Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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venerdì 27 marzo 2015

Antoniazzo Romano: la tavola “Madonna con il Bambino e i Ss. Benedetto, Paolo, Pietro, Giustina” della Basilica di S. Paolo fuori le Mura


Antonio Aquili (1435/1440-1508), detto Antoniazzo Romano, è uno dei protagonisti che agiscono, nell’ambiente artistico di Roma, durante la seconda metà del XV secolo giungendo sino alle soglie del XVI secolo, quando un nuovo linguaggio esprime il verso pittorico. Egli emerge da quella sorta di anonimato che comprime la pittura della “Città Eterna”, come dimostra la breve citazione (unico pittore romano di questo periodo) del Vasari contenuta nella sua raccolta “Vite de’ più eccellenti Pittori,  Scultori, e Architettori italiani da Cimabue insino a’ tempi nostri” (1550), in cui l’Aquili è definito pittore “dei migliori che fussero allora in Roma”.
 
Il nome Antonius presente nei dipinti giovanili è presto mutato dal soprannome, esso stesso in forma latina, Antonatius (corrispondente ad Antonaccio, Antonatio, Antonazo) Romanus –che sostituisce l’appellativo de Roma quale indicazione del luogo natio- con cui firma le sue opere.
 
La cornice, il luogo eletto nel quale l'attività di Antoniazzo si compie è “l’Urbe”; infatti, non si hanno notizie di lavori eseguiti fuori dal perimetro della città o dai suoi dintorni. Molto probabilmente i dipinti su tavola, voluti da committenti laziali, sono eseguiti nella bottega romana e da qui inviati alle residenze degli “ordinanti”. Avvalendosi di un copioso numero di collaboratori, di allievi e di lavoranti, la sua versatilità si compie in diverse “sfere” oltre a quella della pittura (su tavola ma anche murale); invero, fornisce costante prova d’inconfutabile capacità di creare originali e raffinati allestimenti effimeri per feste e per cerimonie (ad esempio gli apparati cerimoniali per l’elezione di Paolo II, 1464 e di Innocenzo VIII, 1484, in tale occasione insieme al Perugino), creando altresì pregevoli scenografie teatrali. Inoltre, questo suo eclettismo lo guida verso attività artigianali –non costituendo, nel seno della Storia dell’Arte, un’unicità rispetto ad altri “maestri”-, quali l’esecuzione e il restauro di manufatti liturgici, le dorature e le coloriture di monumenti funerari. A questo proposito si rammentano i lavori, aventi tale carattere, rappresentati dalla rifinitura delle porte e delle finestre, compiuti nel corso della decorazione della Biblioteca Segreta (privata) e della Biblioteca Pontificia (1480-1481) che Sisto IV fa erigere, completando le aule edificate, intorno al 1450, da Niccolò V. Questi interventi sono un’appendice dell’ornamentazione di quei luoghi, che desta l’ammirato commento, “con somma maestria a chiaroscuro dipinti”, dell’accademico Giovanni Pietro Chatard, contenuto nel secondo volume della sua “Nuova descrizione del Vaticano o sia della sacrosanta Basilica di S. Pietro” (1766), ornamento degli ambienti realizzato, grazie a una struttura di tipo societario, con Melozzo da Forlì (1438-1494), quest’ultimo autore del grandioso affresco “Sisto IV nomina il Platina prefetto della Biblioteca Vaticana” (oggi conservato presso la Pinacoteca Vaticana).
 
Il suo programma iconografico aperto alle novità ne accoglie i modi, elaborandone, però, autonomamente i linguaggi (nella sua maturità artistica trovano maggiore spazio magnifici paesaggi ed elementi architettonici anche vigorosi), pur mantenendo il forte legame con la magnifica tradizione figurativa medievale di Roma, determinando un consistente seguito di committenti definibili quasi conservatori; Antoniazzo, quindi, rappresenta una religiosità pressoché estranea a taluni fermenti dell’Umanesimo, sebbene ricerchi un vincolante accostamento tra la cultura classica e il pensiero cristiano. Egli lavora per conventi, comunità religiose, confraternite, pie istituzioni, alti prelati, nobili e famiglie illustri; legato, per l’appunto, al mondo religioso nel 1470 è camerlengo della Compagnia del Gonfalone (una carica che ne individua l’incarico quale “economo”) in cui il suo rapporto non è ristretto alla funzione amministrativa, al contrario si sviluppa nella “cura professionale” con la messa in scena, come già è stato illustrato, d'impianti, di “paramenti”, che egli appositamente “modella” per le ricorrenze, per le processioni e per i riti ad essi congiunti, testimoniando altresì una spessa devozione, connotante la sua vita.  
 
