Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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giovedì 10 dicembre 2015

Il prospetto della Chiesa di S. Maria Maddalena in Campo Marzio nelle espressioni architettoniche della Roma del Settecento


Nel XVIII secolo il tessuto urbanistico romano conferma il suo costante alternarsi di masse, di brani antichi e di periodi successivi, inglobati in chiese, in palazzi e in edifici diversi, che esplicano la forte presenza, secolare, di famiglie nobiliari o la particolare funzione di rappresentanza dell’amministrazione pontificia. Inoltre, pulsano conventi di remota origine ove si evidenzia un profondo legame con la quotidianità cittadina, viuzze irregolari s’intrecciano sino a sboccare in veri “momenti di sorpresa”, come lo sono le grandi piazze adornate altresì da squillanti fontane e ancora imbattersi in costruzioni gentilizie su cui si addossano umili dimore, casupole.
 
Durante quest’epoca l’attività edilizia, però, inizia il tentativo di tradurre, in realtà, un’idea di omogeneità urbana, anche attraverso un “nuovo” tipo di edificio sostanziato dal palazzo di affitto, il quale benché formato da più piani, destinato a ospitare una nascente “piccola borghesia”, si presenta con una facciata elegante, che, talvolta, richiama in scala minore certi elementi architettonici di illustri dimore. I notevolissimi lavori urbanistici, intrapresi dall’ultimo trentennio del XVI secolo in poi, sembrano non trovare riscontro nei progetti architettonici, anche se, ad esempio, la realizzazione del porto di Ripetta (1705), della scalinata di Piazza di Spagna (1723) e della fontana di Trevi (iniziata nel 1732 da Nicola Salvi, terminata nel 1762 da Giuseppe Pannini) in qualche modo asseriscono una sorta di continuità, con quell’immaginoso apparato monumentale creato precedentemente, divenendo le ultime due edificazioni modelli d’innovazione – come sappiamo la prima è distrutta per “far posto” agli argini in muratura del Tevere- di spazi urbani tanto da inserirsi  tra gli emblemi indifferibili di Roma. 
 
La consistente costruzione dei palazzi gentilizi cospicuamente diminuisce, per le generalmente, apparenti, minori risorse economiche disponibili dalle famiglie aristocratiche e, principalmente, da quelle imparentate con i pontefici, in conseguenza della abolizione del “sistema nepotista”, sancita da Innocenzo XII (1691-1700), con la bolla “Romanum decet Pontificem” promulgata nel 1692, con la quale si nega la ripetuta e “regolare” concessione di cariche, di uffici, di beni di qualsiasi natura della Chiesa a parenti -per lo più ecclesiastici- del papa, che una pratica secolare ampiamente riconosce loro, salvo eccezioni, fino a quel momento. Soltanto due notevoli espressioni architettoniche di “famiglie pontificie” sorgeranno nel corso di questo secolo: Palazzo Corsini, originato dall’ampliamento e dalla trasformazione monumentale -compiuto da Ferdinando Fuga (1736-1755) per i familiari di Clemente XII (1730-1740)-, di un nucleo abitativo principesco del XVI secolo sorto per volontà del cardinale Raffaele Riario; Palazzo Braschi (1791) progettato da Cosimo Morelli, commissionato da Pio VI (1775-1799) che lo dona a suo nipote, il duca Luigi Braschi Onesti.
 
