Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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sabato 3 dicembre 2016

S. Cosimato: il giardino quale percorso simbolico e le raffigurazioni artistiche in esso comprese


 
Questo post rappresenta un’abbreviata esposizione, di una parte dell’ex Complesso conventuale di S. Cosimato, che nel suo insieme è oggetto di un mio articolato studio. Ho ripreso il passaggio concernente il portale marmoreo della Chiesa, ampliandone la descrizione rispetto all’articolo già pubblicato, su questo blog, il 19 dicembre 2014.
Una più estesa lettura di tale ambiente (ma non esaustiva), rarissimo luogo nascosto di Trastevere, include altresì, tra i suoi “cammei”, l’affresco effigiante la “Vergine in trono con il Bambino tra i SS. Francesco e Chiara”, eseguito da Antonio del Massaro da Viterbo, detto il Pastura, collocato nella parete sinistra contigua all’altare maggiore della Chiesa stessa (post del 14 aprile 2016, al momento undicesimo tra i più letti).
***
Il giardino, dischiuso dal protiro, disvela uno spazio di densa sacralità, non soccombendo a quanto, l’odierna sciattezza, si adopera a imprimere in questo aulico ambiente, che invece ancora si manifesta ai visitatori più attenti, proemio tangibile di quel, vivido, limitare da dove lo spazio del chiostro, -hortus conclusus- dunque non accessibile agli occhi esterni, rammenta alle vigili tempie che l’umana condizione può approdare a un’intima spiritualità, materialmente sussurrata attraverso la disposizione di differenti elementi architettonici e naturali, che alludono alla conoscenza altra e alla vita eterna.   
Ammiriamo dunque il terreno disteso dinanzi al prospetto della Chiesa, già coltivato con piante fiorifere e ornamentali, concepito per condurre, il fedele, non verso il claustrum a lui interdetto ma in quella momentanea però ristoratrice separatezza -propria del giardino- dal disordine “del mondo”, tale da sospingere l’animo a quella fonte di salvezza aperta dal luogo cultuale, che si eleva dinanzi ai suoi occhi.
Dopo aver rivolto lo sguardo allo slancio dei “fascinosi affetti” sussurrati da tali luoghi, iniziamo a ricostruire la genesi inerente a questa parte dell’ex Complesso monastico. L’ultimo suo corposo lavoro di ampliamento viene eseguito tra il 1755 e il 1756 sotto la badessa Ermenegilda Acquaroni, con il quale è ingrandito l’edificio, includente la residenza della priora (ristrutturata tra il 1871 e il 1872 dalla badessa Maria Luisa Blanco), affiancato al lato sinistro del prospetto della Chiesa. In precedenza, nel 1731, si è già sistemato il “giardino d’ingresso” piantandovi differenti organismi vegetali, creando un insieme variegato di alberi e di colori e di gradevolissime fragranze, collocandovi una vasca termale romana di granito grigio (fig. 1), ascrivibile alla fine del III sec. d. C., cui la forma costruita coincide, in gran parte, con le vasche oggi poste in Piazza Farnese, anticamente comprese nelle Terme di Caracalla (inizio III sec. d. C.). Infatti, la nostra vascula scandisce, per come appare, una sorta di tema “in scala ridotta” -enunciata con alcuni caratteri formali differenti- di quanto magnificamente esprimono i bacini dello slargo farnesiano (così disposti nel 1626); invero, essa poggia, sollevandosi, su una minuta vasca dai bordi di travertino, mentre al suo interno un corposo e squadrato balaustro innalza un catino –dal quale lievemente gorgogliano quattro zampilli d’acqua, riversati nella vasca romana e da questa sospinti nel bacino ultimo- definito da una bacellatura, ossia da quell’accento decorativo composto da motivi convessi. L’installazione di tale arredo architettonico quale fontana sembra, senza cedere a iperboli, in questo contesto ambientale concretare l’idea di una trasposizione simbolica di immagini, volte a evocare la sorgente di somma e costante sapienza scaturita da Cristo e conservata interamente nel seno della Vergine, come le si attribuisce in un passo delle Litanie Lauretane: Sede della Sapienza. Seppur tale area sia esterna riguardo al perimetro di clausura, ad esso però è strettamente congiunta per mezzo di un “linguaggio” sottile, riecheggiante in nuove forme il percorso simbolico del chiostro medievale, – l’hortus conclusus - che racchiude nei versi della verzura -intensa e viva flora- il fervido sguardo verso la lucentezza dell’originario creato voluto da Dio. Il giardino armoniosamente curato, dove gli alberi fruttiferi dialogano con i fiori, effigia la sublime abbondanza, intesa come dono spirituale, del paradiso terrestre, suggellato dall’albero della vita: ”Produsse il Signore Dio della terra ogni albero bello a vedersi … inoltre, l’albero della vita nel mezzo del paradiso …” (Genesi, cap. 2, vers. 10). Quanto contenuto in esso rappresenta quindi una peculiare iconografia, in cui la rosa -inflorescenza predominante nella risistemazione settecentesca - segno della purezza massima (cui il rosso colore in epoca medioevale indica anche il sangue versato da Gesù Cristo sulla croce) e dell’amore celeste che attraverso la Vergine, rosa candida, s’incarna per percorrere la storia umana. La rosa quindi considerata regina dei fiori si tramuta, sin dai primi secoli del Cristianesimo, in emblema dell’unicità della Madre del Salvatore, tutta “Rosa mistica” come, infatti, declama un verso tratto dalle Litanie a lei dedicate. La lucentezza della sua purità -“Santa Vergine delle vergini”- è declamata dunque da questo fiore, il quale attesta perciò la verginità in stricto sensu, che pur in questo spazio aperto e ordinatamente definito (separato dal chiostro, dove nella loro pienezza si enunciano, in differenti sottili segni, il percorso salvifico umano e l’illimitatezza dell’azione cosmica divina) viene compreso, acciò sia suggerito il fermo, eterno e sicuro approdo che conduce gli uomini alla salvezza e allo spirituale splendore, giacché figli di Dio. Si riverberano dunque in questo giardino alcune sembianze simboliche, capaci di generare un’intima, sagace e profonda consapevolezza, elementi caratterizzanti che travalicano l’immediato aspetto visibile, cogliendone invece la “difficoltosa” recondita espressione, che afferra la realtà di quanto, in “superficie”, appare celato. Il simbolo perciò inteso come concreta chiave, per accedere a quell’infinito vertice spirituale, altrimenti non rappresentabile, attraverso una continua ardua ricerca interiore, dissigillando una via mediata e viva, non sistematicamente indagabile ma percorribile, in cui s’inserisce la consapevolezza del piano salvifico: ” per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione e molti son quelli che entrano per essa; mentre stretta è la porta e angusta è la via che conduce alla vita e pochi son quelli che la trovano”. (Vangelo di Matteo, cap. 7, verss. 12 -14).
In questo spazio descritto, se fosse possibile appressarsi a quel 1731, si avvertirebbe anche lo spirare di un fresco e lieve respiro tra ridenti rose, tra cangianti colori e tra ombrose siepi colorate di smeraldo; dagli alti rami scenderebbe un gradevole prolungato cinguettio, che dintorno offrirebbe letizia, così forte da allontanare ogni corrente di tristizia, di perfidia, in una pace non caduca.   
Quanto finora abbiamo osservato, introduce l’edicola dedicata alla Vergine, che appare sullo spoglio muro destro, rispetto alla facciata della Chiesa (fig. 2). In apparenza essa sembra proporre il consueto manufatto devozionale, testimonianza di quella “semplice e umile” (però costante) fede, la quale per molti (e da molti) secoli è diffusa in Roma; pare perciò “normale” che essa sia coperta da una coltre di abituale indifferenza, travolta da eminenti presenze storiche - artistiche del Complesso monumentale che la ospita. Fendere e lacerare lo spesso velame che la ammanta, tanto fitto da impedirne la conoscenza, costituisce l’intento di questa parte dello scritto, per restituirla alla ricezione quasi poetica dei “passanti”, per consegnarla all’ammirazione di questi in una prospettiva di piccola ma eloquente opera d’arte del XVIII secolo.