Tra i dipinti che sono a noi giunti, del pittore romano, quelli conservati presso la Basilica di S. Paolo fuori le Mura sono raramente "frequentate", seppur racchiudano anch’essi i pregevoli elementi del suo linguaggio. Tali lavori si collocano durante il periodo nel quale, il relativo complesso abbaziale, viene arricchito con opere d’arte, in seguito alla ricostruzione del monastero, avvenuta intorno al 1430 -per volere del riformatore benedettino Ludovico Barbo-, dopo un lungo spazio temporale con momenti di notevole incuria. 
 
Da attribuire ad Antoniazzo l’affresco raffigurante il solo S. Paolo, collocato nella lunetta sopra l’andito che conduce alla Sala Gregoriana, ove è posta la colossale statua di Gregorio XVI – di Rinaldo Rinaldi (1793-1873)- prospiciente l’ingresso della Sacrestia; allo stesso modo il quadro “Madonna con il Bambino e i SS. Benedetto, Paolo, Pietro, Giustina”, recentemente restaurato, custodito presso la Pinacoteca-Museo della Basilica, è riconducibile alla mano dello stesso pittore, mentre gli altri colà presenti sono riferibili a collaboratori della sua bottega.  
 
Madonna con il Bambino e i Ss. Benedetto, Paolo, Pietro, Giustina
 
Questa tavola, secondo miei studi, ascrivibile al periodo compreso tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta del XV secolo, mostra, nella formulazione plastica, alcuni segni iconologici di radicata tradizione allegorica, su cui soffermarsi.
 
Il panneggio della Vergine mostra sia la veste di colore rosso, rimando al concetto di dinamismo che caratterizza la figurazione del fuoco, sia il manto dalla tinta azzurra, il quale allude al cielo e quindi all’intensa concentrazione spirituale che in esso si rappresenta, alla purezza. S. Benedetto da Norcia –la Basilica è retta dai monaci benedettini- tiene fermamente tra le mani un passo in latino -a mo’di libro con pagine aperte- di ammonimento, di parenesi, tratto dalla sua Regula. S. Paolo è rappresentato con la spada, strumento del suo martirio però anche arma spirituale come scrive lo stesso Apostolo nella lettera agli Efesini (capitolo 6, versetto 17) “Prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la Parola di Dio”; la forza della sua fede, così raffigurata, è descritta in un’altra epistola paolina (2°Timoteo, capitolo 4, versetto 7):” Ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho serbato la fede”. S. Giustina di Padova, eletta patrona –insieme a S. Benedetto- della Congregazione Benedettina ad ella intitolata (1418, per volere del già citato Ludovico Barbo), martirizzata nel 304, richiama la gloria della sua violenta morte con la foglia della palma, stretta nella mano destra, come un pennino, che sembra indicare il libro tenuto dalla mano sinistra.
 
Il dipinto s’inserisce nella tipologia della pala unificata rinascimentale, accolta da Antoniazzo, che in questa fase abbandona la struttura a trittico –ma non definitivamente dalla sua bottega- costituita da scomparti divisi, “isolati”, in precedenza adottata in diverse realizzazioni. Lo spazio è quindi unitario, comprendente figure senza elementi divisori, risaltando, ai lati della Vergine, quelle dei due santi protettori benedettini (S. Benedetto a sinistra e S. Giustina a destra) alle cui spalle, quasi in linea con il piano dominato dalla Madonna, stanno, rispettivamente, S. Paolo e S. Pietro, colonne della Chiesa le cui membra (i due santi) ad esse sono unite per mezzo di Maria, assisa su un trono, privo di dorsale, che non la eleva rispetto agli altri personaggi, sebbene lo schietto modanato podio ne cadenzi la regalità, frangendo il piano di calpestio. Il Bambino – nel centro compositivo della tavola- disteso sopra le gambe della Madre, vi poggia il capo quasi sul ginocchio sinistro e sebbene nudo una tenue stoffa azzurra ne protegge le terga, ponendo l'accento sull’amore materno così colto verso quel “frutto” che, dal “seno” della Vergine, è venuto nel mondo quale luce per l’umanità.
 
