Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

Io Spiego

giovedì 5 marzo 2015

Alcuni aspetti della religione dell’antica Roma


Nell’antica Roma, la presenza del sacro, è ben evidente nei plurimi versi dell'orditura propria della sua civiltà. Di “segni divini” ne sono pregni i territori appartenenti alle città, in cui hanno suggestive sembianze di boschi e di sorgenti sacrali, che accompagnano il pensiero umano in quella complessa sfera religiosa della quale i numerosi templi, i molteplici altari e le innumerevoli edicole ne rappresentano una sorta di elemento di comunicazione tra due differenti “concrete realtà”, attraverso il “dialogo” tra uno spazio, per l’appunto, sacro (fanum) e uno “esterno” ad esso, quindi non sacro (profanum).
 
Nei luoghi pubblici sono edificati monumenti, nonché piccoli organismi architettonici, dedicati ai culti; in ogni dimora è posta una minuta struttura sacra, il larario, rivolto alla venerazione, nell’intimità del focolare domestico, dei Lari -già divinità che vegliano sulla proprietà agraria- protettori della casa, il cui culto si estende anche nelle città.
 
La religiosità di Roma antica può essere compresa, nella sua totalità, osservando la rilevanza, altresì visiva, dei riti e degli oggetti sacri ad essa connessi, poiché la ragione solida sacrale nelle sue poliedriche accezioni, nei suoi palesamenti, si esplicita sia nella vita pubblica sia in quella privata. Sulla particolarità di tale fondamento numerosissimi sono i passi composti dagli antichi autori, come, ad esempio, esemplificano quelli di Polibio di Megalopoli (200, circa-124, circa, a.C.), storico greco che trascorre molti anni “nell’Urbe” e di Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.), il celebre scrittore e oratore. Infatti, lo studioso ellenico nella sua opera storiografica, “Storie”, afferma che il culto religioso: ” serve in Roma a mantenere unito lo stato; la religione è più profondamente radicata e le cerimonie pubbliche e private sono celebrate con maggior pompa che presso ogni altro popolo”, pensiero confortato dal breve brano di Cicerone, tratto da “De haruspicum responso” -orazione pronunciata dinanzi ai senatori (56 a. C.) per difendersi dall’accusa di sacrilegio-, con il quale egli delinea l’importanza, la grandezza, la peculiare forza superiore che assume agli occhi dei Romani la religione nella potenza della repubblica: ”Perché abbiamo venerato e onorato gli dei, abbiamo avuto il sopravvento su tutti i popoli e le nazioni”.
 
La religione romana viene percepita attraverso un complesso di credenze, di riti indissolubilmente legati a una funzione civica, perciò insiti nel sostrato essenziale di ogni ceto; la finalità cui si mira è il bene, la prosperità, la salvezza della città, della repubblica, in seguito dell’impero: obblighi civili, morali e religiosi devono manifestarsi quale concordanza. Senza alcun dubbio nelle preghiere individuali si chiede, al dio, il benessere personale e quello della propria famiglia -come testimoniano le offerte votive– però nell’organica sfera religiosa, come nelle altre, l’individuo appare sottoposto alla res publica, vale a dire alla “cosa del popolo” indicando, con tale accento, l’insieme di persone accomunate da medesimi interessi, tutelati per mezzo di una serie di norme, che dispongono o impediscono specifici atti e comportamenti nell’ambito della società.
 
La religiosità caratterizza ogni membro di quell’antico ambiente sebbene con differenziazioni, poiché i ricchi personaggi e gli “intellettuali” sono distanti dalle credenze delle classi sociali più umili, basti rievocare quelle dei contadini così radicate alle loro terre, rivelate secondo antichissimi riti, formule, invocazioni, così persistenti tanto da attestare azioni di un ancestrale sentimento religioso.
 
La “fisionomia” dei culti formata dai valori sacri trasmessi dai “padri”, emerge dal fondamentale significato di alcuni “vocaboli chiave”: religio esprime un vincolante principio di obblighi e di divieti sacrali in cui spicca la consapevolezza del “timore degli dei”, dello “scrupolo”, del “dovere religioso”, da cui nascono le pratiche cultuali; pietas corrisponde a un senso di “ devozione, rispetto, affetto, impegno” -verso le divinità, la patria, il padre, le persone care- con il quale viene  “accesa” l’osservanza di riconosciute attribuzioni dettate dalla legge morale. L’uomo pius, perciò, è colui che compie il proprio dovere, comportandosi probamente nei confronti di quelle figure cardini, un individuo, dunque, rispettoso dei valori fondanti della società romana.  
 
