Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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giovedì 3 ottobre 2019

Angelica Kauffmann: il ritratto “Giovane Donna quale Baccante”, nel divenire della sua cifra pittorica



Tra il nuovo allestimento di opere settecentesche, della Galleria Nazionale di Arte Antica in Palazzo Barberini, è conservato un pregevole cammeo pittorico, il ritratto di Giovane Donna quale Baccante, eseguito da Angelica Kauffmann (Anna Maria Angelica Caterina, 1741-1807), pittrice svizzera (di origine austriaca) ma italiana riguardo al suo percorso artistico, come attesta il suo primo Autoritratto realizzato nel 1753 a Morbegno (Sondrio), ove dimora la sua famiglia prima di trasferirsi a Como. La sua iniziale formazione dunque si stende nell’alveo plastico lombardo, tramite la vigile e premurosa guida del padre, Johann Joseph, pittore di esigua capacità ma attento nel porre in risalto il rapido evolversi -in acute espressioni- del talento della figlia. La conduce perciò al denso studio di pitture, eseguite da eccelsi artisti in epoche precedenti, attraverso stampe, cui egli ne possiede una cospicua raccolta, sospingendola poi verso il ritratto.
Il vivace intelletto della giovane Angelica le consente, oltre a padroneggiare alcune lingue, il profondo apprendimento di vasti temi filosofici e letterari e il fertile studio della musica. Un cosmo artistico nel quale vivere e palesare quel moto, che la definirà in seguito eminente pittrice e donna libera, capace di affrontare diversi sentieri del vivere, con la fervida sapienza insita in un infrenabile intimo sentire.
Nel 1754 è con la sua famiglia a Milano, mentre nel 1757, dopo la morte della madre, si trasferisce con il padre a Schwarzenberg (Austria), dove la sua versatilità artistica –è altresì dotata cantante e ottima musicista- non può sostare a lungo. Infatti, il premuroso genitore non può che concretarle un lungo viaggio formativo in Italia, durante il quale la Kauffmann abbraccia definitivamente la pittura, pur mai abbandonando il versante musicale, almeno vivo in lei come diletto. Tale aspetto sarà manifestato nel suo Autoritratto tra Musica e Pittura (1791; Museo Puskin, Mosca). Fra il 1760 e il 1761 è nuovamente a Milano per poi dirigersi a Parma, a Modena, a Bologna, dove affina il suo verso pittorico dinanzi alle opere dei Carracci, del Correggio, del Domenichino, del Reni e di altri sommi pittori italiani. Proprio nella città felsinea la sua abilità interpretativa viene riconosciuta con l’ammissione, quale “accademico d’onore”, alla già rilevante Accademia Clementina (inaugurata nel 1710), composta da pittori, scultori, architetti, incisori, molti dei quali divenuti celebri. Il prestigio dell’acquisito titolo accademico lo palesano, tra gli altri, i risuonati nomi di: Anton Raphael Mengs (1752), Pompeo Girolamo Batoni (1763), Giandomenico Tiepolo (Giovanni Domenico: 1780). Successivamente a Firenze copia alcuni magnifici dipinti, compresi nelle ricchissime collezioni già medicee, conseguendo il diploma conferitole dalla notevole Accademia del Disegno, fondata nel 1563, da cui raggi luminosissimi di una superba grandezza declamano le personalità (in ordine sparso) di Michelangelo, del Vasari, di Tiziano, del Tintoretto, del Giambologna, di Cellini, del Bronzino, di Artemisia Gentileschi e così via. Ancora però non cessa di apprendere quei linguaggi, plasmandoli in sé e trasfondendoli, con originalità, nei suoi lavori. Si reca a Napoli -1764, circa; parentesi del suo primo soggiorno romano- nella Reggia di Capodimonte, quasi completata, in cui inizia a essere posta la Collezione Farnese (all’epoca visitabile soltanto da un pubblico molto selezionato), luogo che avvince la giovane artista dinanzi alle mirabili antichità, ai cartoni di Michelangelo e di Raffaello, alle pitture, ad esempio, di Andrea del Sarto, di Giulio Romano, di Giovanni Bellini, di Sandro Botticelli, del Parmigianino.