Realizzata in stucco e in terracotta, probabilmente durante il rifacimento del giardino, è annunciata da un elaborato timpano spezzato con cornice arretrata nella parte centrale, motivo di plastica architettonica ripresa da quella imperiale romana (epoca di Tiberio) e molto “interpretata” dagli inizi del XVI sec. in poi e ancora in auge nel Settecento. Al centro, di questa sezione triangolare, sta un volto maschile barbuto, di profonda espressività, avvolto da un nimbo stilizzato da cui discendono dei corposi aloni (di luce): indubbiamente rappresenta, come in molti maggiori lavori scultorei e pittorici, l’Eterno Padre. La sottostante piana modanatura è pronunciata, nella sua forma allungata, da un leggero risalto di rimandi floreali su cui spiccano due corolle laterali, simboli della benevolenza di Dio e, in quanto segni solari, della Sua luce eterna. Due lisce lesene, dagli ornati capitelli, da cui sporgono due piccoli paffuti volti di cherubini dalle ali appena pronunciate, incorniciano la pseudo nicchia ove la scena è svolta, racchiudendola con il loro raccordarsi con la fascia inferiore. Si evidenzia un palese contrasto tra la parte superiore, notevolmente decorata e mossa, e quella restante priva di qualsiasi abbellimento, come per gradualmente spingere l’osservatore a volgere il suo sguardo verso l’ampia e dinamica azione raffigurata. Nella calotta della “nicchia” l’ornato descrive, al pari delle grandi esecuzioni artistiche, una valva di conchiglia, la quale vuole soverchiare il mero carattere decorativo architettonico per declamare ciò che essa rappresenta: una via dell’esperienza spirituale. Percepita talvolta come immagine del sepolcro dove giace l’umana spoglia, la conchiglia attira l’attenzione di Efrem il Siriaco (306, circa - 373) dottore della Chiesa, appellato "la cetra dello Spirito Santo" grazie alla sua abilità poetica che magnificamente plasma, ai fini teologici, riuscite immagini, sorprendenti e incisive affermazioni. Egli ritiene che la conchiglia,  secondo quanto si considera nell’antichità, sia fecondata dalla luce celeste, escludendo quindi la presenza della fecondazione maschile; così da tale presupposto si materializza il paragone -stessa guisa, incarnationis causa- con il concepimento verginale di Maria, mediante lo Spirito Santo: ” Fu proprio lei, Maria, che vidi là, la sua pura concezione. Fu poi … il Figlio nel suo seno, come la nube, che lo portò. E il simbolo del cielo, da cui rifulse una luminosità preziosa. Vidi in essa i trofei del Figlio, delle sue vittorie e delle sue incoronazioni. Vidi i suoi mezzi di soccorso coi suoi benefici, sia quelli invisibili sia quelli visibili” (dagli “Inni sulla fede”). Il pensiero, di questo personaggio cardine della teologia, specifica quindi che il mistero della redenzione umana è compiuto soltanto dal Messia, incarnato nel seno della Vergine, senza la quale non poteva avvenire l’assunzione reale del corpo fisico di Cristo, immagine perfettissima di Dio.
S’intuisce che tale piccola opera, posando lo sguardo sui primi brani, vuol imprimere particolare dignità a una scena altrimenti ispirata a devozione, eseguita perciò con un “ritmo” con il quale sembra abilmente descrivere, nella sua interezza, la rivelazione dell’amore divino, che dal Calvario si diffonde per l’orbe. Trasposizione per meglio dire “colta” di accenti di quotidiana religiosità, come dimostra la spoglia croce issata sulla cima del monte, che richiama un tratto illustrativo contenuto in talune copie, pittoriche, del telo sindonico, eseguite segnatamente tra la fine del XVII e la metà del XVIII secolo. Invero, l’autore dell’edicola in S. Cosimato “recupera” l’immagine del terribile strumento di pena -su cui fu inchiodato Cristo- raffigurandolo al centro della scena, mantenendo quasi ancorate alle estremità dei bracci, che compongono la croce, la lancia (secondo il Vangelo di Giovanni, cap. 20, vers. 34: uno dei soldati gli forò il costato con una lancia e subito ne uscì sangue e acqua) e la canna con la spugna (ancora secondo il Vangelo di Giovanni, che in dettaglio riporta al cap. 19, verss. 29 - 30: i soldati … posta in cima a un ramo d’issopo una spugna piena di … gliela accostarono in bocca), quest’ultima riprodotta con indubbia minuziosaggine tanto da ben scorgervi i piccolissimi fori, gli stessi posati sulle labbra di Gesù Cristo prima che Egli spirasse. Questa raffigurazione si mantiene così diffusa che, invertendo generalmente la posizione della lancia e della spongia, introducendo un ramo di ulivo e di palma con altri elementi, diviene altresì lo stemma della Congregazione del SS. Salvatore fondata nel 1732 da Alfonso de’ Liguori, approvata nel 1749 da Benedetto XIV come Congregazione del SS. Redentore (conosciuta quale Comunità Redentorista). Tale vicenda di storia ecclesiastica sembra inquadrare, con dati certi, il periodo ascrivibile alla realizzazione dell’edicola in argomento, eseguita in un contesto conventuale appartenente all’Ordine delle Clarisse.
La vivida simbolica presa della visione iconica, proclamata dalla valva, come abbiamo considerato, viene confermata mediante altre due figure arboree: la palma nel lato sinistro e il cipresso in quello destro. Se la palma “della vittoria” caratterizza il martirio –in questo caso del Messia, in quanto vincitore sulla morte e quindi per Suo merito sono aperte le porte celesti all’umanità- nondimeno rappresenta la giustizia (“Il giusto fiorirà come la palma”, Salmo cap. 92, vers. 12) e la fertilità spirituale che elargisce molti buoni frutti. Come allora non rammentare le parole del Messia, espresse nell’immagine: “ogni albero buono produce frutti buoni … un albero buono non può far frutti cattivi …” (Vangelo di Matteo, cap. 7, verss. 16 – 18). Attraverso la fede perciò avviene l’incontro tra il fedele e Dio, per mezzo della resurrezione del Salvatore, l’accoglimento dell’invisibile negli occhi umani, la pulsante fattiva conoscenza della donazione “di sé” nel totale amore che affronta il mondo e vuole “vincerlo”: “… abbiate pace in me. Nel mondo avrete tribolazione ma fatevi animo, io ho vinto il mondo” (Vangelo di Giovanni, cap. 16, vers. 33).  La palma dunque, dai zuccherini frutti riuniti a grappolo, dall’albume usato quale avorio vegetale, dalle foglie piegate per lavori d’intreccio e così via; esemplificativo tema che identifica Cristo, bene supremo, il quale ha offerto tutto se stesso e fortemente esorta i suoi seguaci alla medesima condotta: da qui l’azione nella grazia cui il cristiano si volge. Il motivo riposto e allusivo si completa con il cipresso nella forma disposta a piramide; sempre verdeggiante, dal graduale accrescimento e dall’età che varca i secoli, fornisce un legname compatto, solido e resistente alla corrosione dovuta agli agenti atmosferici e agli insetti; utilizzato per le costruzioni, i suoi galbuli –sorta di corpi legnosi- possiedono proprietà medicinali, caratteristica confermata dai suoi ramoscelli giovani, impiegati per distillare un olio essenziale medicamentoso. La sua armoniosa e dolce struttura si addensa nelle scure ma serene foglie, che il ventoso soffio non flette se non lievemente in su per la cima. Il fiammeggiante aspetto della sua chioma alta, morbidamente eretta, soavemente sculturale, rappresenta la protezione del fuoco divino, che illumina e scalda; il suo tenace legno sembra sfidare la morte, dunque concreta il segno di longevità e in tale profilo è annoverato tra gli alberi del paradiso, segnando la speranza approdante in certezza nella vita eterna, promessa a chi, menando la sua esistenza secondo la via tracciata da Cristo, –varcando quella “ porta stretta”- al cui termine nel suo spirito si “addormenta”.  
A te stessa una spada trafiggerà l’anima” (Vangelo di Luca, cap. 2, vers. 35): questo è il vaticinio rivolto alla Vergine da Simeone, “persona giusta e pia”, pronunciato a chiusura del cantico con il quale innalza la sua lode al Salvatore (nell’episodio che narra la presentazione del Bambino Gesù, da poco tempo nato, al Tempio di Gerusalemme), alla sua azione futura di giustizia “causa di rovina” per gli empi, “di resurrezione” per la moltitudine, che a lui si assegna ascoltandone e praticandone gli insegnamenti.