L’opera esprime una limpidissima tenerezza, un nitore di caratteri i quali, in un impianto di acuta semplicità, effondono una “sostanza poetica”, una controllata magnificazione della spiritualità luminosa e intenerita, esponendo una lieve assonanza di espressioni, pur divergenti, che la maestria di Antoniazzo accorda fra il pensoso splendore, quasi mesto, della Vergine e la chiara, quasi ieratica, leggera plasticità dei santi. Il fondo oro emana un senso temporale sospeso, la disposizione avanzata dei due santi benedettini conferisce, alla scena, una “perfetta” asimmetria che dona profondità al dipinto, ove i personaggi, pur illuminati dall’ampio ricadere di pieghe delle vesti, restano cinti in un'aura arcaica dai caratteri distintivi, poiché la soluzione plastica è sviluppata con morbidi modi scultorei. La messa in posa delle figure descrive, dei volumi, una sorta di sintassi, descritta dagli sguardi nonché dalla posizione delle braccia, delle mani, dei piedi. L’azione pittorica da una rigida regola sembra accrescere il suo portato, che dalla codificata religiosità vuole trapassare l’astratto anelito di sacro fino a sostanziare la santità.



 

 

mercoledì 18 marzo 2015

I mosaici medievali della Cappella del “Sancta Sanctorum” nel Complesso del Santuario della “Scala Santa”