A Roma tuttavia la sua assimilazione pittorica si amplia, inaugurandone taluni ragguardevoli tratti della poetica figurativa, attingendo anche al linguaggio di Mengs e di Batoni, mentre frequenta Giovanni Battista Piranesi. Attratta “dall’antico”, coinvolgente una colta platea, instaura un decisivo rapporto con Johann Joachim Winckelmann, il teorico del neoclassicismo, dal quale deriva un imponente effetto sull’arte e sul gusto di quella stagione. Egli enuncia un criterio che possiede natura di metodo, imperniando la “teoria dell’arte” su dei fondamenti, tali da costituire un sistema che, prescindendo da quel peculiare sentire “d’epoca”, edifica, in gran parte, la base della moderna storia dell’arte. Winckelmann, che della “nostra” Angelica ne esclama la bellezza e la virtuosità canora, diviene il tramite per introdurla alle collezioni del cardinale Alessandro Albani, nipote di papa Clemente XI, formidabile mecenate, bibliofilo, collezionista di fulgenti memorie antiche e cultore del “bello”.
La villa di tale porporato, giustappunto, esalta queste sue caratteristiche e, riguardo alla pittura, proprio Anton Raphael Mengs  vi imprime l’insorgente temperie neoclassica, affrescando il salone principale con il tema del Parnaso (1761), lucente trasposizione dei concetti dello stesso Winckelmann, mediata però con quella corrente classicistica così vivida nel precedente XVII secolo, in cui la rappresentazione del “naturale” snuda sostanza di nobile e quieta beltà sublime, di articolati –armonici- cromatici contrasti sfuggenti, di cangiante grazia in un’impaginazione spaziale ammantata di colorate incidenze. Questi elementi sono riletti dal suo estro che ne disegna le opere, componendo l’altro cardine del neoclassicismo, volto, tra molteplici influenze, verso la fonte espressiva di Raffaello (autore del Parnaso, dipinto nel 1511 nella Stanza della Signatura in Vaticano). Di questo pittore tedesco si deve almeno citare un altro suo vertice, la Gloria di S. Eusebio (1757), troneggiante la volta della navata centrale della chiesa titolata, in Roma, a questo Santo.
Tale nitore non può che incidersi nell’animo di vibrante sensibilità della Kauffmann, la quale da una visuale, così intessuta di echi, si spinge nella forma definente la sua creatività, divenendo negli spazi dell’arte protagonista della nascente temperie artistica e culturale nell’ambiente romano e successivamente in altri lidi. Invero, la sua penetrante eleganza si appalesa nella ritrattistica, come attesta il brillante Ritratto di Winckelmann (1764; Kunsthaus, Zurigo), ove si evidenzia un originale richiamo al Batoni.
Il Batoni, per l’appunto, che traduce il classicismo non da concetti teorici, bensì interpretando quanto, magistralmente, raffigurato dai Carracci sino a concepire una profonda rappresentazione “ermeneutica” della natura, trasmutata in” sentimento classico”, quindi visione incorrotta eppur intensamente pulsante giacché posta, da tale sensibilità, in relazione logica (valore di verità) con la pittura cinquecentesca. Egli riprende, con carattere innovativo, diversi modelli culturali, in armoniosa sintesi tra il mondo naturale –appartenente all’esperienza- e la tradizione classica. Insigne ritrattista, il Batoni dà forma a un’inedita esposizione del personaggio dipinto, effigiandolo in un ambiente di plasmata classicità, cogliendo un riguardevole successo presso la ricca committenza inglese, molto presente in Roma nello spirito del Grand Tour, il viaggio verso le città europee culturalmente più attraenti.