Una lettura “tradizionale” consegnerebbe, a Maria, soltanto il suo strazio a venire, che la percuoterà ai piedi della croce, laddove invece, quell’arma appuntita profetizzata, avrà forza di svelare la purezza o la corruzione “di molti cuori” e a causa di tale agire sorgerà il martirio sul Calvario, da cui s’innalzerà la resurrezione di Cristo prima e, dei giusti in Cristo, alla fine dei tempi. Questo concetto teologico, per quanto è raffigurato, viene compiutamente espresso dai personaggi raffigurati nell’edicola. Due putti, accostati alla Vergine, “dipingono” il dolorosissimo sentimento scaturito dalle sofferenze mortali, patite da Cristo sulla croce però ormai priva del suo martoriato corpo: l’orrenda pena è quindi un evento già collocato nel passato, seppur vivo e costante nella sua reiterazione salvifica. I piccoli “sottointesi” cherubini (mancanti di un benché minimo accenno alare) sono pervasi dal forte patimento “affettivo”, impresso dalla vista di quelle acute sevizie, di quella tormentosa morte. Il cordoglio, lo struggimento è appalesato con l’abbandonarsi, delle tenere membra, allo stretto abbraccio della spada (dall’impugnatura molto stilizzata, in pieno accento Rococò), nel celato ma decifrabile pianto (l’avambraccio che copre il volto), che risalta quella spinosa corona serrata nella mano.
Di tutta la narrazione descritta, il fulcro ne nobilita l’essenza sino a lambire una luminosità artistica, quasi che ci si trovasse innanzi a un bassorilievo, il quale seppur esposto nei limiti di un’esteriore semplicità, ne evita brillantemente le mediocri caratteristiche, –confermando quanto mirato finora- plasmando al contrario un sotteso lieve lirismo, che proprio dal nucleo innalza la sua lodevole dignità di “opera”. Qui, l’abile mano dello sconosciuto autore, forse maggiormente traduce, in immagine, i dettati della particolare committenza conventuale, aderendo a un linguaggio di fine effetto teologale. La Vergine è ritratta in un atteggiamento di delicata dignità; la sua anima è già stata percossa con atroce lacerazione, del suo amore materno, per l’orribile morte del Cristo; il suo accennato sguardo esprime una tenerezza dai toni quasi poetici; la sua pensosa, mesta espressione rivela un’attesa altra, una silenziosa celebrazione della gloria divina, che trasforma la croce –vuota- da emblema patibolare a speranza di vita eterna, compiuta dal Messia proprio attraverso quel legno. Croce dunque accettata da Maria, mistero insondabile che lei accoglie con sconfinata fede, come testimonia il suo quieto contegno. L’amore di madre pur è risaltato dalla posa delle braccia e delle mani, che pongono chiarità sul suo virgineo grembo, tempio intatto da dove è iniziata l’azione salvifica divina. L’insieme degli elementi presenti nell’edicola dona, in versi originali, un tono generale appropriato, certamente a fini devozionali, ma privo di sciatteria compositiva.   
Si è fatto cenno in precedenza circa la facciata della Chiesa, che si erge in fondo allo spazio pieno del giardino. L’intero edificio cultuale, oggi visibile, è realizzato, secondo alcune indagini che ne individuano diverse fasi costruttive, modificando gran parte dell’impianto esistente. In sostanza, una corposa rielaborazione edilizia sarebbe stata posta in atto su sezioni dei precedenti ambienti, non demolendo però l’intera pianta chiesastica, come dimostrerebbe altresì il parziale intervento su parte dell’abside. Questo assunto contrasta però l’altra tesi, che formula invece la piena ricostruzione della Chiesa, come attesterebbe l’inscrizione posta sull’architrave del portale: ” SYXTUS IIII PON MAX FUNDAVIT ANNO IUBILEI MCCCCLXXV” e come testimonierebbe altresì il completo rifacimento dell’antica aula absidata.
Tale intervento viene generalmente fissato nell’ambito del programma “edile”, voluto da Sisto IV (1471 - 1484), posto in atto soltanto in vista dell’evento giubilare del 1475; questo modo di tradurre un preciso fatto sembra comprimere la realtà storica, che al contrario palesa il Pontefice come autore di un’ampia azione, rivolta a promuovere nella “Città Eterna” il concetto di supremazia del papa. L’intento di più ampio respiro si deve esplicare perciò attraverso un’esposta cultura munifica, favorendo la spessa presenza di artisti, di letterati, in un clima alquanto nuovo rispetto agli antecedenti pontificati. Da siffatto disegno deriva il vasto programma concretato per mezzo dell’arte e della cultura, acute capacità umane esplicitate in una temperie molto organizzata e di carattere mecenatesco, ove l’atto di ristrutturare assume foggia di rifacimento urbanistico con connotazione ecclesiastica, soprattutto in alcuni luoghi dal carattere privilegiato. Si rivela con evidenza, in tal maniera, l’insito aspetto del fervore edilizio sviluppatosi per lo più –ma non esclusivamente- intorno a quel giubileo, il primo con cadenza venticinquennale, secondo le intenzioni di Paolo II (con la bolla Ineffabili Providentia, 19 aprile  1470) e confermato da Sisto IV nella bolla Salvator Noster del 26 marzo 1472.    
Oltre a quanto sinora illustrato, tra i motivi da ricercare riguardo ai lavori sistini effettuati nel Complesso conventuale di S. Cosimato, -i quali includono altresì la creazione di un altro chiostro e l’innalzamento di un nuovo campanile- non si trascurano quelli che conducono alla presenza, nel monastero, di una delle cinque sorelle del papa: Franchetta della Rovere, clarissa (morirà nel 1480).
Suora di clausura quindi appartenente all’Ordine delle Clarisse, comunità femminile francescana, a cui è affidato il Convento trasteverino nel 1234 da Gregorio IX, prima ancora dell’approvazione della Regola (1253), che S. Francesco avrebbe, secondo alcune interpretazioni storiche, già redatto nel 1224 indicandola come “regula delle povere donne”, ripercorrendo quella dei suoi frati minori. Tuttavia si ritiene che S. Chiara (da cui discende il sostantivo “clarissa”, dalla forma latina del suo nome, Clara) abbia contribuito in maniera determinate alla definitiva stesura della Regola medesima (1251-1252).
Il “nostro” monastero, nel corso dei secoli, sarà la “casa” di molte Clarisse appartenenti a famiglie nobiliari e potenti (Orsini, Frangipane, Savelli e così via), come conferma la presenza di Franchetta, sorella del papa regnante. Inoltre, come non rammentare il precedente percorso religioso ed ecclesiastico di Sisto IV, al secolo Francesco della Rovere, formatosi all’interno dell'Ordine francescano dei Frati Minori Conventuali, divenendone ministro generale nel 1464. Questi ultimi ragionamenti argomentativi potrebbero (anche) aver determinato, come presumibile, l’avvio dei lavori di restauro e di ampliamento del Complesso, evidentemente all’epoca bisognoso di opere di riattamento.
“Sisto IV rifé San Chosme Damiano el suo bel monasterio poi rasetta che di fama e di chostumi el più soprano in Trasteveri posto e chiamato dal volgo el monasterio di San Cosimato”. Questa frase tratta dalle “Vite di tutti e pontefici” (1505), composizione di Giuliano Dati – fecondo letterato, all’epoca rettore della Chiesa dei SS. Silvestro e Dorotea in Trastevere e in seguito ordinato vescovo- appropriatamente esemplifica l’operato del Pontefice nei confronti di questo sito. Il citato riferimento alla denominazione del convento altresì rimanda, indirettamente, alle sue origini.  Difatti, il monastero viene fondato, nella prima metà del X secolo (fra il 936 e il 947), dal nobile Benedetto Campanino sulla sua proprietà privata ed è retto dai monaci Benedettini –divenendo un soggetto di solida floridezza economica- sino al 1234, anno in cui, come sappiamo, subentrano le suore Clarisse. Il complesso religioso indicato, nel corso del tempo, “Abbatia SS. Cosmae et Damiani in Mica Aurea”, è titolato ai gemelli, Cosma e Damiano, molto cari alla tradizione agiografica, nati in Arabia. Essi, medici, dedicano le proprie energie alla cura dei malati, attività svolta senza compenso, come indica il loro epiteto anàrgiri (termine greco, “senza denaro”), perché volta a concretare, per mezzo dell’arte medica, un’efficace opera di evangelizzazione, così intensa da essere martirizzati durante l’imperio di Diocleziano (nel 303, come vuole la voce tradizionale). Il loro culto, diffuso sin dal V secolo, è attestato anche a Roma già dal VI, ove, caso unico, avviene la corruzione dei loro due nomi trasformandosi in uno -S. Cosimato- almeno dalla prima metà del XIII secolo.