Il complesso episcopale sito accanto alla Basilica di S. Giovanni in Laterano, in origine dedicata al Salvatore e successivamente ai SS. Giovanni Battista e Giovanni Evangelista, Cattedrale del Vescovo di Roma, si sviluppa, tra il VI e il IX secolo, nella zona nord-est dell’area -in uno spazio molto più esteso rispetto all’attuale Palazzo Apostolico-, ed è ampliato e abbellito nei secoli posteriori. Inizialmente indicato come Episcopium Lateranus viene chiamato dalla fine del VII secolo, circa, Patriarchium –patriarca d’Occidente è altro titolo che in origine è attribuito al medesimo Vescovo “dell’Urbe”- e, dal IX, circa, anche Palatium.
Il superbo palazzo papale comprende gli appartamenti privati e la cappella del pontefice oltre ad aule di rappresentanza e di riunione, oratori, locali amministrativi e assistenziali, edifici di servizio, collegati fra loro attraverso corridoi, cortili, porticati, scalinate: ambienti decorati con marmi, mosaici, affreschi. Il multiforme organismo palaziale, costituito da due piani, è formato da un’ampia “zona privata” estesa a oriente, più antica e più interna, nonché da una più esterna, di rappresentanza, edificata a occidente, dinanzi alla quale si apre la spianata irregolare dell’antico Campus Lateranensis. Nel Medioevo, inoltre, il Patriarchio assume l’aspetto di una cittadella fortificata munita di torri che spiccano su alti muraglioni, assomigliando, perciò, a una sorta di borgo.
L’oratorio di S. Lorenzo in o de Palatio (in seguito detto Sancta Sanctorum) è situato nel Patriarchio; edificato come cappella privata del pontefice è il luogo ove si conservano numerose e preziose reliquie, nonché vano dove è posta la veneratissima icona Acheropita del Salvatore, vale a dire “non fatta da mano”, dunque non opera umana ma realizzata per intervento divino. Esso quindi si unisce, per mezzo di un connubio espressivo, con la prima titolazione della Basilica Salvatoris, alla quale è collegato, tramite un percorso che comprende un lungo corridoio porticato, il quale “sfocia” nell’ala nord orientale del palazzo, e l’Aula Concilii (magnifico ambiente con undici absidi).
Della sua esistenza, in età altomedievale, ci riferiscono alcune fonti, talvolta incerte, del VI, VII, VIII secolo e proprio a quest’ultimo secolo appartiene la notizia, storica, circa la presenza di tale cappella negli spazi del Patriarchium, allorché il 29 giugno 767 vi è ordinato suddiacono e poi diacono, ai fini dell’elezione pontificia, Costantino, un membro di una potente famiglia originaria di Nepi, che con il nome di Costantino II è consacrato, papa (storicamente è considerato un antipapa).
La fisionomia cultuale della cappella si amplia durante il pontificato di Leone III (795-816), di cui rimane l’ornata arca di cipresso (custodia di reliquie), di Gregorio IV (827-844), il quale edifica il suo appartamento nelle vicinanze per recarvisi con più frequenza a pregare. In epoca successiva la cappella è arricchita da Innocenzo III (1198-1216), che riveste l’icona Acheropita con una lamina argentea sbalzata, oltre a ciò chiude con sportelli bronzei l’incavo, dell’altare, ove sono conservati reliquiari -compreso quello di papa Leone-; l’edificio è restaurato dal suo successore Onorio III (1216-1227).
La cappella attualmente si presenta secondo la forma voluta da Niccolò III (1277-1280), costituendo l’unica testimonianza ancora in situ della splendida residenza papale medievale. In quel periodo, la santità del luogo determina l’appellativo biblico “Santo dei Santi” (Sancta Sanctorum), subentrando alla dedica originaria, in analogia con la denominazione della parte più interna e sacra del Tempio di Gerusalemme, contenente l’Arca dell’Alleanza.
Nel XIV secolo, durante “l’esilio avignonese” dei pontefici (1305-1376), il palazzo subisce un progressivo decadimento, altresì per gli incendi del 1308 e del 1361. Per questa ragione, Gregorio XI (1370-1378), riportando il papato a Roma (17 gennaio 1377), decide di risiedere presso il Vaticano, già scelto da Urbano V (1362-1370) durante il breve periodo del suo “gran ritorno” (16 ottobre 1367-5 settembre 1370). La desolazione che ha invaso questo insieme di edifici –e non solo-, determina alcuni interventi di restauro attuati da Martino V (1417-1431), cui seguono i lavori di rinforzo, posti in opera da Calisto III (1455-1458), della parete orientale del “Sancta Sanctorum”, che perde, definitivamente, la funzione di cappella, anche cerimoniale, del papa, con il completamento della profonda ristrutturazione della Cappella Magna (1477-1482: la Cappella Sistina), in Vaticano, voluta da Sisto IV (1471-1484) e consacrata il 15 agosto 1483 e dedicata alla Vergine. 
Il complesso lateranense “degrada”, in molte parti, in rovinosa condizione, finché Sisto V (1585-1590) nel 1585 incarica Domenico Fontana di abbattere l’intero Patriarchio, rinnovando l’assetto urbanistico dell’area (comprendente la costruzione del Palazzo Apostolico nonché del Santuario della Scala Santa), nell’ambito di un nuovo piano regolatore di Roma, che prevede la realizzazione di nuovi tracciati viari, tra i quali, quello di collegamento di S. Maria Maggiore con Trinità dei Monti e imprese di notevole impegno ingegneristico, come l'innalzamento di grandi antichi obelischi, tra cui quello di S. Giovanni in Laterano (1588), quali punti focali di considerevoli ambienti urbani.