Piuttosto che nel cuore - da immemore tempo considerato come sede dei sinceri moti umani- l’atteggiamento religioso si concretizza in un rigorismo formale, in cui lo svolgimento del rituale, privo di spontaneità, deve svolgersi secondo prescrizioni rigidamente definite -nei gesti, nelle parole-, che escludono ogni pur minimo errore, il cui accadimento ne inficia la validità, rendendolo inutile e calamitando l’ira del dio: per questo motivo il rito è ripetuto nel caso di un accidentale sbaglio commesso. Il particolare carattere del clima religioso esprime l’estraneità di qualsiasi sentimento di abbandono e di fiducia verso gli dei, ai quali si riversa, invece, un timore reverenziale per ottenere la loro benevolenza, la pax deorum, che si sostanzia in un’intesa tra gli umani e le divinità, rapporto in cui si esalta, in primo luogo, la maestà di Roma e la protezione, mostrata verso di essa, dalla realtà divina onorata. La religione possiede, perciò, natura pratica, avente come unico scopo il bene dello “Stato”, della città, dei singoli devoti preganti. Un’ulteriore peculiarità configura il culto religioso: il frangere le connotazioni delle già nutritissime divinità, “lato” che acquista progressivamente massima dimensione. Ad esempio Venere è identificata altresì con Verticordia, colei “che fa voltare il cuore “ agli insensibili, cui il culto è autonomo da quello tributato alla “dea principale”.
 
La notevolissima importanza riconosciuta alla conoscenza della volontà, degli dei, ne modella i riti cristallizzandoli -come già si è considerato-, mantenendone immutabili gli schemi, le cadenze cerimoniali, il cui significato sfugge, con il passare dei secoli, ai medesimi Romani. Da tale impianto esasperatamente formale si origina una sorta di “competenza tecnica” dei sacerdoti, suddivisi in specifici settori cultuali. 
 
Dalla seconda metà del II secolo a.C., alla caduta dell’impero, si diffondono i culti misterici della Grecia -eleusini e dionisiaci- e quelli provenienti dall’area medio orientale -i misteri di Iside, di Cibele, di Mitra- che in modo progressivo determinano una penetrante crisi nella religione romana (ometto in questo post l’argomento circa il propagarsi del Cristianesimo), favoreggiata da una costante “aggregazione” di divinità dei popoli conquistati, la quale dimostra la congenita religiosa tolleranza romana, elemento anch’esso fondamentale ai fini dello sviluppo della potenza di Roma, favorendo, successivamente, la romanizzazione del suo vastissimo dominio.
 
Esteriormente l’intero sistema religioso appare scevro di cedimenti; nel contempo le relative pratiche e ricorrenze continuano a essere celebrate con sedimentata regolarità, però il vivo “respiro” che le anima è molto diverso –prossimo all’estinzione- da quello delle origini.
 
A quei “fermenti” -limitati inizialmente a determinati gruppi- che provocano questa critica fase, si aggiungono le correnti filosofiche sorte in Grecia, accettate a Roma, che intridono i ceti colti e gli aristocratici romani nel periodo tardo-repubblicano (inizi del I secolo a.C.), i quali respingono la figura umana –antropomorfismo- “assegnata” alle divinità. Variegate e sfumate posizioni insorgono relativamente al tema imperniato sull’anima, sulla sua immortalità. I Romani credono certamente alla sua “sopravvivenza” dopo la morte umana, ma la considerano un’ombra pallida, riflesso del mondo dei vivi, situata in uno spazio privo di beatitudine. Le speculazioni filosofiche elaborate, però, non ne affrontano, non ne definiscono una struttura permanente, accennando, invece, a teorie già postulate in altri ambienti, a motivo delle quali si disconosce in parte quella visione stantia “dell’aldilà”; mai tuttavia sono contrastati i principi religiosi cardinali come l’esistenza degli dei e l’insieme dei culti.
 