Ancora però la figura di Sisto IV s’impone su questa dissertazione, riannodandosi proprio a un particolare della Chiesa, vale a dire il portale marmoreo (fig. 3), realizzato da Andrea Bregno (1418 - 1503) ovvero dalla sua talentuosa bottega, che ne ripete il raffinatissimo disegno, come dimostra l’elaborata ornamentazione dai pieni significati simbolici.
Il Bregno, nato a Righeggia, piccola frazione di Osteno, nel Cosmasco, rappresenta uno dei “temi” più dibattuti dagli storici dell’arte, poiché alcuni suoi lavori, soprattutto in ambito architettonico, sono scarsamente documentati e dunque le diverse attribuzioni scaturiscono da giudizi derivati da difficoltose indagini filologiche. Egli influenza il giovane Michelangelo, giunto per la prima volta a Roma intorno al 1498, il quale ammira la preziosa collezione esposta nella dimora sita sul Quirinale, del già famoso artista lombardo, formata da reperti dell’antichità. Li accomuna quindi quell’irrefrenabile creativo impeto che, nell’antico, trova il primario impeto dal quale diparte quella, nuova, forma artistica caratterizzante il Rinascimento e che nel Buonarroti trova fulgido apice. Il maestro lombardo quindi rivela, al giovane talento toscano, un’azione artistica che in un certo qual modo si effonde nella prima vena creativa di quest’ultimo, come appalesa il suo completamento dell’altare esposto nella Cappella Piccolomini del Duomo di Siena, realizzato dal Bregno fra il 1481 e il 1485, ripreso e completato proprio dal Buonarroti tra il 1501 e il 1504, senza introdurre sostanziali modifiche al progetto primario. Come ancora, a questo proposito, non individuare delle assonanze tra la figura della Vergine (Madonna col Bambino) del Bregno, conservata nella Chiesa dei SS. Pietro e Paolo a Osteno (eseguita a Roma intorno al 1464) e quella di Michelangelo, appellata la “Madonna di Bruges” (opera realizzata, anch’essa a Roma, iniziata probabilmente nel 1498 e terminata nel 1505, circa), sebbene il Buonarroti conduca il tema scultorio in un’aura che volge a superare l’iconografica staticità, che pur connota la “sua” Madre del piccolo Messia, in parte riecheggiando altresì la Vergine col Bambino di Donatello (1450 circa, Basilica di S. Antonio a Padova).
Andrea Bregno esprime (e rappresenta nei successivi periodi) dunque apici artistici tra quelli, acuti, propri della strategia culturale sistina. Il suo linguaggio reso attraverso un rielaborato classicismo, si manifesta assai raffinato, dove ogni minimo dettaglio è realizzato con rilevante perfezione tecnica. Egli si affranca da una generale impostazione linearistica, ormai già all’epoca arcaica, inserendo spesso nei suoi lavori elementi dal preciso verso simbolico, scaturito dalla più capace trasmissione di penetranti modelli confluiti dalle e nelle scansioni temporali, suggellandovi perciò dettagli privi della sola natura ornamentale di superficie, pur se caratterizzati da un visibile finissimo gusto decorativo. Accresce di tale artista la fama a Roma, ove l’attività della sua bottega si palesa alquanto copiosa, soprattutto con l'elezione al soglio pontificio del cardinale della Rovere. Dell’alta considerazione nutrita nei suoi confronti da altrettanto celebri nomi, ne dettano testimonianza sia il celebre umanista Bartolomeo Sacchi, più noto come il Platina, che lo compara a Policleto (il Vecchio, l’eminente scultore dell’antica Grecia, molto spesso paragonato a Fidia), sia il Perugino (Pietro Vannucci, così detto), che lo raffigura tra i personaggi del suo magnifico affresco “Consegna delle chiavi a S. Pietro” (1481), che si ammira nella Cappella Sistina (dove il “nostro” artista lombardo compie, insieme a Mino da Fiesole e a Giovanni Dalmata, la transenna e la cantoria). La sola enunciazione di questi tre autori -Bregno, Platina, Perugino- rappresenta i fulgenti e fondamentali tratti di quel vivido ambiente artistico e culturale, pulsante nella Roma sistina, come in precedenza si è detto.  
Ritornando sul portale lapideo inserito nel prospetto della Chiesa di S. Cosimato, lo stesso offre agli occhi dell’attento visitatore molti motivi propri del registro del Bregno, in virtù dell’impianto generale, in un contesto certamente non monumentale o, a una vista frettolosa, non di “forte presa”. Invero, gli elementi decorativi elaborati in questo ristretto spazio architettonico mirabilmente si delineano e per tale ragione acquisiscono una concreta, elegante, grandezza, pur nelle ridotte dimensioni in cui sono concepiti.
Dello studio iconologico di questa opera (fig. 3), dalle dimensioni quindi ridotte rispetto ad altre, si può condensare ciò che della spiritualità, alcune immagini, vogliono afferrare per mezzo di un linguaggio artistico rinnovato ma strettamente connesso con espressioni di precedenti epoche. 
Una cintura, formata da tre linee rette, racchiude un lavoro riccamente composto, cui i rilievi hanno forma e significato attraverso quattro elaborati profili (due per lato), che accolgono figure diverse, attraverso le quali alludono all’albero con i suoi rami, differentemente, stesi. Annuncio della grazia divina, che germoglia sulla terra per innalzare il fedele sino alla luce celeste, per mezzo della saggezza donata dallo Spirito Santo. Questo asserto simbolico è reiterato dalle immagini comprese nell’assetto interno dell’opera: le brocca (accoglimento dello Spirito di Dio come acqua salvifica), il candelabro (albero della luce divina), la ghirlanda (la vittoria sulle tenebre), il fiore (accoglimento dei doni divini), l’uccello (distacco dal mondo, vicinanza a Dio), il vaso (da grembo della Terra a vaso spirituale), la pigna (“infiorescenza” formata nel pino e nell’abete, alberi sempreverdi, che allude all’immortalità, all’eternità), la mela, incisa nel coronamento (il peccato che Cristo materialmente prende su di sé), la pera, anch’essa raffigurata nel fastigio (figurazione femminile dall’ampio bacino, in cui la discendenza di Eva è colta nel fecondo campo della vera conversione). I motivi che, soprattutto, rappresentati in entrambe le parti laterali superiori, per come composti, rimandano maggiormente a un’interpretazione dell’albero cosmico, il quale in alto si protende volgendo i rami in basso, in guisa di asse posta al centro del cosmo, che oltrepassa le profondità e le superfici terrestri e da esse conduce al cielo, come entità che unisce queste due sfere. Oltre a quanto descritto si notano alcuni tipici ornamenti raffigurati, ad esempio, dai nastri svolazzanti, che ripropongono la ricchezza iconografica; in aggiunta si scorgono i riferimenti medicidei due martiri, SS. Cosma e Damiano, posti ai lati superiori estremi, individuando in quello sinistro uno strumento appuntito, sorta di bisturi.  
La raffinatissima mano del Bregno –o della sua bottega che egli conduce- viene confermata da questo lavoro, eseguito con pienezza di brio e capacissima minuzia, caratteristiche congiunte alla sua notevole perfezione tecnica.
Un timpano ad arco di pregevole fattura conclude la composizione (fig. 4), nel quale un ormai, fievole dipinto raffigura la “Madonna con il Bambino e due angeli” (1481, circa), attribuito a Pier Matteo d’Amelia (1442/1448 - ?), all’epoca molto attivo a Roma, autore di dipinti di buona impostazione plastica, sebbene non scevra di un linearismo interpretato però con intensità. Gli si attribuisce, ad esempio, il disegno originario (che avrebbe anche eseguito) ornamentale della volta della Cappella Sistina -eliminato dai successivi fulgenti affreschi di Michelangelo- costituito da cornici e fregi architettonici, delimitanti un cielo stellato (secondo un risuono medievale) su cui si pronunciano due stemmi di Sisto IV.  
La lettura iconologica desunta – quasi un riferimento a una peculiare esegesi, che approda “dentro” il contenuto dell’opera figurativa- può tentare una decodifica, un possibile significato di quanto si cela nei notevoli intagli. La luce divina rischiarante l’anima dell’uomo, da questi accolta nell’imitazione di Cristo incarnatosi attraverso la Vergine, -seno materno e sommo grembo spirituale- guida sino a raggiungere la vita eterna dopo il cammino terreno, ove una concreta, interiore, visione spirituale ne accompagna i passi, talvolta incerti, talora perigliosi ma non disgiunti dalla sommità dei cieli, da dove agiscono gli atti dei Santi e l’intercessione suprema di Maria, posta dalla Trinità -cui la figura geometrica del triangolo simboleggia- come supremo tempio dello Spirito. 
 