Il Santuario della Scala Santa (oggetto di un mio studio comprendente i sotterranei) è progettato, dunque, secondo un piano di risistemazione architettonica, allo scopo di preservare sia la cappella medievale del Sancta Sanctorum, sia la Scala Santa, considerata come quella salita da Cristo per recarsi al pretorio di Pilato, in origine posta all’ingresso principale sul lato settentrionale del Patriarchio. Questa “devozione” verso la “Scala Pylati”, documentata nell’Anno Santo 1450, forse già così frequentata nel periodo immediatamente precedente, entra, in modo definitivo, nella storia liturgico-penitenziale durante il pontificato del medesimo Sisto V. Infatti, con la bolla “Cum singularum rerum” (1590), egli annuncia il compimento del Santuario affermando, riguardo al Sancta Sanctorum, “che per la santità del luogo lasciammo intatta e immota nella sua sede primitiva e collocammo in un luogo più decoroso e più santo, più lontano dalla confusione della folla e più adatto a suscitare la devozione”. La Cappella, così nascosta alla vista, viene isolata e ubicata, apparentemente, in un rapporto di dipendenza rispetto all’enfasi cultuale della Scala Santa, attraverso la quale si esalta la Passione di Cristo.
Già in precedenza Leone X (1513-1521) ha fissato alcune regole per il culto e le cerimonie liturgiche da osservare dal clero lateranense, tutte però da officiare al di fuori della Cappella, riservata alla funzione rituale del solo pontefice o da un cardinale dallo stesso designato; vano quindi inaccessibile, interdetto alle donne, diviene nel corso dei secoli luogo di grande fascino per quell’alone misterioso che lo avvolge.
Questo ambiente (restaurato tra il 1994 e il 1996), a pianta rettangolare, preceduto da un breve corridoio d’ingresso, è definito da un unico spazio coperto da una volta a crociera, che poggia su quattro colonne angolari, illuminato da monofore; esso si presenta decorato in ogni superficie con ampie rappresentazioni narrative o con fregi, che emanano un’intensa sensazione di sacralità, in uno spazio il quale piega verso una scarsella poco profonda e con volta decorata con un fulgente mosaico. Tale zona, rialzata su un gradino, è aperta da due colonne in porfido, di spoglio, aventi capitelli compositi, i quali sorreggono l’architrave con ornamentazione musiva, su cui corre l’iscrizione (questa ascrivibile alla “fase sistina”, che forse ripete una scritta già qui presente dal XIII secolo) a lettere capitali dorate su sfondo nero: NON EST IN TOTO SANCTIOR ORBE LOCUS (Non vi è in tutto il mondo luogo più santo), indicante il particolare spazio in cui si leva l’altare, ove sono custodite le preziosissime reliquie e dove la ricchissima icona Acheropita del Salvatore risalta nel suo inestricabile mistero.
I mosaici della volta di copertura absidale sono collocabili nel medesimo periodo degli affreschi (verosimilmente 1278-1279);  mostrano, su un fondo di tessere rosse e dorate, il busto, secondo lo stile bizantino, del “Cristo Pantocratore" (Onnipotente, Signore del mondo), racchiuso in un clipeo composto da rombi multicolori, sostenuto da quattro angeli in volo a figura intera. L’immagine del Salvatore è ritratta con impostazione trionfale, ieratica, che organizza il punto-chiave dell’area, per mezzo di una raffinata qualità stilistica, caratteristica determinata da una solida maestria anziché da un estro creativo, stretto nei rigorosi schemi del ripetitivo modello orientale, da cui deriva la rigidezza del disegno. Gli angeli, reggenti il cerchio, dalle grandi ali piumate, quasi taglienti, sono raffigurati, invece, con posa vitale, dinamica; la loro forza si esprime in quelle fiammeggianti pose, accese da uno sprigionato senso spirituale. Essi estendono le proprie figure nell’esigua capienza della scarsella, in virtù non delle loro dimensioni corporee ma proprio per quell'energica capacità di movimento -cui le pieghe delle vesti, agitate da un pieno respiro vitale, ne sono la similitudine- sino a invadere la scena, altrimenti statica.
Se la lettura, specificatamente tecnica, conchiude la visione della struttura musiva in modelli ben definiti, parimenti un’interpretazione che ne colga la prospettiva simbolica, di cui sono densi gli elementi sviluppati in tutto il perimetro della Cappella, ne evoca un’immagine differente da quella esposta dal suo diretto aspetto sensibile, perciò idonea ad alludere all'essenza dell’entità tratteggiata. Cristo, raffigurato nel clipeo, è il Centro che rappresenta l’origine del “tutto”, vale a dire l’Uno, il Principio, l’Alfa del creato, dal quale parte e a cui ritorna l’infinito soffio vitale di Dio, che privilegia e muove le molteplici creature umane. Egli crea l'universale causa di tutte le realtà quale Somma Essenza; Ente Assoluto -inteso nel modo Suo più assoluto- è il “motore” immutabile che dà vita al moto del creato.  
Nelle lunette sono effigiati, a mezzo busto, indicati da iscrizioni, S. Pietro e S. Paolo -ai lati di una croce, patriarcale, a doppia traversa, in cui quella superiore è più corta di quella inferiore-, S. Agnese, S. Lorenzo, S. Nicola e S. Stefano. In queste piccole figure, come quelle degli angeli, l’autore non si assoggetta ad apparenti regole costrittive, dettate da un’esigenza di dare forma solenne ai personaggi rappresentati, perciò il suo autonomo verso espressivo si rende manifesto, plasmando forme di vera materia. L’ornamento  racchiude altresì una riuscita rappresentazione di lampade a olio pendenti con docili piccole fiamme, riproduzione di quelle che - all’epoca – ardono dinanzi all’Acheropita.
Ringrazio Michela e Gianni per la squisita gentilezza mostratami  





