Nell’antica
Roma, la presenza del sacro, è ben evidente nei plurimi versi dell'orditura
propria della sua civiltà. Di “segni divini” ne sono pregni i territori
appartenenti alle città, in cui hanno suggestive sembianze di boschi e di
sorgenti sacrali, che accompagnano il pensiero umano in quella complessa sfera
religiosa della quale i numerosi templi, i molteplici altari e le innumerevoli
edicole ne rappresentano una sorta di elemento di comunicazione tra due
differenti “concrete realtà”, attraverso il “dialogo” tra uno spazio, per
l’appunto, sacro (fanum) e uno
“esterno” ad esso, quindi non sacro (profanum).
Nei
luoghi pubblici sono edificati monumenti, nonché piccoli organismi
architettonici, dedicati ai culti; in ogni dimora è posta una minuta struttura
sacra, il larario, rivolto alla venerazione, nell’intimità del focolare
domestico, dei Lari -già divinità che vegliano sulla proprietà agraria-
protettori della casa, il cui culto si estende anche nelle città.
La
religiosità di Roma antica può essere compresa, nella sua totalità, osservando la
rilevanza, altresì visiva, dei riti e degli oggetti sacri ad essa connessi,
poiché la ragione solida sacrale nelle sue poliedriche accezioni, nei suoi
palesamenti, si esplicita sia nella vita pubblica sia in quella privata. Sulla
particolarità di tale fondamento numerosissimi sono i passi composti dagli
antichi autori, come, ad esempio, esemplificano quelli di Polibio di Megalopoli
(200, circa-124, circa, a.C.), storico greco che trascorre molti anni
“nell’Urbe” e di Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.), il celebre scrittore e
oratore. Infatti, lo studioso ellenico nella sua opera storiografica, “Storie”, afferma che il culto religioso:
” serve in Roma a mantenere unito lo
stato; la religione è più profondamente radicata e le cerimonie pubbliche e
private sono celebrate con maggior pompa che presso ogni altro popolo”,
pensiero confortato dal breve brano di Cicerone, tratto da “De haruspicum responso” -orazione
pronunciata dinanzi ai senatori (56 a. C.) per difendersi dall’accusa di
sacrilegio-, con il quale egli delinea l’importanza, la grandezza, la peculiare
forza superiore che assume agli occhi dei Romani la religione nella potenza
della repubblica: ”Perché abbiamo
venerato e onorato gli dei, abbiamo avuto il sopravvento su tutti i popoli e le
nazioni”.
La
religione romana viene percepita attraverso un complesso di credenze, di riti
indissolubilmente legati a una funzione civica, perciò insiti nel sostrato
essenziale
di
ogni ceto; la finalità cui si mira è il bene, la prosperità, la salvezza della
città, della repubblica, in seguito dell’impero: obblighi civili, morali e
religiosi devono manifestarsi quale concordanza. Senza alcun dubbio nelle
preghiere individuali si chiede, al dio, il benessere personale e quello della
propria famiglia -come testimoniano le offerte votive– però nell’organica sfera
religiosa, come nelle altre, l’individuo appare sottoposto alla res publica, vale a dire alla “cosa del popolo” indicando, con tale accento,
l’insieme di persone accomunate da medesimi interessi, tutelati per mezzo di
una serie di norme, che dispongono o impediscono specifici atti e comportamenti
nell’ambito della società.
La
religiosità caratterizza ogni membro di quell’antico ambiente sebbene con
differenziazioni, poiché i ricchi personaggi e gli “intellettuali” sono
distanti dalle credenze delle classi sociali più umili, basti rievocare quelle
dei contadini così radicate alle loro terre, rivelate secondo antichissimi
riti, formule, invocazioni, così persistenti tanto da attestare azioni di un
ancestrale sentimento religioso.