La vasca termale romana di granito grigio
 

L’edicola dedicata alla Vergine
 


Il portale marmoreo
 
 
 
 
Il portale marmoreo (particolare)

giovedì 20 ottobre 2016

Giacinto Brandi: il “Martirio di S. Andrea” della Basilica di S. Maria in Via Lata



La Basilica di S. Maria in Via Lata rappresenta una delle numerose effigi celate, seppur d’intensa sostanza, nel seno della “Città Eterna”. Già nel mio post pubblicato il 20 dicembre 2014, dedicato alla pala marmorea -appena terminato il suo restauro- di Cosimo Fancelli, che rifulge in un ambiente dei sotterranei, ho posto l’accento su quanto, l’intero complesso della Chiesa, sia una rigogliosa testimonianza archeologica e artistica.

Si distende, questa capace ricchezza estetica, nello slancio verticale del prospetto, mirabile elaborazione architettonica di Pietro da Cortona, il quale ne assegna la valenza di plastica quinta esposta a densi mutamenti di luci, di ombre da cui affiorano, progressivamente, le parti della struttura sporgenti verso l’esterno. Opera architettonica quale proemio della preziosa distesa di marmi e di tele ornanti il policromato interno, colmo di effetti radiosi che aprono, sereni, gli alti segmenti del soffitto, dove nella sezione anteriore il dipinto, “Incoronazione della Vergine”, realizzato da Giacinto Brandi (1621 - 1691) nel 1650, eleva lo sguardo spirituale dell’osservatore; pittura di spessa nobiltà figurativa, tanto da essere lodata, fin da quella metà del XVII secolo, per il brio d’impostazione barocca inciso su una “venatura classica”.

Artista abile nel raffigurare “voci” pittoriche acute e fervide, il Brandi rifugge da leziosi e patetici sentimentalismi; invero, pur aderendo in ambito cultuale alle esigenze pietistiche, egli si esprime secondo i canoni del proprio singolare linguaggio. Il “nostro” Giacinto è attorniato da una considerevole fama nel suo tempo, tanto che Mattia Preti (pittore attento verso elementi classicisti e volto a concepire il Barocco nella dilatazione dello spazio, elaborando diffusi caratteri luministici e colori pieni) in uno scritto giunge a definirlo “più pittore … e meglio” rispetto ad altri celebri “pintori” suoi contemporanei, quali Carlo Maratta (tra i più importanti nell’ambiente romano e massimo esponente, con Andrea Sacchi, di una temperie classicheggiante e accademica), Pier Francesco Mola (il cui stile comprende alcuni alti toni del Barocco rivelando altresì spessi accenti intimistici e arcadici), Ciro Ferri (allievo e collaboratore del Cortona, di cui ne segue lo stile durante tutto il suo raffinatissimo percorso artistico), presentando quasi uno spaccato dell’arte pittorica attiva in Roma soprattutto nella seconda metà del XVII secolo.

Elevato a principe dell’Accademia di S. Luca (1668), la sua tavolozza già ricca s’impregna ancor di più della materia barocca, rispondendo alle numerose commissioni attraverso una feconda bottega, della quale però ne vuole la fine intorno al 1680, per continuare in magistrale solitudine a estendere la creatività della sua mano, cimentandosi anche in giochi di ricolmate impressioni luministiche e chiaroscurali; il Brandi mostra dunque una rilevante forza incisiva pur se, a tratti, addolcita nei registri cromatici stesi tenacemente con sostanza visiva. L’esposizione di questi suoi, efficaci, brani stilistici può essere colta nella seconda cappella destra di S. Andrea al Quirinale, dove egli esegue (1675 -1681, circa) la pala d’altare “Deposizione di Cristo” e ai lati la “Flagellazione” e la “Salita al Calvario”.

Maestro di coerente versatilità, realizzando nel 1685 il “Martirio di S. Andrea” in S. Maria in Via Lata (altare della prima cappella del transetto destro), crea un’accesa simbiosi tra carichi colori e scure tonalità sebbene prive di “tuoni stentorei”. Il tema è affrontato sfuggendo la raffigurazione, assidua, del Santo fissato sulla croce, dando invece vivo contenuto scenico alla sfolgorante impetrazione dell’Apostolo, esclamata nell’opera laudativa Legenda sanctorum, nota come Legenda aurea, composta dal beato domenicano Jacopo da Varazze, presumibilmente tra gli anni cinquanta e sessanta del XIII secolo; da tale raccolta di vite di santi scaturiscono altresì molteplici elementi iconografici, che l’Arte rappresenta con marcata costanza. Dalla tela sembrano quindi udirsi le invocanti parole di S. Andrea, che danno impeto al suo repentino, spontaneo moto verso quel terribile e mortifero strumento, la cui forma, per volontà del Martire, mentova l’iniziale greca del nome di Cristo (Xristòs, come si legge): ” Croce santificata dal corpo di Gesù e impreziosita dalle gemme del Suo sangue … a te vengo pieno di certezza e di gaudio, affinché tu accolga il discepolo di Colui che su di te è morto. Croce buona, a lungo desiderata, che le membra del Signore hanno ammantato di tanta bellezza! Continuamente ti ho amata desiderando di abbracciarti … accoglimi per portarmi dal mio Maestro !”.

Dall’oscurità emergono mosse stesure di luce, amalgama di opposti elementi che non decade in una, ormai convenzionale, sintassi di modelli risonanti quelli prossimi alle estenuanti e impersonali formule di tanti caravaggisti, poiché viene mantenuta ben salda un’autentica acutezza psicologica dei personaggi, scevri da qualsiasi aneddotica. La vena artistica del Brandi schiettamente esorta ad abbandonare perciò ogni debito, riguardo a certi principi organizzati dal caravaggismo se debordato in “pratica tecnica”. Il pronunciato rilievo fisico dei corpi rivela una personale pienezza di accenti barocchi, questi ultimi risolti circoscrivendo l’assetto della superficie in cui sono concepite le figure e i loro dinamici movimenti; azione narrativa che, sebbene sia liricamente rappresentata, non la sottrae a un’ardente drammaticità, espressione del naturale carattere creativo del pittore, capace di dar forma a un pregevole eclettismo plastico.     

 

lunedì 20 giugno 2016

Il Grand Tour a Roma di Felix Mendelssohn-Bartholdy

Immagine tratta da "Google immagini"




