si è letto, il
Vasari citi il lavoro nelle sue “Vite”;
solo intorno al 1951il dipinto è correlato al nome del pittore fiorentino.
Immune da un’ostentata affabulazione
imitativa michelangiolesca, il quadro del tempio trasteverino percorre una “maniera”
armonica, ben espressa che estrinseca un incipiente innovativo esito, come
dimostra l’assetto di quanto vi è raffigurato.
Un’ampia visione caratterizza l’insieme
pittorico che comprende, nell’estremo piano sinistro un lieve affievolire di
tinte turchine, mentre una monumentale struttura architettonica imprime equilibrata
solennità allo sfondo. Pacata quindi appare la distribuzione compositiva seppur
esplicitata con tratti estesi, sui quali appaiono morbide eleganti figure
avvolte da una classica nobiltà.
Infatti, la figura dell’angelo mostra una
tondezza del volto, enfatizzata dal capace mento, dal pieno collo in “posa
allungata” e dalle gote dolcemente pronunciate, che accompagnano le lievi labbra
quasi impercettibilmente schiuse. Il mosso panneggio è definito da timbri più
marcati che non contrastano la sofficità dell’azione, i metallici azzurri
semmai ampliano le pieghe delle vesti, come se quel tenue dialogo, dei due
personaggi (la figura angelica e la Vergine), si rivestisse maggiormente di soavità,
confermata dai leggeri rossi tessuti. Il colore sensibilmente condotto diviene
rosa sulle ali dell’angelo sino quasi spegnersi in un soffuso marrone, bagliori
che mutano aspetto ma da cui non sgorgano enfatici sussulti.
Il rosato pavimento striato di sereno
grigio sembra svolgersi, con sapiente uso prospettico, in sezioni un poco oblique,
donando profondità all’organizzazione visiva dell’ancona. Su di esso sporge “l’antico”
sia nella visibile timida ombra che definisce le colonne, sia, in modo più netto,
nell’intagliato leggio, echeggiando in lontananza sulla sinistra nel paesaggio
di ruderi, dove una pura composita atmosfera di azzurri, di bianchi e di rosa
avviluppano, con la loro certa trasparenza, ogni elemento.
Dio Padre, su una candida piena e ondosa
nube, manifesta la Sua presenza con il teso braccio sinistro, quasi un’energica
benedizione, priva di rigida solennità, tra un cangiante cromatico atto, che
introduce la colomba sospesa in una sorta di docile volo.
Il viso della Vergine possiede un’espressione
di reale purezza che non comprende una sterile concretezza formale; il Suo atteggiamento
di colma grazia accoglie l’intervento divino, sottolineato dal grembo già
lievemente gonfio, mentre il Suo sguardo di nobile consapevolezza è assorto,
evidenziato dal sereno movimento reclino del capo, dalla bianchezza della pelle
e dal gesto della mano sinistra, su cui una timida ombra lambisce parzialmente
il mite palmo aperto.
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