La
“fisionomia” dei culti formata dai valori sacri trasmessi dai “padri”, emerge dal
fondamentale significato di alcuni “vocaboli chiave”: religio esprime un vincolante principio di obblighi e di divieti
sacrali in cui spicca la consapevolezza del “timore degli dei”, dello “scrupolo”,
del “dovere religioso”, da cui nascono le pratiche cultuali; pietas corrisponde a un senso di “
devozione, rispetto, affetto, impegno” -verso le divinità, la patria, il padre,
le persone care- con il quale viene “accesa”
l’osservanza di riconosciute attribuzioni dettate dalla legge morale. L’uomo pius, perciò, è colui che compie il
proprio dovere, comportandosi probamente nei confronti di quelle figure cardini,
un individuo, dunque, rispettoso dei valori fondanti della società romana.
Piuttosto
che nel cuore - da immemore tempo considerato come sede dei sinceri moti umani-
l’atteggiamento religioso si concretizza in un rigorismo formale, in cui lo
svolgimento del rituale, privo di spontaneità, deve svolgersi secondo
prescrizioni rigidamente definite -nei gesti, nelle parole-, che escludono ogni
pur minimo errore, il cui accadimento ne inficia la validità, rendendolo
inutile e calamitando l’ira del dio: per questo motivo il rito è ripetuto nel
caso di un accidentale sbaglio commesso. Il particolare carattere del clima
religioso esprime l’estraneità di qualsiasi sentimento di abbandono e di
fiducia verso gli dei, ai quali si riversa, invece, un timore reverenziale per
ottenere la loro benevolenza, la pax
deorum, che si sostanzia in un’intesa tra gli umani e le divinità, rapporto
in cui si esalta, in primo luogo, la maestà di Roma e la protezione, mostrata
verso di essa, dalla realtà divina onorata. La religione possiede, perciò,
natura pratica, avente come unico scopo il bene dello “Stato”, della città, dei
singoli devoti preganti. Un’ulteriore peculiarità configura il culto religioso:
il frangere le connotazioni delle già nutritissime divinità, “lato” che acquista
progressivamente massima dimensione. Ad esempio Venere è identificata altresì
con Verticordia, colei “che fa voltare il cuore “ agli insensibili, cui il
culto è autonomo da quello tributato alla “dea principale”.
La
notevolissima importanza riconosciuta alla conoscenza della volontà, degli dei,
ne modella i riti cristallizzandoli -come già si è considerato-, mantenendone
immutabili gli schemi, le cadenze cerimoniali, il cui significato sfugge, con
il passare dei secoli, ai medesimi Romani. Da tale impianto esasperatamente
formale si origina una sorta di “competenza tecnica” dei sacerdoti, suddivisi
in specifici settori cultuali.
Dalla
seconda metà del II secolo a.C., alla caduta dell’impero, si diffondono i culti
misterici della Grecia -eleusini e dionisiaci- e quelli provenienti dall’area
medio orientale -i misteri di Iside, di Cibele, di Mitra- che in modo progressivo
determinano una penetrante crisi nella religione romana (ometto in questo post l’argomento circa il propagarsi del
Cristianesimo), favoreggiata da una costante “aggregazione” di divinità dei
popoli conquistati, la quale dimostra la congenita religiosa tolleranza romana,
elemento anch’esso fondamentale ai fini dello sviluppo della potenza di Roma,
favorendo, successivamente, la romanizzazione del suo vastissimo dominio.
Esteriormente
l’intero sistema religioso appare scevro di cedimenti; nel contempo le relative
pratiche e ricorrenze continuano a essere celebrate con sedimentata regolarità,
però il vivo “respiro” che le anima è molto diverso –prossimo all’estinzione-
da quello delle origini.
A
quei “fermenti” -limitati inizialmente a determinati gruppi- che provocano questa
critica fase, si aggiungono le correnti filosofiche sorte in Grecia, accettate
a Roma, che intridono i ceti colti e gli aristocratici romani nel periodo
tardo-repubblicano (inizi del I secolo a.C.), i quali respingono la figura
umana –antropomorfismo- “assegnata” alle divinità. Variegate e sfumate
posizioni insorgono relativamente al tema imperniato sull’anima, sulla sua
immortalità. I Romani credono certamente alla sua “sopravvivenza” dopo la morte
umana, ma la considerano un’ombra pallida, riflesso del mondo dei vivi, situata
in uno spazio privo di beatitudine. Le speculazioni filosofiche elaborate,
però, non ne affrontano, non ne definiscono una struttura permanente,
accennando, invece, a teorie già postulate in altri ambienti, a motivo delle
quali si disconosce in parte quella visione stantia “dell’aldilà”; mai tuttavia
sono contrastati i principi religiosi cardinali come l’esistenza degli dei e
l’insieme dei culti.