Il viaggio verso le città europee, di maggiore interesse artistico e culturale, appellato Grand Tour, distintivo di uno specifico momento storico, viene stimato come esperienza fondamentale del percorso di maturazione intellettuale dei giovani, sia appartenenti a famiglie estremamente colte, sia dediti all’esercizio dell’arte. Già praticato, nel corso del XVII secolo, dai rampolli di nobile schiatta britannica, si dilata nel XVIII secolo per il favore decretato da altri paesi dell’Europa, godendo di enorme credito e seguito sin quasi alla fine del successivo XIX secolo. In breve tempo, tra le mete da raggiungere, s’impone l’Italia e in particolar modo Roma, che dispiega ai visitatori i suoi suggestivi e monumentali resti archeologici, le sue pregiatissime collezioni di pittura, di scultura antica e di “mano moderna”. In questo elevato alveo si colloca, ad esempio, l’Accademia di Francia istituita nella “Città Eterna” nel 1666 per volere di Luigi XIV, dove perfezionano la pratica artistica giovani valenti borsisti, vincitori del Prix de Rome, o nominati meritevoli dal re e protetti dalla più influente aristocrazia francese. Inizialmente aperta solo ai pittori e agli scultori, nel 1720 vi si aggiungono gli architetti nonché nel 1803 i musicisti e, l’anno successivo, gli incisori.
Di tale fervore caratterizzante quei secoli, in cui “l’Urbe” conferma il suo culmine, non può sottrarsi Jakob Ludwig Felix Mendelssohn-Bartholdy (1809-1847), compositore dall’ingegno ferace, nipote del filosofo Moses (applaudito da Kant) e figlio del ricchissimo banchiere Abraham (convertito al cristianesimo, di osservanza luterana, aggiungendo all’originario cognome un secondo, Bartholdy). Personaggio di straordinaria cultura, di ampissime capacità (padroneggia diverse lingue) e di versatilità talentuosa, tanto da permettergli di cimentarsi, con brillanti esiti, nel disegno e nella pittura, quando giunge a Roma (1830) durante il suo primo viaggio italiano, è già un musicista acclamato. Infatti, egli irretisce il pubblico oltre che per le sue indubbie doti di autore, di pianista, di interprete – come non rammentare il suo grande merito di dare fondamentale impulso alla Bach Renaissance- e di direttore di orchestra (inaugurando tale ultima figura in chiave moderna), anche grazie alla sua inesauribile comunicativa, alla sua congenita simpatia. Per alcuni mesi alloggia in una casa affacciata su Piazza di Spagna (edificio cui è assegnato il numero civico 5) e intensamente partecipa a quelle, “aurate”, feste incorniciate nei bagliori propri dei saloni, che svelano ancor più i palazzi nobiliari romani. Incontra il ventisettenne Hector Berlioz (cui poco prima è stato conferito il Prix de Rome) a Villa Medici (dal 1803 sede dell’Accademia di Francia), consulta la vasta e pregevole collezione musicale del presbitero e compositore Fortunato Santini, s’inebria alla vista delle numerosissime ricchezze architettoniche, di quelle estetiche luci manifeste nelle pitture e nelle sculture, non trascurando la particolare chiarità diffusa dal paesaggio circostante; visioni che rafforzano quel suo sentimento verso l’Italia così espresso: ” E’ quella che ho sempre pensato che fosse la gioia più grande della vita, fin da quando sono stato in grado di pensare …”.
A Roma il suo personale gusto, la sua acuta sensibilità musicale vi trovano dimora, insieme alle sue belle maniere che tanto affascinano. Quelle reali vivaci vedute su cui il suo sguardo si ammalia soffermando su Piazza di Spagna, sulla lucente poesia architettonica di Trinità dei Monti, sul Pincio, su Ponte Nomentano avvolto dalla dolce e struggente campagna romana e su quanto altri diversificati “tesori” mostrano, gli suscitano note di immensurabile bellezza. Viaggiatore “cortese”, anche in questo ambiente continua dunque a musicare, ad abbozzare sue composizioni impregnate perciò di suggestioni, in sé raccolte durante il suo “vagabondaggio” formativo, come dimostra la Sinfonia n. 4 in la maggiore, op. 90 (detta l’Italiana), iniziata proprio a Roma e completata, a Lipsia, agli inizi del 1833. Invero, in una lettera del 21 febbraio 1831, scritta dalla “nostra Città”, così egli rivela riguardo a questa composizione: ” Essa procede alacremente; è il lavoro più gaio che io abbia mai finora composto, specialmente nel finale”. Le sue quattro parti esemplificano la riuscita bilanciata sintassi tra un brioso sentimento derivato dalla travolgente natura italiana (primo movimento Allegro vivace; quarto e ultimo movimento Saltarello, Presto) e un temperato sentire nordico (secondo movimento Andante con moto; terzo movimento Con modo moderato). Felicissima combinazione dove respirano cangianti sentimenti, densi dialoghi, vibranti duetti, consistenti andamenti contrappuntistici ma anche inafferrabile grazia e lievi toni. Nel tempo più distintivo e paradigmatico di tutta la sinfonia, il Saltarello, viene liberamente espresso e rievocato il movimento rapido e quasi frenetico di tale danza tanto popolare a Roma (e in altre zone dell’Italia Centrale), dal vivace ritmo, riprodotto attraverso un tema magnificamente esuberante che fluisce su una cadenza di note reiterate, in una spigliatissima atmosfera colma quindi di brio e di gioioso eccitato moto. Questo ballo così stilizzato rappresenta una vera prova di abilità strumentale, caratterizzata dall’ondoso tumulto delle terzine degli archi, dagli audaci brani in staccato dei legni, dal trionfo ritmico che però non deborda in toni di incontrollata ebbrezza.
Mendelssohn s’immerge in quei marcati turbini di corpi associati alla musica, osservandoli negli angoli dei quartieri popolari di Roma, in cui uomini e donne erompono l’innata esuberante vitalità, misurando la loro fisica prontezza nell’agilità “tersicorea”. Lo immaginiamo seduto nella più rinomata osteria di Trastevere, Cucciarello alla Scentarella di Piscivola, sita fino al 1870, circa, nell’odierna Piazza in Piscinula, frequentata non soltanto dai trasteverini ma altresì da coloro che vogliono conoscere, de visu, i veridici costumi di quei romani, poiché essi vi ballano, per l’appunto, il “Saltarello e ve cantano” (come riporta una cronaca dell’epoca).
Quanto fortemente s’imprima nell’animo, del musicista tedesco, la vicenda incisa dalla “Città Eterna”, lo testimonia un’altra lettera (8 novembre 1830) indirizzata alla sua famiglia, dove afferma: ” Oggi dovrei scrivervi dei primi otto giorni passati a Roma, di come procede la mia vita … quale impressione sulle prime abbiano suscitato in me questi divini dintorni … provo un senso di tranquillità, di gioia e anche di serenità, che non vi saprei descrivere. Non so neanche dirvi esattamente che cosa produca in me questa sensazione. Il terribile Colosseo, il luminoso Vaticano e la dolce aria primaverile vi contribuiscono e così pure l’affabile popolazione … Per farla breve, mi sento diverso: sono felice e in buona salute come mai da lungo tempo, provo una tale gioia e sento una tale energia per quanto concerne il mio lavoro che penso di portare a compimento qui molte cose che avevo iniziato, poiché mi sento veramente in forma … Immaginate una piccola casa con due finestre al n. 5 di piazza di Spagna, che per l’intero giorno è illuminata dai caldi raggi del sole … la mattina me ne sto alla finestra e guardando verso la piazza vedo come ogni cosa alla luce del sole si stagli nitidamente contro il cielo azzurro. Quando la mattina presto … appare il sole splendente … ciò suscita in me una sensazione infinitamente piacevole, poiché invero siamo già in autunno inoltrato e chi da noi potrebbe pretendere ancora il caldo, il cielo sereno, grappoli d’uva e fiori? Dopo colazione, mi metto a lavorare e suono, canto e compongo fino a mezzogiorno. Poi mi rimane l’obbligo di godere tutta l’immensa Roma; mi dedico a questo impegno con estrema lentezza e ogni giorno scelgo qualcosa di diverso in questo patrimonio della storia del mondo. Un giorno vado a passeggio tra le rovine della vecchia città, un altro alla Galleria del principe Borghese o al Campidoglio, oppure a S. Pietro o al Vaticano. Ogni giorno è così indimenticabile e, a mano a mano che il tempo passa, ogni impressione si fa più forte e intensa … Quando mi trovo là, non vorrei andarmene via e così ciascuna delle mie impressioni mi procura la gioia più pura e un piacere si sussegue all’altro …”.


    


Gaetano Cottafavi: Piazza di Spagna. Acquaforte, prima metà terzo decennio XIX secolo (immagine tratta da "Google immagini") 



 


martedì 24 maggio 2016

La Danae di Correggio


Le “Scuderie del Quirinale” ospitano, sino al prossimo 26 giugno, l’interessantissima mostra “Correggio e Parmigianino. Arte a Parma nel Cinquecento”, che, riguardo al secondo artista, segue quella dedicata a “Raffaello, Parmigianino e Barocci. Metafore dello Sguardo” svoltasi, fino al 24 gennaio di quest’anno, negli spazi di Palazzo Caffarelli.

Tramite questo post intendo volgere l’attenzione a una delle più considerevoli opere esposte nella rassegna in corso: la “Danae” di Correggio, proveniente dalla Galleria Borghese.

Di questo maestro a Roma è conservato soltanto un altro suo lavoro, vale a dire la mirabile “Allegoria della Virtù”, incompiuta tempera su tela (Galleria Doria Pamphilj) definita, in un documento degli inizi del XVII secolo, quale “concerto di varie figure di donne”, probabilmente versione antecedente a quella esposta al Louvre di Parigi.

Antonio Allegri, detto il Correggio (1489, circa - 1534) presente nella “Città Eterna”, come la gran parte degli studiosi oggi suppone, per un breve ma intenso periodo, tanto da apprendere i modi creativi di Raffaello, oltre che di Michelangelo, come dimostra l’impianto iconografico espresso nella “Camera della Badessa” -Giovanna da Piacenza- del Convento benedettino di S. Paolo a Parma (1519, circa), in cui le soluzioni raffaellesche sono rielaborate con un linguaggio personale.