Come illustrato nel mio post “Il Grand Tour a Roma di Felix Mendelssohn-Bartholdy” (20 giugno 2016; attualmente settimo scritto tra i più letti) esso è itinerario stimato come irrinunciabile esperienza, del percorso di maturazione intellettuale dei giovani, sia appartenenti a famiglie estremamente colte, sia dediti all’esercizio dell’arte. Già praticato, nel corso del XVII secolo, dai rampolli di nobile schiatta britannica, si dilata nel XVIII secolo per il favore decretato da altri paesi dell’Europa, godendo di enorme credito e seguito sin quasi alla fine del successivo XIX secolo, ampliandosi il pubblico dei “frequentatori” non limitato quindi ai soli giovani. In breve tempo, tra le mete da raggiungere, s’impone ovviamente l’Italia in cui giganteggia Roma, che dispiega ai visitatori i suoi emozionanti e monumentali resti archeologici, le sue pregiatissime collezioni di pittura, di scultura antica e di epoche successive. Ambiente pertanto fervido, mosaico di artisti e di committenti italiani e stranieri, committenza che cospicuamente espande perciò l’attività delle arti.
La Kauffmann elabora quindi, con personalità, ciò che si annuncia in chiave figurativa e frequentando i viaggiatori inglesi –alcuni dei quali saranno i suoi maggiori “richiedenti” -, numerosi nel Grand Tour, ne realizza i ritratti, su cui campeggia quello di David Garrick, noto attore e direttore di teatro, rinnovatore della scena britannica del XVIII secolo. Eccellente dipinto (1764; Burghley House, Stamford), che ritrae il personaggio nell’atto di voltarsi, sulla sedia presentata con la spalliera verso l’osservatore. Il quadro viene esposto a Londra nella mostra voluta, nel medesimo 1764, dalla Free Society of Artistis, destandone l’ammirazione sia degli artisti e sia dei visitatori, aprendo all’autrice la celebrità, in Inghilterra, prima ancora del suo arrivo nella città londinese.
Benché stia sorgendo evidente la sua luce pittorica -anche per la vicinanza del padre- lei non  cede al compiacimento  dell’incipiente fragoroso successo che la segue: il suo moto creativo esige di più. Ancora studia gli “antichi” e tuttora indaga i lavori dei suoi contemporanei, intessendo maggiormente fertili rapporti artistici, sociali, personali. Abilissima ormai nella copia e adesso nota per la sua vena ritrattistica, la Kauffmann si volge verso la pittura incentrata su soggetti storici, determinazione insolita esplicitata da una pittrice, che ne rivela il fecondo e libero temperamento. Frequentatrice di elevate sorgenti letterarie, raffinata conoscitrice di antichi versi sculturali, arricchisce il suo estro con disegni di nudo (traendo modelli da quelli riservatole dal Batoni); oltre a ciò, perfeziona l’abilità prospettica, forse grazie al Piranesi. Il suo estroso spirito, ora interamente pronto ad affrontare tematiche differenti, snoda il compimento anche di opere di tipo mitologico, in cui all’inizio si notano alcuni esitanti tratti, che celermente svaniranno. La sua abilità afferma una personale fusione di elementi derivati dal classicismo seicentesco, sostanziati da una struttura compositiva elegante e rigorosa, congiunta a un elevato uso del colore, impregnato di complessa articolazione, che mai abbandonerà. La sua valenza artistica è talmente riconosciuta da essere accolta, il 5 maggio 1765, fra gli accademici di merito dell’Accademia di S. Luca.
Dopo la prima esperienza romana, giunge a Bologna e poi a Venezia, dove conosce l’ambasciatore inglese John Murray cui la consorte, lady Wentworth, ammirandone i lavori, la invita a seguirla a Londra, che raggiungerà nel 1766 –successivamente a un breve soggiorno a Parigi, la sua prima esperienza di vita e di arte, priva della figura paterna- rimanendovi sino al 1781.