Una nuova atmosfera culturale però si accinge a prevalere in Roma, da quella prestigiosa collezione di antichità, ospitata a Villa Albani eretta da Carlo Marchionni (1747-1758, definitivamente completata nel 1763) per il cardinale Alessandro Albani, nipote di Clemente XI (1700-1721), pontefice che reintroduce una variante, sebbene moderata, del nepotismo, soprattutto nei confronti della sua città natia, Urbino. Tale residenza cardinalizia, dunque, può essere considerata uno degli epicentri da cui si diffonde un’altra sensibilità antiquaria, marcando il passaggio tra il Rococò e il Neoclassicismo, attraverso gli studi di Johann Joachim Winckelmann, che vi può compiere i suoi studi rivolti all’eredità artistica dell’antica Grecia, tramite le copie romane collezionate dal porporato. Contemporaneamente nasce una nuova concezione espositiva delle opere d’arte, trasformando ambienti di raccolta di reperti antichi in musei pubblici, ove tutelare quelle illustri testimonianze “ataviche”, promovendone le approfondite indagini e i processi cognitivi, filologici. Da questa nuova idea organizzativa deriva il Museo Pio-Clementino (1771) dal nome dei suoi fondatori, Clemente XIV (1769-1774) e il già citato Pio VI, i quali arricchiscono la raccolta di sculture, greche e romane, già esistenti e conservate in ambienti rinascimentali, che sono perciò modificati e congiunti a quelli nuovi di stigma neoclassico. In sostanza, inizia quel percorso museale giunto sino alla nostra epoca, formato da una rappresentativa sequenza di ampie sale e di imponenti scaloni, quasi un lascito dell’ultima dimostrazione di Roma, quale centro culturale artistico dell’Europa. Nella “Città Eterna” si sviluppano pienamente le fantasie architettoniche di Giovanni Battista Piranesi impresse nelle sue incisioni; egli interpreta l’antico definendosi, per un certo periodo della sua esistenza, “soltanto un architetto”, eseguendo, in tale ambito professionale, i lavori di sistemazione della piazza antistante alla Chiesa di S. Maria del Priorato, notevolissimo esempio di “microurbanistica” neoclassica, del giardino della Chiesa stessa e il complesso “abbellimento” della sua facciata e dell’interno (1764-1766), in cui coniuga temi della classicità e motivi iconografici evocanti alcuni aspetti della committenza; la navata e gli spazi circostanti esprimono un linguaggio singolarmente settecentesco, dai tratti neoclassici però uniti a una netta rilettura borrominiana. Questo tipo di derivazione tardo barocca si presenta altresì nelle facciate di Palazzo Doria Pamphilj, vale a dire sia in quella che prospetta su Via del Corso, realizzata da Gabriele Valvassori (1731-1734), sia nell’ala ad appartamenti eretta, su Via del Plebiscito, da Paolo Ameli (1739-1744), ambedue realizzate durante l’opera di ingrandimento dell’edificio.
 
La maestria architettonica, che adotta una coesione armoniosamente concepita di superfici curve, la quale rimanda a un gusto, attenuato, borrominiano, definisce un “valore culturale”, detto borromismo, caratterizzante il Rococò romano e perciò presente in molti lavori della prima metà del Settecento, con alcune isolate successive -come abbiamo osservato- propaggini.
 
Il Rococò si manifesta termine di origine francese, rocaille (roccia), adottato alla fine del XVII secolo in Francia e successivamente in Europa, per indicare una decorazione ornamentale bizzarra, che riproduce grotte al cui interno si inseriscono stalattiti, conchiglie, rabeschi e dunque motivi geometrici o vegetali molto stilizzati, grotteschi e così via; nei primi anni del XVIII secolo, questa tipologia di ornamentazione, è utilizzata per gli oggetti di arredamento. Acquisita fama quale moda, si imputa -perciò con senso negativo- questo vocabolo alla fase successiva al Barocco, acquistando solamente sullo scorcio del XIX secolo il significato di stile architettonico, di profondo carattere decorativo, contraddistinto da un verso compositivo espresso con abile leggerezza e con luminosità delicata, “galante”, raffinata, che rifugge dall’imponenza barocca rappresentata da quella “prosa” plastica, descritta in un passo del mio post  Il manifestarsi del Barocco (5 maggio 2015), che di seguito riprendo. Esso - il Barocco, per l'appunto- rappresenta un prodigioso insieme di forme levitanti, irregolari e complesse, di chiare linee sinuose e schiuse, di grandiosità in movimento, di artifici luministici, di scenografie di estrema e stupefacente ingegnosità, di ambientazioni sfarzose, di varietà e di ricchezza dei materiali, di maestosi e concitati contrasti chiaroscurali, di pittoriche vibrazioni esaltanti il pathos dei personaggi. Il Rococò, nonostante l’aspetto formale ne sottolinei l’interdipendenza tra i due “movimenti”, per la sua quintessenza attesta un piano di originali fragili variazioni decorative inerenti al primo, sul modulo sinuoso della rocaille, creando opere pregne di raffinatezza, di giocondità, comparendo tra le più gradevoli eleganze formali artistiche.
 