In sostanza, nella sua cifra si avverte il forte respiro della classicità, quell’alternarsi dialogico di proporzioni e di spazi da cui fluisce un rigoglioso confronto con “l’antico”, proponendo una pregevole levigatezza cromatica, la quale conferisce fluidità alle forme circonfuse dalla tenue aura dello sfumato, diffondendo un nuovo e acuto sentire, che supera pose connotate da affettata dolcezza e da astratta grazia, che egli, invece, manifesta attraverso un cambio di visione, in un impianto di squisita classicità, carattere questo che può prendere forma soltanto con il contatto diretto con la grandezza e la maestosità delle antiche memorie artistiche romane, con l’enfatica estensione delle superfici, esterne e interne, architettoniche, risonanze che s’imprimono su quanto realizzano i diversi autori.

La poetica del Correggio accoglie la figurata morbidezza, identificandola però attraverso un’evocativa suggestione, nutrita da una naturalezza interpretata attraverso accostamenti, i quali trasmutano i personaggi raffigurati in “vera carne”, superando, concretamente, l’erudita aulica citazione del modo derivante dall’antichità; i contenuti pittorici perciò dissigillano un sentimento di verità e di vita.

Se il disegno, nella sua epoca, agisce come valore normativo, egli, ammorbidendone e sfumandone i contorni, volge il suo linguaggio verso una figurazione di moti e di “affetti”, espandendo le forme e unendo i personaggi in una sorta d’insieme di graduali sovrapposizioni, sfocianti in una piena circolazione di movimenti affettivi, che coinvolgono lo spettatore sollecitandone i sensi. Questo fecondo ingegno, caratterizzante le opere correggiane, costituisce quasi un proemio di quella vitalità creativa e di spessa presa emotiva, che saranno elementi, tra altri, propri del Barocco. Un prototipo dunque, una traiettoria colma di nuovi contenuti “semantici”, i quali dissuggellano l’afflato artistico esponendo un’intima vocazione affettiva, che congiunge inscindibilmente fra loro i protagonisti raffigurati e questi al circostante ambiente dipinto. L’esito di questa efficacia rappresentativa è compiuto nelle immagini, che sembrano muoversi con vivido animo, dove alloggia un reale sentimento umano, così individualmente irrepetibile.

Della statuaria classica, il nostro pittore, predilige i modelli ellenistici derivanti da quella duratura evoluzione, che sbocca nell’accentuazione curvilinea di profili, di sagome, di contorni così capaci di esprimere “l’affetto”, questo inteso quale penetrante espressione psicologica della figura umana, moto dell’animo pur attraverso soggetti di carattere erotico o più finemente sensuale. Impiegando segni grafici arrotondati e sinuosi, il Correggio riesce a vivificare quell’intimo sentire che sorge nella e dall’azione disegnata, non solo nelle forme carnose e impregnate di luce, tratti distintivi delle immagini “profane” ma altresì in quelle a carattere sacro, -egli è “silenziosamente” eccelso anche in tali temi di riferimento- che ne confermano la prodigiosa poetica tangibilità, organizzando anche semplici però studiatissimi schemi, in cui la tensione emotiva, che avvolge le figure, infonde compattezza e pienezza alle azioni, dove le decorazioni delle vesti –suntuose e ondulate, “empaticamente partecipi” del cardine della scena- o la disposizione dei panneggi, che avvolgono, spesso in parte, le nude membra disegnate in pose composte ed eleganti, sono consegnati alla vista con particolare dovizia e pur gli oggetti più semplici della quotidianità trovano, accurata, dignità interpretativa. Nella sua sacralità dipinta insiste una palpitante naturalezza, assai difforme dalla muta reinterpretazione degli esempi forniti dagli schemi classici.

Nei lavori, il Correggio, riversa una cultura pittorica e mitologica avanzata, nella quale convergono, in una personale e originale sintesi, i “rimandi” a modi raffaelleschi e a “misure” michelangiolesche, la conoscenza della scultura antica, -paradigmatica dei corpi belli e floridi- gli echi leonardeschi per la finezza espressiva e il “metodo” veneto, che dalla fine del XV secolo inizia a esporre una nuova stesura del colore. Questi “dati” assieme acquistano un notevole personale spessore negli argomenti delle sue pitture, dagli accenti d’innocente tenerezza, di sensuale leggiadria e di felice immediatezza, complessità “animata” non da tutti compresa durante l’intero scorrere del XVI secolo. Proprio la percezione dell’intelletto per mezzo dell’esperienza dei sensi, rappresenterà quasi un primigenio margine di ciò che svilupperà, come detto, il verso espressivo barocco.

Il Vasari descrive “Antonio da Correggio” come “suggetto alle fatiche di quella (dell’arte) e grandissimo ritrovatore di qualsivoglia difficultà delle cose … Et egli fu il primo, che in Lombardia (così identificata altresì la parte della Pianura Padana a sud dell’attuale regione lombarda e dunque anche Correggio, città natia dell’artista) cominciasse cose della maniera moderna … nessuno meglio di lui toccò colori, né con maggior vaghezza o con più rilievo alcun artefice dipinse meglio di lui, tanta era la morbidezza delle carni ch’egli faceva, e la grazia con che e’ finiva i suoi lavori … per questo il Correggio merita gran lode avendo conseguito il fine della perfezione ne l’opere … le quali … vedendo Giulio Romano, disse non aver mai veduto colorito nessuno ch’aggiungesse a quel segno: l’uno era una Leda ignuda (Leda e il cigno, oggi allo Staatliche Museseen di Berlino) e l’altro una Venere, (da identificarsi con la Danae “romana”) sì di morbidezza colorito e d’ombre di carne lavorate, che non parevano colori ma carni … né mai lombardo fu che meglio facesse queste cose di lui, et oltra di ciò, capegli sì leggiadri di colore e con finita pulitezza … condotti, che meglio di quegli non si può vedere”.

Il Correggio, pittore dell’amorevolezza spirituale, della storia sacra calata in maniera convincente in una profonda atmosfera d’intimità quotidiana ma anche d’intenso e vivo dolore. la cui lettura unisce, nobilmente, la sofferenza interiore con l’afflitta voce esteriore che è udibile dallo spettatore, come asserisce Francesco Scannelli (Microcosmo della pittura, 1657), è anche l’autore di un erotismo ideale, anticipando molti artisti anche dei secoli successivi. Infatti, la sua pittura rispecchia quell’interesse, generatosi con ” dotto respiro” nel corso del Rinascimento, per l’estasi e la pratica amorosa; in quest’epoca gli amori degli dei divengono un mezzo fissato con autorevolezza dall’ambiente intellettuale, che ha riscoperto, particolarmente, l’Ars Amatoria di Ovidio, fine opera didattica composta tra il termine del I secolo a. C. e l’inizio del I secolo d. C., già bene accolta da tutta la società raffinata della Roma antica, il cui argomento è incentrato sulla conquista dall’amata e dell’amato e sulla “metodica” per serbare acceso l’amore. Quel lodato testo, proveniente dal passato, assume carattere di praticabile possibilità di figurare, con libertà, degli episodi sessuali, altrimenti inibiti dall’èthos corrente; proprio da tale temperie il nostro artista trae ispirazione e l’amore sensuale diviene un soggetto molto frequentato dalle sue raffigurazioni; il “clima” erotico viene realizzato in sue numerose opere, oltre che dalle azioni e dagli atteggiamenti, dalle espressioni estatiche. Una palese fusione tra sensualità, mai lasciva, e immagine del sesso nel contesto amoroso; il gesto dell’erotismo non si palesa nella nudità, quale valore autonomo, poiché il Correggio offre visivamente quella carnalità illustre attraverso una visione grandangolare seducente e la solida sensazione d’imminenza dell’atto, scena creata per essere guardata da vicino, in una stanza, solitamente appartata dal resto dei vani della dimora nobiliare. Su quel medesimo “obiettivo” convergono quegli incarnati così reali e dai levigati profili, che sembrano ammantati soltanto di “dolce aria” grazie a un virtuosismo, non soltanto “tecnico”, tale da dirigere la sua mano, con bravura massima, nelle difficili masse pittoriche, come annota di nuovo il Vasari: ” E fece della pittura grandissimo dono ne’ colori da lui maneggiati come vero maestro, e fu cagione che la Lombardia aprisse per lui gl’occhi, dove tanti belli ingegni si son visti nella pittura, seguitandolo in fare opere lodevoli e degne di memoria; perché mostrandoci i suoi capegli fatti con tanta facilità nella difficoltà nel fargli, ha insegnato come e’ si abbino a fare. Di che gli debbono eternamente tutti i pittori …”. I capelli nei suoi dipinti sono morbide ciocche d’oro ramato, o di oro chiaro e brillante di morbidi riccioli, o ancora d’oro brunito, come le chiome della “Danae” che lievemente cadono su una spalla. Sua è la capacità illusionistica che raccoglie dal “mondo naturale”, tradotto con forte intensità, dalla sua poetica, con sorprendenti esiti.