     





   








giovedì 5 marzo 2015

Alcuni aspetti della religione dell’antica Roma


Nell’antica Roma, la presenza del sacro, è ben evidente nei plurimi versi dell'orditura propria della sua civiltà. Di “segni divini” ne sono pregni i territori appartenenti alle città, in cui hanno suggestive sembianze di boschi e di sorgenti sacrali, che accompagnano il pensiero umano in quella complessa sfera religiosa della quale i numerosi templi, i molteplici altari e le innumerevoli edicole ne rappresentano una sorta di elemento di comunicazione tra due differenti “concrete realtà”, attraverso il “dialogo” tra uno spazio, per l’appunto, sacro (fanum) e uno “esterno” ad esso, quindi non sacro (profanum).
 
Nei luoghi pubblici sono edificati monumenti, nonché piccoli organismi architettonici, dedicati ai culti; in ogni dimora è posta una minuta struttura sacra, il larario, rivolto alla venerazione, nell’intimità del focolare domestico, dei Lari -già divinità che vegliano sulla proprietà agraria- protettori della casa, il cui culto si estende anche nelle città.
 
La religiosità di Roma antica può essere compresa, nella sua totalità, osservando la rilevanza, altresì visiva, dei riti e degli oggetti sacri ad essa connessi, poiché la ragione solida sacrale nelle sue poliedriche accezioni, nei suoi palesamenti, si esplicita sia nella vita pubblica sia in quella privata. Sulla particolarità di tale fondamento numerosissimi sono i passi composti dagli antichi autori, come, ad esempio, esemplificano quelli di Polibio di Megalopoli (200, circa-124, circa, a.C.), storico greco che trascorre molti anni “nell’Urbe” e di Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.), il celebre scrittore e oratore. Infatti, lo studioso ellenico nella sua opera storiografica, “Storie”, afferma che il culto religioso: ” serve in Roma a mantenere unito lo stato; la religione è più profondamente radicata e le cerimonie pubbliche e private sono celebrate con maggior pompa che presso ogni altro popolo”, pensiero confortato dal breve brano di Cicerone, tratto da “De haruspicum responso” -orazione pronunciata dinanzi ai senatori (56 a. C.) per difendersi dall’accusa di sacrilegio-, con il quale egli delinea l’importanza, la grandezza, la peculiare forza superiore che assume agli occhi dei Romani la religione nella potenza della repubblica: ”Perché abbiamo venerato e onorato gli dei, abbiamo avuto il sopravvento su tutti i popoli e le nazioni”.
 
La religione romana viene percepita attraverso un complesso di credenze, di riti indissolubilmente legati a una funzione civica, perciò insiti nel sostrato essenziale di ogni ceto; la finalità cui si mira è il bene, la prosperità, la salvezza della città, della repubblica, in seguito dell’impero: obblighi civili, morali e religiosi devono manifestarsi quale concordanza. Senza alcun dubbio nelle preghiere individuali si chiede, al dio, il benessere personale e quello della propria famiglia -come testimoniano le offerte votive– però nell’organica sfera religiosa, come nelle altre, l’individuo appare sottoposto alla res publica, vale a dire alla “cosa del popolo” indicando, con tale accento, l’insieme di persone accomunate da medesimi interessi, tutelati per mezzo di una serie di norme, che dispongono o impediscono specifici atti e comportamenti nell’ambito della società.
 
La religiosità caratterizza ogni membro di quell’antico ambiente sebbene con differenziazioni, poiché i ricchi personaggi e gli “intellettuali” sono distanti dalle credenze delle classi sociali più umili, basti rievocare quelle dei contadini così radicate alle loro terre, rivelate secondo antichissimi riti, formule, invocazioni, così persistenti tanto da attestare azioni di un ancestrale sentimento religioso.
 