In questo ampio quadro evolutivo del gusto estetico, l’innalzamento di grandi chiese si dirada nel tempo, costituendo quasi delle singolarità il voler ricostruire, ad esempio, la Basilica minore dei SS. XII Apostoli e quella di S. Apollinare alle Terme Neroniane Alessandrine. Al contrario si amplia maggiormente, negli spazi perimetrali di Roma, la presenza di piccole chiese appartenenti sia a ordini religiosi, nati in seguito alla vasta azione determinata, a suo tempo, dalla Controriforma, sia a confraternite. Inoltre, si pone in atto una sorta di “modernizzazione” dei luoghi di culto già esistenti, come la facciata principale della Basilica di S. Maria Maggiore (1743-1750) eseguita dal Fuga, che su un registro classicista inserisce una ornamentazione barocca, ricca di “effetti luministici” ben visibili nel contrappunto tra i quattro timpani, nell’evocazione del moto ondulato, che evidenzia la convessità del timpano centrale ricurvo e la concavità degli ornamenti laterali. Questo specifico fervore edilizio è testimoniato dai prospetti, citandone alcuni, di S. Paolo alla Regola, detto anche S. Paolino per le sue ridotte dimensioni, disegnato da Giacomo Cioli (sua la parte inferiore) e completato da Giuseppe Sardi (1721), dei SS. Celso e Giuliano, Chiesa interamente ricostruita dal 1733 al 1740 su progetto di Carlo De Dominicis, come quella dei SS. Marcellino e Pietro al Laterano dalla facciata di Girolamo Theodoli (1751) prossima a un nitore neoclassico ma caratterizzata dalla peculiare cupola a gradoni borrominiana. Il sistematico esame di tali opere appalesa la reinterpretazione architettonica, intimamente radicata nel Rococò romano, secondo la variante del borromismo, concepito in modo disomogeneo.
 
Pone in scena, la Chiesa di S. Maria Maddalena in Campo Marzio, la massima espressione del repertorio rocaille nella “Città Eterna”, segnatamente riguardo al prospetto e alla sacrestia. Essa rappresenta, dalle notizie storiche a noi giunte, il più remoto luogo di culto dedicato a questa Santa. Invero, già agli inizi del XIV secolo Ella è titolare di una frequentatissima cappella, parte di un ospizio (dove finiscono la loro vita la maggior parte dei miseri) della fratèrnita della Beata Maria Maddalena dei Battuti secondo lo statuto dei Disciplinati, che praticano la penitenza attraverso l’autoflagellazione e l’invocazione del perdono divino, per tutta la comunità, mediante l’intercessione di quella, umile, testimone del trionfo di Gesù Cristo sulla morte. Personaggio dai contorni multiformi, in base alle voci tradizionali, la “Maddalena” vive per trenta anni in un desolato antro come penitente, in costante preghiera fra lacrime e lunghi digiuni.
 
In seguito quel sodalizio religioso si trasforma nella Confraternita dei Raccomandati (alla Vergine) del Gonfalone (stendardo vittorioso), che interviene sulla riedificazione dell’edificio, al quale si dà forma di reale Chiesa, ponendola al centro della primitiva piccola piazza (seconda metà XV secolo); essa viene disegnata con sviluppo rettangolare e unica navata, subendo in seguito, come si ipotizza, alcune modifiche (metà XVI secolo). Nel 1586 è concessa a S. Camillo de Lellis, il quale vi stabilisce la Casa Madre dell’Ordine dei Ministri degli Infermi, che ha istituito nel 1582. Ordinato sacerdote nel 1584, in questo nuovo ambiente accordadogli può celebrare la Messa, organizzare al meglio la sua Compagnia trasfondendole maggiore vigore, poiché chiamata ad assistere e servire i malati pur a rischio della propria vita. La sua fama si espande sino a essere quasi venerato in vita e grande risonanza suscita la sua morte, avvenuta il 14 luglio 1614; sarà proclamato santo nel 1746.
 