La sua pittura dissigilla, secondo quanto finora descritto, un progressivo sviluppo, stringendo un rapporto artistico, poi amoroso, con Joshua Reynolds, tra i più acclamati pittori inglesi del XVIII secolo. Magistrale ritrattista, capace di trasformare il ritratto -considerato sino allora mera aderenza all’immagine del raffigurato- in un’elaborata visione ardita, nella quale le figure sono rappresentate quali soggetti mitologici, a volte fantastici, ideati eroicamente, drammaticamente, combinando linguaggi diversi presi, tramite una rielaborazione di caratteri, dalla scuola veneziana e bolognese, da Rubens, dall’ultimo Rembrandt. Artista di sagace e innovativa ingegnosità, che gli consentono di far proprie sostanziose “qualità sociali”, grazie all’ampia platea cui questa consonanza plastica molto gratifica, tale da renderlo caro all’aristocrazia, ai colti nuovi ricchi, agli intellettuali.
Angelica Kauffmann si rivela, anche in questa sfera, compartecipe del relativo complesso clima. Donna libera nell’animo, sulla quale si posa il romanzare sulla sua esistenza, su ciò che deriva dal suo operato artistico, sulla relativa ottima considerazione, tanto da abbigliarla quale personaggio in vista negli ambienti riservati, solitamente, agli uomini, o dove le donne hanno aspetto di orpellatura. Miseri pettegolezzi però si aggiungono a miserrime, pungenti voci, circa le sue relazioni amorose. Il padre, probabilmente anche per questi motivi, sopraggiunge a Londra durante il novembre del 1767.
La cifra stilistica della pittrice è irrefrenabile; essa è brillante faconda sponda, dove le onde dei contatti del suo particolare spirito sono colti dall’incessante apprendimento, che non decade in un’appropriazione supina, bensì stende la sua tavolozza in un’originale poetica, iridescente nel continuo divenire. La sua attenzione per i temi storici uniti a versanti allegorici e letterari, individua molti elementi comuni con l’idea di pittura, diffusa nel circuito inglese dal Reynolds, a sua volta sostenitore del balenio artistico della Kauffmann, cui i ritratti presentano un evidente espressione figurale, spesso declinata con riflessi “dell’antico”. Vero e proprio culmine di tale sua nobile e quieta dimensione è appalesato dal Ritratto di Joshua Reynolds (1767; Saltram House, Plymouth), che contiene gli enunciati segni distintivi, così impressi nella rilassata posa del pittore e nel suo sguardo vivace, attorniati da un alone di pregnante intimità, definita pur nel disegno del tavolo, su cui insistono libri di autori inglesi, accanto ai quali si staglia una protome di Michelangelo. 
Nel 1768 è tra i membri fondatori della Royal Academy, unica donna insieme a Mary Moser, altra pittrice britannica, nota, in primo luogo, per le raffigurazioni floreali.
L’appartenenza al sesso femminile determina –ahimè- l’esclusione da gran parte dei principali eventi e iniziative della stessa Academy; inoltre, la “nostra Angelica” deve sostenere l’urto dei mediocri preconcetti -esposti da qualche suo “collega” -, secondo i quali l’universo femminile sarebbe incapace di assurgere alle più alte vette artistiche. La sua fama dunque solleva aspri contrasti, poiché il dominio degli uomini nel mondo dell’arte (e non solo in quello) l’avverte quale sorta di “innaturale” ingerenza; a ciò si aggiungono alcune impreviste difficoltà finanziarie, nonché un rovinoso matrimonio. Nulla può fermare la sua ispirata lucentezza creativa; il suo talento dischiude il portale della casa reale inglese, quelli delle dimore nobiliari e delle famiglie facoltose, derivandone numerose commissioni, riuscendo a imporsi con il favore d’illuminati mecenati. Continua anche la serie di Autoritratti; sicuramente riuscito appare quello compiuto in veste di Suonatrice di chitarra (1769, circa; Saltram House, Plymouth), ove padroneggiando delicatamente una chitarra barocca, mostra il differente versante del vasto suo respiro artistico, comprendente quello musicale, alludendo forse che tal effigie è, tradizionalmente, più consonante al suo essere donna ma il quadro, in quanto tale, ne esplicita la reale e felice consistenza pittorica, che sfugge a predefinite “parti” accettate in forza a costumi imposti.
Pur se acclamata da una committenza sempre più ampia, avverte intorno a sé la percepibile peculiare attenzione –trasmutabile frequentemente in gravoso negativo giudizio “morale” - che sembra seguirla in ogni suo passo, dopo ogni pronunciato atto.