La “fisionomia” dei culti formata dai valori sacri trasmessi dai “padri”, emerge dal fondamentale significato di alcuni “vocaboli chiave”: religio esprime un vincolante principio di obblighi e di divieti sacrali in cui spicca la consapevolezza del “timore degli dei”, dello “scrupolo”, del “dovere religioso”, da cui nascono le pratiche cultuali; pietas corrisponde a un senso di “ devozione, rispetto, affetto, impegno” -verso le divinità, la patria, il padre, le persone care- con il quale viene  “accesa” l’osservanza di riconosciute attribuzioni dettate dalla legge morale. L’uomo pius, perciò, è colui che compie il proprio dovere, comportandosi probamente nei confronti di quelle figure cardini, un individuo, dunque, rispettoso dei valori fondanti della società romana.  
 
Piuttosto che nel cuore - da immemore tempo considerato come sede dei sinceri moti umani- l’atteggiamento religioso si concretizza in un rigorismo formale, in cui lo svolgimento del rituale, privo di spontaneità, deve svolgersi secondo prescrizioni rigidamente definite -nei gesti, nelle parole-, che escludono ogni pur minimo errore, il cui accadimento ne inficia la validità, rendendolo inutile e calamitando l’ira del dio: per questo motivo il rito è ripetuto nel caso di un accidentale sbaglio commesso. Il particolare carattere del clima religioso esprime l’estraneità di qualsiasi sentimento di abbandono e di fiducia verso gli dei, ai quali si riversa, invece, un timore reverenziale per ottenere la loro benevolenza, la pax deorum, che si sostanzia in un’intesa tra gli umani e le divinità, rapporto in cui si esalta, in primo luogo, la maestà di Roma e la protezione, mostrata verso di essa, dalla realtà divina onorata. La religione possiede, perciò, natura pratica, avente come unico scopo il bene dello “Stato”, della città, dei singoli devoti preganti. Un’ulteriore peculiarità configura il culto religioso: il frangere le connotazioni delle già nutritissime divinità, “lato” che acquista progressivamente massima dimensione. Ad esempio Venere è identificata altresì con Verticordia, colei “che fa voltare il cuore “ agli insensibili, cui il culto è autonomo da quello tributato alla “dea principale”.
 
La notevolissima importanza riconosciuta alla conoscenza della volontà, degli dei, ne modella i riti cristallizzandoli -come già si è considerato-, mantenendone immutabili gli schemi, le cadenze cerimoniali, il cui significato sfugge, con il passare dei secoli, ai medesimi Romani. Da tale impianto esasperatamente formale si origina una sorta di “competenza tecnica” dei sacerdoti, suddivisi in specifici settori cultuali. 
 
Dalla seconda metà del II secolo a.C., alla caduta dell’impero, si diffondono i culti misterici della Grecia -eleusini e dionisiaci- e quelli provenienti dall’area medio orientale -i misteri di Iside, di Cibele, di Mitra- che in modo progressivo determinano una penetrante crisi nella religione romana (ometto in questo post l’argomento circa il propagarsi del Cristianesimo), favoreggiata da una costante “aggregazione” di divinità dei popoli conquistati, la quale dimostra la congenita religiosa tolleranza romana, elemento anch’esso fondamentale ai fini dello sviluppo della potenza di Roma, favorendo, successivamente, la romanizzazione del suo vastissimo dominio.
 
Esteriormente l’intero sistema religioso appare scevro di cedimenti; nel contempo le relative pratiche e ricorrenze continuano a essere celebrate con sedimentata regolarità, però il vivo “respiro” che le anima è molto diverso –prossimo all’estinzione- da quello delle origini.
 
A quei “fermenti” -limitati inizialmente a determinati gruppi- che provocano questa critica fase, si aggiungono le correnti filosofiche sorte in Grecia, accettate a Roma, che intridono i ceti colti e gli aristocratici romani nel periodo tardo-repubblicano (inizi del I secolo a.C.), i quali respingono la figura umana –antropomorfismo- “assegnata” alle divinità. Variegate e sfumate posizioni insorgono relativamente al tema imperniato sull’anima, sulla sua immortalità. I Romani credono certamente alla sua “sopravvivenza” dopo la morte umana, ma la considerano un’ombra pallida, riflesso del mondo dei vivi, situata in uno spazio privo di beatitudine. Le speculazioni filosofiche elaborate, però, non ne affrontano, non ne definiscono una struttura permanente, accennando, invece, a teorie già postulate in altri ambienti, a motivo delle quali si disconosce in parte quella visione stantia “dell’aldilà”; mai tuttavia sono contrastati i principi religiosi cardinali come l’esistenza degli dei e l’insieme dei culti.
 