Nel 1628 Urbano VIII (1623-1644), a seguito della richiesta dei Padri Camilliani (come in epoca moderna sono chiamati), autorizza loro a “far piazza davanti alla lor Chiesa et ampliare essa Chiesa e loro habitazione”. In una raccolta di documenti formulati tra la fine del XVII e gli inizi del XVIII secolo, si legge: ”detta piazza e fatta che fosse immune da ogni impedimento di fabriche, ringhiere, scalini, colonne, da venditori di robbe, immondezze et altro … si mantenghi perpetuamente vacua, libera e netta per maggiore ornamento della Città …”. Questo spazio cittadino, in cui i Ministri degli Infermi sono proprietari di un palazzo prospiciente al loro luogo cultuale, inizia a essere ampliato dal 1629, premessa edilizia al proposito di ingrandire la Chiesa, adeguandola all’importanza assunta dall’Ordine religioso. I lavori, condotti da Giacomo Mola –oggi difficilmente identificabili- iniziano intorno al 1640 e vengono sospesi nel 1642, mentre riguardo al Convento si interrompono nel 1649. Il progetto, della “nuova fabbrica”, è ripreso nel 1659 per volontà di Alessandro VII (1655-1667) e affidato sino al 1661 a Giovan Francesco Grimaldi ma anche nel suo caso, attualmente, è impossibile attribuire alcuna parte della costruzione. Bisogna aspettare il 1673 per aver certezza documentata della fattiva trasformazione della Chiesa, quando l’incarico di proseguire quegli abbozzi di rifacimento viene assegnato a Carlo Fontana, già collaboratore del Bernini. Egli crea la cupola, coperta da un tetto a falde -costituito da elementi piani inclinati- sormontato dalla lanterna, determina la forma del transetto e della crociera ed erige la prima cappella di sinistra. La ricostruzione è interrotta antecedentemente al 1684, per essere ripresa, alla fine del 1694, da Giovanni Antonio De Rossi (che muore nel 1695), il cui intervento è subordinato alle parti della Chiesa già compiute dal Fontana, definendo però, in larga misura, il disegno di tutto il restante impianto. I Padri Camilliani lo indicano, in un documento del 18 giugno 1695 (datato poco prima della sua morte avvenuta il 9 ottobre di quell’anno), “nostro architetto” ed è, per noi, curioso apprendere la natura del compenso “erogatogli”, evidentemente durante i lavori: ” … dato al Sig. Gio. Antonio de Rossi … scudi 15 … nove fiaschi di vino, una cassetta di pasta di Sicilia, 6 mortadelle et un prosciutto per rigalo e fatiche sue e dei suoi giovani”. Al De Rossi succede Giulio Carlo Quadri, il quale controfirma numerosissime fatture tra il 1696 e il 1699 in seguito alle sue incalzanti azioni edili –nelle quali è presente Francesco Felice Pozzoni, già allievo del De Rossi-, apportanti qualche lieve modifica al progetto del precedente artista. Nel 1699, dunque, la nuova Chiesa, nella sua struttura, è pressoché ultimata, mancando le sovrastrutture marmoree, le dorature e simili, lavori di completamento proseguiti poco oltre la prima metà del secolo seguente. La consacrazione del nuovo tempio avviene il 4 maggio 1727, mentre l’intervento edilizio prosegue estendendosi all’intero circostante isolato, terminando nel 1739 con la costruzione di un palazzo a uso abitativo, progettato da Francesco Rosa, in Via del Collegio Capranica.
 
Un primo riferimento, all’odierno prospetto, è contenuto in una nota del 16 settembre 1696, ove è riportata una “ricognizione” del Quadri di “diversi disegni”; una serie di ipotesi avvalorate da testimonianze scritte conducono a ritenere che, Giuseppe Sardi -autodidatta, condotto alla maturazione artistica dalla sua esperienza come capomastro nei cantieri-, considerato l’autore della facciata, trovandola ancora allo stato “grezzo”, l’abbia, nel 1735, completata definitivamente in maniera fondamentale. Altri nomi, talvolta, sono citati riguardo a questa realizzazione, che appaiono supposizioni estranee al chiaro tratto stilistico di questa opera, riconducibile, per l’appunto, al Sardi, specialmente se si confronta con le sue realizzazioni romane antecedenti a questa: il battistero della Basilica di S. Lorenzo in Lucina (1721), con la caratteristica cupola che rivela le tematiche derivanti dal linguaggio borrominiano; il prospetto superiore, della già citata Chiesa di S. Paolo alla Regola, movimentato dal tenue tono concavo e convesso (1721).
 