La sua celebrità oltrepassa la normale misura –per come sembra indifferente a quella maligna atmosfera-, modellando un anello in cui si attorcigliano la febbrile attività e le inconsumabili richieste di quadri, che agli occhi dell’ambasciatore danese, in Londra, appare sconsiderato comportamento, esemplificato con la sua esclamazione: “Anna la pazza!”. Successo confermato dalla ragguardevole diffusione di stampe, tratte dai suoi dipinti, dagli stretti rapporti intrattenuti dalla pittrice con i principali incisori e stampatori inglesi; popolarità ribadita dall’utilizzo delle sue composizioni nelle arti applicate, quali la decorazione di mobili e di porcellane.
Sua la cultura, il sapere dosato nella grazia, il rimando all’erudizione palesato, ad esempio, nel dipinto di Teresa Parker (1773; collezione privata), dono di un’amicizia, dove la reciprocità di questo sentimento è raffigurato secondo l’Iconologia di Cesare Ripa (testo del 1593 che influenza enormemente le arti figurative almeno sino all’epoca della Kauffmann). Sono le tre Grazie –tratteggiate dalla pittrice sul piedistallo di una protome femminile da modello “all’antica” - che lo scritto illustra come “tre fanciullette, coperte di sottilissimo velo, sotto il quale appaiono nude. Così le figurarono gli antichi Greci, perché le Grazie tanto sono più belle, e si stimano, quanto più sono spogliate d’interessi, i quali sminuiscono in gran parte in esse la decenza e la purità; però gli antichi figuravano in esse l’amicizia vera, come si vede al suo luogo”.       
Il pulsante spirito interiore, permeante il suo percorso, appare estraneo a una staticità voluta dalla considerevole “produzione” di ritratti, facilmente venduti e dunque fonte di sicuro guadagno: deve ulteriormente cimentarsi nella pittura storica, mitologica, con dipinti di grandi dimensioni, affermando in tal modo la sua ispirazione capace e valente; sfida voluta, cercata con queste opere vendute con difficoltà, rispetto alla ritrattistica, ma esse ne testimoniano la luminosa caparbia e la risoluta indole.
Nel 1781, anno particolare per la Nostra, sposa (in seconde nozze) il pittore veneziano Antonio Zucchi, membro della Royal Academy; sarà devoto coniuge sino al decesso, che avverrà nel 1795. Il richiamo dell’Italia penetra in lei, ora che possiede una concreta notorietà e il suo stile dissoda straordinaria versatilità.
Lasciati i lidi inglesi, dopo una breve permanenza nelle Fiandre, la nuova coppia sosta a Venezia, Ferrara, Loreto, mentre il genitore muore nel 1782, anno dell’arrivo a Roma. Acquistata una dimora, durante la relativa ristrutturazione, i due coniugi si trasferiscono a Napoli. La rinomanza della Kauffmann non può che essere accolta, con entusiasmo, dalla dinamicità culturale della città partenopea; la stessa regina, Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, moglie di Ferdinando IV Borbone, re di Napoli (ma Ferdinando III come re di Sicilia), persevera nel volerla insignire del preminente titolo di pittrice di corte, dalla Nostra invece rifiutato con decisione (tornerà brevemente in quella città soltanto nel 1785); invero, il Ritratto della famiglia reale (1783; Museo nazionale di Capodimonte) sarà terminato a Roma.
Nella “Città Eterna” la sua prima giovinezza vi ha conosciuto il genius, il naturale spirito animatore di questo luogo, che dona il respiro all’arte nella storia sino a personificare una dimensione universale. Non solo scoperta del fascinoso paesaggio, della sovranità dell’antico e del classico ma pur svelamento del più intimo moto, affidando l’animo a quegli spazi, ove si riconosce l’insopprimibile acqua sorgiva dell’elevato sentire, luogo nel quale avviene ciò che Lucio Anneo Seneca, affermava relativamente a un sentimento non muto:” Non occorre che tu sia altrove, ma che tu sia un altro” (da Lettere a Lucilio).