Ottaviano, nel 27 a.C., con l’assumere il titolo di Augusto – derivato da augur “àugure”,  titolo definito con il significato di “consacrato dagli àuguri”, sacerdoti interpreti del volere degli dei-, avvia e compie un’ampia opera di restaurazione dell’atavica religione, divenendo egli stesso, nel 12 a.C., pontefice massimo. Questa suprema carica religiosa, alla quale egli  vuole restituire il prestigio smarrito, presiede il collegio, di carattere giuridico-sacerdotale, dei pontefici. Essi originariamente sono i depositari di ogni cognizione scientifica e tecnica, come fa supporre il termine pontifex derivante da pons “ponte” e dalla base di facere “fare”, perciò ne scaturisce pontem facere “costruttore di ponti”, designando, probabilmente, la persona che curava l’edificazione del ponte sul Tevere. Difatti, l’antico primo manufatto costruito in legno, pons Sublicius, che attraversa questo fiume sin dai primordi della civiltà romana, rappresenta le capacità dei sapienti e quindi contiene valenze sacrali; la sua manutenzione, il suo restauro è affidato fino al disfacimento dell’impero, seppur soltanto ritualmente, al pontefice.
 
Con l’introduzione del culto imperiale Ottaviano, benché da vivo rifiuti di essere venerato, intende conciliare due antichissime entità della religione romana: il genius, spirito tutelare pertinente al culto domestico, altresì considerato il protettore di una città, di un popolo; il numen, presenza sacra indefinita e onnipotente volontà divina. I due enti, assoluti, considerati ingeniti nella persona del sovrano, rendono possibile tributargli onori religiosi, altrimenti non ammissibili, secondo la concezione latina, relativamente a una persona (reale, non un mito). Alla sua morte (14 d.C.) segue la consecratio (già decretata a Giulio Cesare nel 44 a. C.), deliberata dal Senato, dunque atto pubblico emanato dall’autorità dello “Stato” e, quindi, la conseguente divinizzazione (che può riguardare anche la moglie dell’imperatore e altri suoi congiunti o considerati tali). Quest'apoteosi indica la proclamazione di una persona quale divus (divo), essere luminoso ma non preminente fonte di luce che invece si distingue nel deus (dio). Il culto avviato ne esige un tempio dedicato, un flamine (specifico sacerdote) e un collegio sacerdotale (in questo caso sodales Augustales) presenti sia a Roma sia nelle maggiori città del vastissimo territorio imperiale. In sostanza, tale innovazione s’inserisce in un preciso programma politico, agendo quale uno strumento di consenso e di unificazione, di stretto legame tra il sovrano e i cittadini, i sudditi, molto distante da un profondo e schietto senso di religiosità. Tutto ciò risponde all’esigenza di esaltare un’autorevole e solida figura centrale, che mutua da quella tradizione che sacralizza il re, tipica dei popoli orientali molti dei quali ormai inclusi nell’impero.
 
Nel II e III secolo un'altra condizione crea un ulteriore sommovimento nell’ambiente religioso romano: il sincretismo. Per il fondersi dell’interminabile teoria di dei, risultato di una forte azione dello spiritualismo, avanza l’idea circa un’unica divinità, che contiene in sé tutte le altre pur di diverse religioni, manifestazioni di un solo dio. Questo pensiero sembra un espediente per mantenere vivi gli antichi dei, con tutti i loro nomi e le loro “impronte”, in un’atmosfera nella quale la tendenza al monoteismo (che non può confondersi con il sincretismo) è d’intensa presa e il bisogno di spiritualità è molto diffuso.
 


Il podio (particolare), il pronao (particolare), la scalinata (restauro) e i resti dell'altare (restauro) del Tempio di Antonino e Faustina, presso il Foro, visti dall'interno della Chiesa di S. Lorenzo de’ Speziali in Miranda, con affaccio sulla Via Sacra

 
"Ritratto" di Ottaviano, Museo Archeologico Nazionale di Spoleto; frammento già esposto alla mostra "Augusto", Scuderie del Quirinale (18 ottobre 2013-9 febbraio 2014)



 
 

 

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