Riguardo a questo ultimo dipinto lo storico dell’arte, Giovanni Morelli, nel suo libro Della pittura italiana, studi storico critici. Le Gallerie Borghese e Doria Pamphili in Roma (1897) asserisce che: ” Non conosco nessun’opera moderna la quale per questo rispetto (l’espressione del sentimento) abbia più diritto d’essere posta accanto alle creazioni artistiche dei Greci. Probabilmente l’opera (compresa nella “serie” degli Amori di Giove) è commissionata da Federico II Gonzaga, duca di Mantova e marchese del Monferrato, ed eseguita tra il 1531 e il 1533; essa ulteriormente mostra un eminente equilibrio fra contenuto e forma, come se, la vicenda artistica corregesca, volesse concludersi (egli morirà intorno ai 45 anni, il 5 marzo 1534) con le cadenze di un erotismo esplicito però soffuso, in una gloria durevole ove si aduna l’ammirazione di molte voci tra cui quella di Stendhal, il quale nella sua Histoire de la peinture en Italie (1817) ne esalta “la gràce” e anche “la volupté” e “le beau idéal moderne”. 

L’azione svolta in questa tela s’ispira a un brano mitologico, secondo il quale Danae figlia di Acrisio, re di Argo, è rinchiusa in una torre dal padre, affinché non concepisca un figlio, avendo saputo da un oracolo che questo lo ucciderà. Vana però si rivela la sua precauzione poiché Giove, innamoratosi della giovane donna, a lei si unisce sotto forma di pioggia d’oro, rendendola madre di Perseo.  

L’episodio è “allestito”, dal Correggio, in una stanza da letto aperta da una spaziosa luce, spalancata su un etereo e indefinito paesaggio, che rappresenta uno dei suoi rari lavori in cui la raffigurazione non sia narrata “all’aria aperta” -mostrando ugualmente convincenti sfumature di luce e naturale compiutezza- e il solo a essere del tutto disegnato in un interno domestico. Questa particolarità consente di scandire il “tratto antico” dell’immagine nella sua interezza, come esplicita la minuziosa descrizione del letto, reminiscenza reinterpretata di quel mondo greco-romano. Proprio in quell’antico  lido l’artista conduce lo spettatore, cui si svela Danae come candida Voluptas, -figlia di Cupido (Eros) e di Psiche- dove ella colta nell’atto di congiungersi, con il re degli dei, non esibisce alcuna movenza volgare, nessuna aria provocante la pervade né lei diffonde, pur se completamente opposta a qualsiasi immagine che mostri pudicitia.

Il Lomazzo, nell’ammirare l’interrotta attrattiva di quest’opera, scrive nel suo “Trattato dell’arte de la pittura, scoltura et architettura di Giovan Paolo Lomazzo milanese pittore, diviso in sette libri ne’ quali si discorre de la proportione, de’ moti, de’ colori, de’ lumi, de la prospettiva, de la pratica de la pittura, et finalmente delle istorie d’essa pittura” (1584) che “per l’eccellenza de’ lumi sono non meno meravigliosi due quadri di mano d’Antonio da Correggio … nell’altro Danae e Giove che gli piove in grembo in forma di pioggia d’oro, con Cupido et altri amori, co’ lumi talmente intesi, che tengo di sicuro che niuno altro pittore in colorire et allumare possa agguagliarli …”. Personaggio di risalto della cultura artistica italiana, della seconda metà del XVI secolo, nelle Rime (1587) ancora egli elogia la liricità plastica del Correggio con questi versi: ” Te sopr’human pittor nominar posso,/ tanto nel colorar fosti primario./ Ciò mostrar … di Danae con l’oro addosso./ … in viso gaio con amor gode de l’or c’ha nel scosso./Questi son tali, che da mortal mano/non paion pinti ma da man celeste./E in lodar, lor ogn’un s’adopra in vano./Ne meno son l’altre opre vaghe e deste,/che sono uscite dal Correggio humano./Ma fan l’altre del mondo restar meste”.

Il pittore sceglie di raffigurare, la protagonista, come una giovane poco più che adolescente, ponendo al suo fianco un “genio”, lo spirito d’amore -richiamo a Cupido, arguta felice idea del Correggio- sul cui viso, rivolto verso il cielo, è impressa una “serena vicinanza affettiva”; egli è l’intermediario celeste di questo incontro altro, sollevando con la mano sinistra il niveo lenzuolo e, con l’aperta palma di quella destra, sembra “avvertire” le aure gocce indicando il pube della fanciulla. Questa a sua volta, con lieve gesto, tiene il candido telo, delicatamente trattenuto per un istante; non esprime né paura né stupore per l’evento straordinario che sta per concretarsi, mentre le sue eburnee nude membra, così scoperte, sono percorse dai suoi quieti occhi. Sollevata da molli cuscini, un accennato sorriso accompagna il suo sguardo in un’armonia di tenui seni, di ventre adagiato, di aperte gambe che stanno per essere, completamente, “liberate” dal panno. L’azione scenica viene assolta per mezzo di un sapiente dosaggio dei colori limpidi, che sui tessuti stesi sul talamo accrescono il suo perlaceo colorito. Tutto canta alla letizia e alla tenue, delicata gaiezza che scaturisce da una sottile profondità psicologica, la quale vuole Danae attiva spettatrice del suo stesso snudare e nel contempo dilettata ammiratrice, forse un po’stupita, del suo morbido corpo. Ignara della presenza dello spettatore (che si pone innanzi alla tela), sorride appena tra sé e sé accingendosi ad accogliere il signore di tutti gli dei, tanto vicino all’osservatore medesimo da essere segretamente percepito nella sua intimità. I capelli della mitologica principessa, come li abbiamo già ammirati, sono ordinati entro boccoli ma non rigidamente, anzi cadono con soave naturalezza giù dalla nuca posandosi sulla spalla destra: ella è veramente viva e non apparenza immaginata.

L’intera atmosfera si rivela incantevole, serena, piena di nitido tepore, che la presenza, non ovvia, dei due amorini amplia, i quali, citando ancora il Vasari: ” … che de le saette facevano prova su una pietra, quelle d’oro e di piombo, lavorati con bello artificio …”.  Essi ritraggono una colta citazione del pittore, rivolto all’episodio di Apollo e Dafne incluso nelle Metamorfosi di Ovidio, ove, per volontà di Cupido, è consegnato al dardo d’oro il suscitare dell’amore e a quello di piombo il rifuggire di questo sentimento. Fine dicotomia effigiata dalla seria laboriosità dei due amorini, interamente presi dalla loro “prova” esercitata su una “lavagnetta” di ardesia, resi, molto gradevolmente, indifferenti allo stupefacente accadimento in atto alle loro spalle.

Il gioco dei putti è un tratto particolare nella maggioranza delle opere correggiane, di carattere mitologico, mutuato dalla tradizione antica, ben visibile e sviluppato in modo autonomo; i fanciulli sono raffigurati in diverse pratiche, con il visetto tondo e serio, il piccolo naso, l’ampia fronte, i riccioli dorati, tratti fisionomici ricorrenti e confermati nel “nostro” quadro, in cui la spontaneità espressiva e gestuale risalta da quell’angolo estremo inferiore, così posti a chiusura della tela per evidenziare la continuità spazio-temporale dentro e davanti alla scena dipinta.

L’intatto fascino della Danae scorre negli animi delle generazioni artistiche e non solo, attrattiva sgorgata da quella cifra stilistica che Anton Raphal Mengs, uno dei maggiori riformatori della pittura in gusto neoclassico, esalta con questa frase: ”niuno, se non è Michelangelo seppe al pari di Correggio la scienza delle forme e la costruzione della forma umana".


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