La facciata della “Maddalena” terminata quindi dal Sardi è, come abbiamo già osservato, il rilucente esempio del Rococò in Roma, delineato da un andamento continuo concavo, propagato su due sezioni, impreziosite ciascuna da due nicchie laterali, da statue e da un complesso di elementi decorativi di stucco, compresi in un insieme che dissigilla uno schietto patrimonio di sensitività artistica, in grado di ripartire idoneamente l’organizzazione spaziale.  La linea concava risalta grazie alla aerea sporgenza, gli strombi incornicianti il portone d’ingresso, con le loro sagome prospettiche, accentano gli effetti chiaroscurali dell’organismo diviso in due parti con simile altezza. La prima poggia su un alto zoccolo ed è diviso da due colonne sistemate ai fianchi del portale, dialoganti con due nicchie ai cui lati esterni s’innalza una parasta. La seconda, caratterizzata dalla demarcazione di quattro paraste, che sembrano il corteggio della grande luce centrale, estende gli altri componenti architettonici in una superficie molto articolata. Alla sommità il prospetto è concluso da uno svettante arco (singolare timpano), in cui è innestato il motivo “borrominiano” del semicatino, sormontato da due segmenti incurvati, in dialettico contrasto con la diversa forma del bellissimo, ornato, frontone spezzato, dalla cornice arretrata nella parte centrale; l’attico a lacunari al di sopra delle cornici orizzontali -spezzate anch’esse, risolutamente aggettanti, chiaroscurate, flesse ad angolo acuto- “supereleva” il secondo ordine cogliendo la corsa, dello zoccolo, di quello sottostante; le paraste pressoché mancanti di rilievo distaccano la fronte dell’edificio; i nutriti “inserti” ornamentali possiedono una, artificiale, sintassi delle immagini e dei volumi, tanto piena da imporsi sulla conformazione architettonica. L’intera superficie, così ricca di “immagini” di diversa natura artistica, è formata da mattoni a intonaco - escludendo il basamento e il rocchio inferiore delle colonne in travertino-, mentre per le decorazioni viene utilizzato lo stucco. Nelle nicchie (evidenziate da timpani decorati a rilievo) sono “alloggiate”, in basso, le statue di S. Camillo e di S. Filippo Neri (attribuite a Paolo Campana), in alto quelle di S. Maria Maddalena e di S. Marta (di Joseph Canard), tutte di discreta fattura scultorea.
 
 
Nel Settecento scompare, nelle arti figurative e architettoniche, la figura del genio assoluto e quindi dell’incomparabilità dello stile, soddisfatto dal gigantismo creato da chi intuisce la “verità”, l’essenza intrinseca della realtà come unica ma diversificata sostanza. Questo secolo riverbererà, in tale ambito, la norma cogente della “buona educazione”, riconosciuta nell’uniformità interposta tra la delicatezza e la “nuova” sapienza; con quel criterio si “acquista” la qualità della raffinatezza, in cui l’essenza, il fondamento della cultura sembra possedervi la propria brillante sede.   



 

 

  

 

sabato 14 novembre 2015

La musicalità dell’interno della Chiesa di S. Maria in Portico in Campitelli


Tra le gemme artistiche che profondamente asseriscono l’unicità di Roma, quella che si concreta nell’appartata magnificenza di S. Maria in Portico in Campitelli, possiede una singolare monumentalità, che dal prospetto, con poderosa eufonia, avanza sino all’aureo tabernacolo dell’altare maggiore, ove la ieratica icona della Vergine con il Bambino troneggia, confermando il solenne titolo di “Romanae Portus Securitatis” (Porto della Romana Sicurezza), suggellato da papa Alessandro VII nel 1665. Carlo Rainaldi (1611-1691) è artefice di tutto l’organismo architettonico, sebbene assistito da Giovanni Antonio De Rossi (1616-1695), il quale altresì riporta graficamente il progetto di questa magnifica “macchina” -che custodisce quella venerata immagine-, derivata da una prima elaborazione dello stesso Rainaldi, modificata attraverso un grandioso modello di Melchiorre Cafà, detto il Maltese (1635-1667), probabilmente eseguito in cera poco prima della sua precoce morte.  
 
Se la facciata enuncia un magnificente movimento chiaroscurale, l’interno sancisce la singolarità dell’impianto già dalla sua apertura, con i suoi rastremati transetti accoglienti chi entra in questo tempio. L’impianto consiste in un’unica navata, suddivisa in due vasti ambienti, di cui il primo richiama una sorta di pianta centrale, croce greca, mentre il secondo sviluppa un particolare insieme, sospinto dall’asse longitudinale. Tale sistemazione crea un riguardevole effetto, grazie al quale lo spazio sembra affermarsi attraverso una sua insita elasticità, per la forza che, le due assi trasverse, imprimono al corpo edificato. Si materializza, perciò, un originale senso prospettico, combinato dallo sciogliersi del ferreo legame della navata con le cappelle laterali, soluzione che elimina sia una manualistica fusione, sia un rovinoso disgregamento di metodi propri dell’architettura; al contrario avviene un accostamento dei diversi elementi strutturali, ognuno dei quali, pur mantenendo una propria sintassi, si pone in intima corrispondenza con gli altri.
 