In Roma la pittrice trova la definitiva patria d’adozione; l’atelier e, soprattutto, il salotto della sua abitazione, diventano un punto d’incontro primario della vita artistica e intellettuale cittadina; in tale favorevole contesto si avvia l’intenso rapporto con Johann Wolfgang von Goethe, del quale realizza il Ritratto (1787; Goethe National Museum, Weimar); per il poeta, scrittore e pensatore la Nostra s’innalzerà come amica ammantata da ineguagliabile chiarissima e raggiante luce, con la quale condividere le più intense emozioni.
La creatività pittorica –tutti i lavori sono eseguiti a Roma- della Kauffmann è tangibile straordinaria distribuzione della scena disegnata, palpabile equilibrio tra forma e tema, che continua ad affascinare la platea albionica; contemporaneamente prodighe commissioni le provengono, non solo dalle corti italiane ma pure da eminenti corti europee, pronuncianti i nomi di Giuseppe II, imperatore austriaco, Caterina la Grande di Russia. Tra il 1780 e il 1796 compone molte opere tra le più pregevoli, sia ritratti (a autoritratti), sia dipinti –ormai anch’essi stabili nel suo repertorio- di scene mitologiche, storiche o religiose. Dal periodo corrispondente alla Seconda Repubblica Romana (9 febbraio-4 luglio 1799) a quello successivo prosegue l’attività del suo studio, pur se in maniera meno accesa, anche per la cagionevolezza, del suo stato di salute, sempre più frequente, motivo di brevi viaggi di riposo. I suoi ultimi lavori, Cupido e Venere (1800; Staatliche Museen, Berlino) e l’Incoronazione della Vergine (1801-1802; Chiesa parrocchiale di Schwarzenberg), conservano, nella diversità tematica, eloquente espressione di appassionato quieto incanto ideologico e tuttora magnifica sicurezza dei tratti.
Quanto sinora scritto introduce al ritratto, cui il titolo di questo post ne indica il rapporto con l’insorgenza e il progressivo sprigionamento della cifra stilistica della Kauffmann; opera tarda aperta alla visione della realtà percorsa dalla sua arte, quindi dalla sua esistenza, insieme di elementi vari e dissomiglianti, visuale perciò rilucente e ombrata, sfaccettata e molteplice.
Il dipinto Giovane Donna quale Baccante appartiene dunque alla stagione ultima della pittrice; esso è firmato e datato 1801. Olio su tela, vi è modellata dunque una giovane donna, in veste di baccante, cui l’etimo latino la rivela figura muliebre, celebrante con grida e danze la festa di Bacco, derivata dalla menade, che l’etimo greco percepisce come donna forsennata, furente, dominata da un’incontrollata passione. Tutto si riconduce alle invasate devote al dio Dioniso-Bacco, allusione all’affrancamento della vita dalle strette funi della quotidianità, della convenzionalità, che soltanto il culto estatico del dio provoca, venerandolo totalmente, rapite con il canto e con la danza, incoronate con ghirlande. Figure ammantate di spontanea bellezza, sono immortalate in una delle più frequentate opere di Euripide, Le Baccanti (405 a.C., circa). Personaggi mitologici viventi nell’arte letteraria e figurativa, traslati e conseguentemente figure metaforiche del singolare stato di abbandono, insito nel culto dionisiaco. Storicamente tuttavia alcuni gruppi femminili praticavano in inverno avanzato -in modo particolare nella Grecia centrale-  un rituale, sorta di “danza della montagna” celebrante il dio.
Dioniso, divinità della vite, della vegetazione, del possesso religioso, che gli esseri umani possono “sentire” attraverso l’ebrezza o per mezzo dell’estasi spirituale, eccitazione esposta per l’appunto in estasi, dal greco ekstasis, vale a dire “essere o stare fuori da sé stessi, essere in un altrove”, ispirazione divina, nella quale la personalità soggettiva umana svanisce, pur se per limitato tempo, mutandosi in essenza della divinità.
