Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

Io Spiego

venerdì 27 marzo 2015

Antoniazzo Romano: la tavola “Madonna con il Bambino e i Ss. Benedetto, Paolo, Pietro, Giustina” della Basilica di S. Paolo fuori le Mura


Antonio Aquili (1435/1440-1508), detto Antoniazzo Romano, è uno dei protagonisti che agiscono, nell’ambiente artistico di Roma, durante la seconda metà del XV secolo giungendo sino alle soglie del XVI secolo, quando un nuovo linguaggio esprime il verso pittorico. Egli emerge da quella sorta di anonimato che comprime la pittura della “Città Eterna”, come dimostra la breve citazione (unico pittore romano di questo periodo) del Vasari contenuta nella sua raccolta “Vite de’ più eccellenti Pittori,  Scultori, e Architettori italiani da Cimabue insino a’ tempi nostri” (1550), in cui l’Aquili è definito pittore “dei migliori che fussero allora in Roma”.
 
Il nome Antonius presente nei dipinti giovanili è presto mutato dal soprannome, esso stesso in forma latina, Antonatius (corrispondente ad Antonaccio, Antonatio, Antonazo) Romanus –che sostituisce l’appellativo de Roma quale indicazione del luogo natio- con cui firma le sue opere.
 
La cornice, il luogo eletto nel quale l'attività di Antoniazzo si compie è “l’Urbe”; infatti, non si hanno notizie di lavori eseguiti fuori dal perimetro della città o dai suoi dintorni. Molto probabilmente i dipinti su tavola, voluti da committenti laziali, sono eseguiti nella bottega romana e da qui inviati alle residenze degli “ordinanti”. Avvalendosi di un copioso numero di collaboratori, di allievi e di lavoranti, la sua versatilità si compie in diverse “sfere” oltre a quella della pittura (su tavola ma anche murale); invero, fornisce costante prova d’inconfutabile capacità di creare originali e raffinati allestimenti effimeri per feste e per cerimonie (ad esempio gli apparati cerimoniali per l’elezione di Paolo II, 1464 e di Innocenzo VIII, 1484, in tale occasione insieme al Perugino), creando altresì pregevoli scenografie teatrali. Inoltre, questo suo eclettismo lo guida verso attività artigianali –non costituendo, nel seno della Storia dell’Arte, un’unicità rispetto ad altri “maestri”-, quali l’esecuzione e il restauro di manufatti liturgici, le dorature e le coloriture di monumenti funerari. A questo proposito si rammentano i lavori, aventi tale carattere, rappresentati dalla rifinitura delle porte e delle finestre, compiuti nel corso della decorazione della Biblioteca Segreta (privata) e della Biblioteca Pontificia (1480-1481) che Sisto IV fa erigere, completando le aule edificate, intorno al 1450, da Niccolò V. Questi interventi sono un’appendice dell’ornamentazione di quei luoghi, che desta l’ammirato commento, “con somma maestria a chiaroscuro dipinti”, dell’accademico Giovanni Pietro Chatard, contenuto nel secondo volume della sua “Nuova descrizione del Vaticano o sia della sacrosanta Basilica di S. Pietro” (1766), ornamento degli ambienti realizzato, grazie a una struttura di tipo societario, con Melozzo da Forlì (1438-1494), quest’ultimo autore del grandioso affresco “Sisto IV nomina il Platina prefetto della Biblioteca Vaticana” (oggi conservato presso la Pinacoteca Vaticana).
 
Il suo programma iconografico aperto alle novità ne accoglie i modi, elaborandone, però, autonomamente i linguaggi (nella sua maturità artistica trovano maggiore spazio magnifici paesaggi ed elementi architettonici anche vigorosi), pur mantenendo il forte legame con la magnifica tradizione figurativa medievale di Roma, determinando un consistente seguito di committenti definibili quasi conservatori; Antoniazzo, quindi, rappresenta una religiosità pressoché estranea a taluni fermenti dell’Umanesimo, sebbene ricerchi un vincolante accostamento tra la cultura classica e il pensiero cristiano. Egli lavora per conventi, comunità religiose, confraternite, pie istituzioni, alti prelati, nobili e famiglie illustri; legato, per l’appunto, al mondo religioso nel 1470 è camerlengo della Compagnia del Gonfalone (una carica che ne individua l’incarico quale “economo”) in cui il suo rapporto non è ristretto alla funzione amministrativa, al contrario si sviluppa nella “cura professionale” con la messa in scena, come già è stato illustrato, d'impianti, di “paramenti”, che egli appositamente “modella” per le ricorrenze, per le processioni e per i riti ad essi congiunti, testimoniando altresì una spessa devozione, connotante la sua vita.  
 
Tra i dipinti che sono a noi giunti, del pittore romano, quelli conservati presso la Basilica di S. Paolo fuori le Mura sono raramente "frequentate", seppur racchiudano anch’essi i pregevoli elementi del suo linguaggio. Tali lavori si collocano durante il periodo nel quale, il relativo complesso abbaziale, viene arricchito con opere d’arte, in seguito alla ricostruzione del monastero, avvenuta intorno al 1430 -per volere del riformatore benedettino Ludovico Barbo-, dopo un lungo spazio temporale con momenti di notevole incuria. 
 