Ottaviano, nel 27 a.C., con l’assumere il titolo di Augusto – derivato da augur “àugure”,  titolo definito con il significato di “consacrato dagli àuguri”, sacerdoti interpreti del volere degli dei-, avvia e compie un’ampia opera di restaurazione dell’atavica religione, divenendo egli stesso, nel 12 a.C., pontefice massimo. Questa suprema carica religiosa, alla quale egli  vuole restituire il prestigio smarrito, presiede il collegio, di carattere giuridico-sacerdotale, dei pontefici. Essi originariamente sono i depositari di ogni cognizione scientifica e tecnica, come fa supporre il termine pontifex derivante da pons “ponte” e dalla base di facere “fare”, perciò ne scaturisce pontem facere “costruttore di ponti”, designando, probabilmente, la persona che curava l’edificazione del ponte sul Tevere. Difatti, l’antico primo manufatto costruito in legno, pons Sublicius, che attraversa questo fiume sin dai primordi della civiltà romana, rappresenta le capacità dei sapienti e quindi contiene valenze sacrali; la sua manutenzione, il suo restauro è affidato fino al disfacimento dell’impero, seppur soltanto ritualmente, al pontefice.
 
Con l’introduzione del culto imperiale Ottaviano, benché da vivo rifiuti di essere venerato, intende conciliare due antichissime entità della religione romana: il genius, spirito tutelare pertinente al culto domestico, altresì considerato il protettore di una città, di un popolo; il numen, presenza sacra indefinita e onnipotente volontà divina. I due enti, assoluti, considerati ingeniti nella persona del sovrano, rendono possibile tributargli onori religiosi, altrimenti non ammissibili, secondo la concezione latina, relativamente a una persona (reale, non un mito). Alla sua morte (14 d.C.) segue la consecratio (già decretata a Giulio Cesare nel 44 a. C.), deliberata dal Senato, dunque atto pubblico emanato dall’autorità dello “Stato” e, quindi, la conseguente divinizzazione (che può riguardare anche la moglie dell’imperatore e altri suoi congiunti o considerati tali). Quest'apoteosi indica la proclamazione di una persona quale divus (divo), essere luminoso ma non preminente fonte di luce che invece si distingue nel deus (dio). Il culto avviato ne esige un tempio dedicato, un flamine (specifico sacerdote) e un collegio sacerdotale (in questo caso sodales Augustales) presenti sia a Roma sia nelle maggiori città del vastissimo territorio imperiale. In sostanza, tale innovazione s’inserisce in un preciso programma politico, agendo quale uno strumento di consenso e di unificazione, di stretto legame tra il sovrano e i cittadini, i sudditi, molto distante da un profondo e schietto senso di religiosità. Tutto ciò risponde all’esigenza di esaltare un’autorevole e solida figura centrale, che mutua da quella tradizione che sacralizza il re, tipica dei popoli orientali molti dei quali ormai inclusi nell’impero.
 
Nel II e III secolo un'altra condizione crea un ulteriore sommovimento nell’ambiente religioso romano: il sincretismo. Per il fondersi dell’interminabile teoria di dei, risultato di una forte azione dello spiritualismo, avanza l’idea circa un’unica divinità, che contiene in sé tutte le altre pur di diverse religioni, manifestazioni di un solo dio. Questo pensiero sembra un espediente per mantenere vivi gli antichi dei, con tutti i loro nomi e le loro “impronte”, in un’atmosfera nella quale la tendenza al monoteismo (che non può confondersi con il sincretismo) è d’intensa presa e il bisogno di spiritualità è molto diffuso.
 


Il podio (particolare), il pronao (particolare), la scalinata (restauro) e i resti dell'altare (restauro) del Tempio di Antonino e Faustina, presso il Foro, visti dall'interno della Chiesa di S. Lorenzo de’ Speziali in Miranda, con affaccio sulla Via Sacra

 
"Ritratto" di Ottaviano, Museo Archeologico Nazionale di Spoleto; frammento già esposto alla mostra "Augusto", Scuderie del Quirinale (18 ottobre 2013-9 febbraio 2014)