E' possibile, per quanto detto, elaborare una colleganza, magari ardita, con uno stato –secondo alcuni elementi- similare: la follia quale “vagare fuori” dunque stravaganza. Se il grigiore dell’ignavo si manifesta nel suo essere arido, frivolo e privo di reale passione, il suo avversario, l’eccesso (sostantivo di eccedere, dal latino “andare fuori”) e quindi questa particolare follia -secondo questa visione- diviene il mezzo unico per scardinare il confine –recinzione dove vi si alberga costantemente- in cui, l’uomo, è collocato dal caso, dall’evento, da ciò che fonda l’ordinario orizzonte del vivere, nel quale esso cade. Questa distinta follia non possiede attinenza con la dissennatezza, al contrario muove lo sforzo estremo che, l’uomo medesimo, compie per non capitolare e seguitare a vivere realmente, contrapponendosi ai colpi della “sorte” –intesa quale vicenda dettata da una “potenza” astratta- che in tal guisa è fortemente avversata.
La giovane dipinta dalla Kauffmann sottintende questa complessa antitesi, in una posa di delicata lieve malinconia, quasi una pausa introspettiva successiva all’estasi, uno sguardo che sospeso indaga un luogo altro, inducendo l’osservatore a “vedere”, nel significato dell’antica radice indoeuropea di vedere con gli occhi della mente –quindi consapevolmente- divenendo “io so”, quindi reale conoscenza, sapienza. Stato di assoluta difformità rispetto al “guardare”, scaturito dal latino medievale a sua volta derivato dal franco “stare in guardia”, perciò chiudersi in difesa di sé stessi, per
una possibile minaccia esterna. Il candido volto dalle rosee gote e l’inghirlandata corona risuonano l’Autoritratto (1786) dello Staatliche Museen di Berlino, dove l’idealità dell’incorruttibile leggiadria viene esposta trafiggendo la piena del tempo. L’aggraziato capo, dalle morbide lunghe chiome, della Baccante è cinto da una corona di foglie di vite, richiamo ai grappoli d’uva dai quali il vino acquista la proprietà di bevanda spirituale dionisiaca-brachica. Le mani tengono delicatamente un tamburello, rimando alla danza osannate la divinità. Alle sue spalle è piantata una quercia, simbolo di durabilità, d’immortalità in virtù della robustezza del legno; nell’antica Grecia con il vocabolo drys, quercia, s’identificavano le Driadi, ninfe proprio delle querce, sotto cui vivevano; divinità minori di aleggiante beltà, caratteristica armoniosamente esposta nell’incarnato e nell’espressione tutta del personaggio femminile. Per il legnoso tronco sale una spirale di edera, abbraccio dal significato d’indissolubilità di questa pianta sempreverde, perciò ribadita interpretazione d’immortalità, eloquente efficacia di vitale forza svelata, felice legame dell’affetto –intenso moto dell’animo- infinito, benefico insieme di sentimenti liberati, emozioni e passioni intramontabili.
L’ambientazione enuncia, seppur delicatamente, la possanza del sentimento, quasi un alternarsi con la quieta immagine, che invece con soavità pronuncia, con vivezza dal tono sapienziale, un’ode sovrana. La nuda spalla, le vellutate membra riflettono una carezzevole luce che gioca con il tenue colore rosa del manto, il quale delicatamente corre lungo il giovane corpo nitido, biancore plasmato con alcuni rosati tratti della levigata pelle. Purezza d’animo eppure allusiva all’ardore che impregna l’anima aperta, quest'ultima sottolineata dalla bianchezza incisa sulla veste tenue; infine, un bracciale –monile e null’altro- adorna il braccio confermando la raffinatezza della figura. Il quadro pertanto palesa tinte chiare, stese con freschezza e genuinità di tocco, in una compostezza di segno classico.
L’opera può essere interpretata come contemplazione dell’autrice, una rappresentazione di un ideale che accarezza il mondo antico, Roma, godendo sino alle profondità dell’animo la bellezza, vivida non stantia, non appartenente a una sfuggita utopia bensì aderente a una veduta possibile, eterna.