Da attribuire ad Antoniazzo l’affresco raffigurante il solo S. Paolo, collocato nella lunetta sopra l’andito che conduce alla Sala Gregoriana, ove è posta la colossale statua di Gregorio XVI – di Rinaldo Rinaldi (1793-1873)- prospiciente l’ingresso della Sacrestia; allo stesso modo il quadro “Madonna con il Bambino e i SS. Benedetto, Paolo, Pietro, Giustina”, recentemente restaurato, custodito presso la Pinacoteca-Museo della Basilica, è riconducibile alla mano dello stesso pittore, mentre gli altri colà presenti sono riferibili a collaboratori della sua bottega.  
 
Madonna con il Bambino e i Ss. Benedetto, Paolo, Pietro, Giustina
 
Questa tavola, secondo miei studi, ascrivibile al periodo compreso tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta del XV secolo, mostra, nella formulazione plastica, alcuni segni iconologici di radicata tradizione allegorica, su cui soffermarsi.
 
Il panneggio della Vergine mostra sia la veste di colore rosso, rimando al concetto di dinamismo che caratterizza la figurazione del fuoco, sia il manto dalla tinta azzurra, il quale allude al cielo e quindi all’intensa concentrazione spirituale che in esso si rappresenta, alla purezza. S. Benedetto da Norcia –la Basilica è retta dai monaci benedettini- tiene fermamente tra le mani un passo in latino -a mo’di libro con pagine aperte- di ammonimento, di parenesi, tratto dalla sua Regula. S. Paolo è rappresentato con la spada, strumento del suo martirio però anche arma spirituale come scrive lo stesso Apostolo nella lettera agli Efesini (capitolo 6, versetto 17) “Prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la Parola di Dio”; la forza della sua fede, così raffigurata, è descritta in un’altra epistola paolina (2°Timoteo, capitolo 4, versetto 7):” Ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho serbato la fede”. S. Giustina di Padova, eletta patrona –insieme a S. Benedetto- della Congregazione Benedettina ad ella intitolata (1418, per volere del già citato Ludovico Barbo), martirizzata nel 304, richiama la gloria della sua violenta morte con la foglia della palma, stretta nella mano destra, come un pennino, che sembra indicare il libro tenuto dalla mano sinistra.
 
Il dipinto s’inserisce nella tipologia della pala unificata rinascimentale, accolta da Antoniazzo, che in questa fase abbandona la struttura a trittico –ma non definitivamente dalla sua bottega- costituita da scomparti divisi, “isolati”, in precedenza adottata in diverse realizzazioni. Lo spazio è quindi unitario, comprendente figure senza elementi divisori, risaltando, ai lati della Vergine, quelle dei due santi protettori benedettini (S. Benedetto a sinistra e S. Giustina a destra) alle cui spalle, quasi in linea con il piano dominato dalla Madonna, stanno, rispettivamente, S. Paolo e S. Pietro, colonne della Chiesa le cui membra (i due santi) ad esse sono unite per mezzo di Maria, assisa su un trono, privo di dorsale, che non la eleva rispetto agli altri personaggi, sebbene lo schietto modanato podio ne cadenzi la regalità, frangendo il piano di calpestio. Il Bambino – nel centro compositivo della tavola- disteso sopra le gambe della Madre, vi poggia il capo quasi sul ginocchio sinistro e sebbene nudo una tenue stoffa azzurra ne protegge le terga, ponendo l'accento sull’amore materno così colto verso quel “frutto” che, dal “seno” della Vergine, è venuto nel mondo quale luce per l’umanità.
 
L’opera esprime una limpidissima tenerezza, un nitore di caratteri i quali, in un impianto di acuta semplicità, effondono una “sostanza poetica”, una controllata magnificazione della spiritualità luminosa e intenerita, esponendo una lieve assonanza di espressioni, pur divergenti, che la maestria di Antoniazzo accorda fra il pensoso splendore, quasi mesto, della Vergine e la chiara, quasi ieratica, leggera plasticità dei santi. Il fondo oro emana un senso temporale sospeso, la disposizione avanzata dei due santi benedettini conferisce, alla scena, una “perfetta” asimmetria che dona profondità al dipinto, ove i personaggi, pur illuminati dall’ampio ricadere di pieghe delle vesti, restano cinti in un'aura arcaica dai caratteri distintivi, poiché la soluzione plastica è sviluppata con morbidi modi scultorei. La messa in posa delle figure descrive, dei volumi, una sorta di sintassi, descritta dagli sguardi nonché dalla posizione delle braccia, delle mani, dei piedi. L’azione pittorica da una rigida regola sembra accrescere il suo portato, che dalla codificata religiosità vuole trapassare l’astratto anelito di sacro fino a sostanziare la santità.



 

 

Nessun commento:

Posta un commento