Ottaviano,
nel 27 a.C., con l’assumere il titolo di Augusto – derivato da augur “àugure”, titolo definito con il significato di
“consacrato dagli àuguri”, sacerdoti interpreti del volere degli dei-, avvia e
compie un’ampia opera di restaurazione dell’atavica religione, divenendo egli
stesso, nel 12 a.C., pontefice massimo. Questa suprema carica religiosa, alla
quale egli vuole restituire il prestigio
smarrito, presiede il collegio, di carattere giuridico-sacerdotale, dei
pontefici. Essi originariamente sono i depositari di ogni
cognizione scientifica e tecnica, come fa supporre il termine pontifex derivante da pons “ponte” e dalla base di facere “fare”, perciò ne scaturisce pontem
facere “costruttore di ponti”, designando, probabilmente, la persona che
curava l’edificazione del ponte sul Tevere. Difatti, l’antico primo manufatto
costruito in legno, pons Sublicius,
che attraversa questo fiume sin dai primordi della civiltà romana, rappresenta
le capacità dei sapienti e quindi contiene valenze sacrali; la sua
manutenzione, il suo restauro è affidato fino al disfacimento dell’impero, seppur
soltanto ritualmente, al pontefice.
Con
l’introduzione del culto imperiale Ottaviano, benché da vivo rifiuti di essere
venerato, intende conciliare due antichissime entità della religione romana: il
genius, spirito tutelare pertinente
al culto domestico, altresì considerato il protettore di una città, di un
popolo; il numen, presenza sacra
indefinita e onnipotente volontà divina. I due enti, assoluti, considerati
ingeniti nella persona del sovrano, rendono possibile tributargli onori
religiosi, altrimenti non ammissibili, secondo la concezione latina,
relativamente a una persona (reale, non un mito). Alla sua morte (14 d.C.)
segue la consecratio (già decretata a
Giulio Cesare nel 44 a. C.), deliberata dal Senato, dunque atto pubblico
emanato dall’autorità dello “Stato” e, quindi, la conseguente divinizzazione
(che può riguardare anche la moglie dell’imperatore e altri suoi congiunti o
considerati tali). Quest'apoteosi indica la proclamazione di una persona quale divus (divo), essere luminoso ma non
preminente fonte di luce che invece si distingue nel deus (dio). Il culto avviato ne esige un tempio dedicato, un
flamine (specifico sacerdote) e un collegio sacerdotale (in questo caso sodales Augustales) presenti sia a Roma
sia nelle maggiori città del vastissimo territorio imperiale. In sostanza, tale
innovazione s’inserisce in un preciso programma politico, agendo quale uno
strumento di consenso e di unificazione, di stretto legame tra il sovrano e i
cittadini, i sudditi, molto distante da un profondo e schietto senso di
religiosità. Tutto ciò risponde all’esigenza di esaltare un’autorevole e solida
figura centrale, che mutua da quella tradizione che sacralizza il re, tipica
dei popoli orientali molti dei quali ormai inclusi nell’impero.
Nel
II e III secolo un'altra condizione crea un ulteriore sommovimento
nell’ambiente religioso romano: il sincretismo. Per il fondersi dell’interminabile
teoria di dei, risultato di una forte azione dello spiritualismo, avanza l’idea
circa un’unica divinità, che contiene in sé tutte le altre pur di diverse
religioni, manifestazioni di un solo dio. Questo pensiero sembra un espediente
per mantenere vivi gli antichi dei, con tutti i loro nomi e le loro “impronte”,
in un’atmosfera nella quale la tendenza al monoteismo (che non può confondersi
con il sincretismo) è d’intensa presa e il bisogno di spiritualità è molto
diffuso.
"Ritratto" di Ottaviano, Museo Archeologico Nazionale di Spoleto; frammento già esposto alla mostra "Augusto", Scuderie del Quirinale (18 ottobre 2013-9 febbraio 2014) |
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