Un’armonia insolita raccorda quegli urti, quelle masse murarie diverse, quei corpi architettonici disuguali ma uniti nella complessità scelta dal Rainaldi, rivelata in questa ammirabilissima visione spaziale, dove imponenti ventiquattro colonne – numero che può rimenare dagli Anziani dell’Apocalisse assisi attorno al trono di Dio, multiplo di dodici come i figli di Giacobbe e le tribù d’Israele e altrettanto come gli Apostoli- imprimono il punto focale verso il fondo dell’edificio, in cui si erge la monumentale e sfarzosa realizzazione barocca, che riluce di bellezza abbracciando la piccola immagine della Vergine Odigitria, Colei che indica la via della salvezza: Gesù (bambino). 
 
La contrapposizione scenica tra l’apparente gelo architettonico della navata – disadorna-, la fulgidezza degli ambienti laterali e il sorprendente mosso fulgore di ciò che ospita l’altare maggiore, ci inducono a percepire una “insueta” sacralità musicale, mai atona in questa articolata struttura architettonica. Infatti, il Rainaldi è un artista intento altresì ai suoni degli strumenti, che la perfetta ripartizione acustica di tutto l’ampio sito comprova. La sua capacità dinamica deriva proprio da quella antitesi, fra la spoglia pietra della parte longitudinale e la ricca pienezza delle altre sezioni, come se una sonorità fosse alternativamente emessa con forte intensità e con tono piano, sommesso.
 
Sembra di ascoltare un efficace contrasto sonoro tra virtuosi solisti e un “tutto ripieno”, articolazione di movimenti descritti da piene successioni musicali e singole strofe predominanti nei momenti digressivi. Tale sentire, che tramuta nel sacro l’ascolto, si conferma in occasione dei concerti eseguiti in questa versatile opera d’arte, nei suoi sommi spazi divenuti partiture chiaroscurali, nei quali l’animo si scopre nella sua leggiadria -che Dio in origine ha inspirato nell’umanità-, approdando a quelle sublimi altezze, per mezzo d’intense spirali di melodie, di echi, di accenti, di pause frementi.
 
 
L'originale sistemazione architettonica vista dalla cantoria centrale
 

 

 

 

 

giovedì 22 ottobre 2015

François Duquesnoy, detto Francesco Fiammingo: la statua di S. Susanna della Chiesa di S. Maria di Loreto al Foro Traiano

 
 

La Piazza della Madonna di Loreto si rivela come una “sporgenza distintiva” di Roma, per la presenza dei resti della Basilica Ulpia con la poderosa Colonna Traiana, verso cui sembrano protendersi le Chiese del SS. Nome di Maria e della Madonna di Loreto; quest’ultima -attualmente ne sono in restauro il prospetto e la cappella del Sacro Cuore- porgendo a tale luogo il toponimo, raccoglie nel suo insieme i momenti artistici basilari del XVI e XVII secolo: il fiorito Rinascimento, il Manierismo e il Barocco.
 
Il suo aspetto, invero, è un complesso di parti distinte però corrispondenti e disposte in perfetto equilibrio espositivo tra loro, richiamando, tra gli altri, i nomi del Bramante -possibile autore del primo progetto della riedificazione della Chiesa, avvenuta tra il 1507 e il 1592 e definitivamente completata nel 1690-, di Antonio da Sangallo il Giovane, di Giacomo del Duca (detto anche Jacopo, brillante allievo di Michelangelo), di Niccolò Circignani (detto il Pomarancio), di Paolo Rossetti (artista minore dotato di una gradevole calligrafica mano), del Cavalier d’Arpino, di Gaspare De Vecchi (collaboratore del Maderno).
 
Il fulcro, di tutto l’impianto architettonico e decorativo, dimora nell’organizzazione dell’altare maggiore, opera di De Vecchi (1628-1630), mutato in alcuni componenti strutturali dal restauro condotto, tra il 1867 e il 1873, da Luca Carimini. La volta pronuncia uno studio di effetti preziosi, le pareti, abbigliate da policromi marmi, circondano di bellezza il visitatore; ogni lato sembra comporre un’intensità armoniosa che svela la bellissima pala -già appartenuta alla precedente Chiesa- realizzata alla fine del XV secolo su due tavole a fondo oro, attribuita a Marco Palmezzano (allievo di Melozzo da Forlì), raffigurante “Il Padre Eterno, lo Spirito Santo e la Madonna di Loreto con il Bambino, tra i SS. Rocco e Sebastiano”. Delle nicchie, aperte sui fianchi di questo ambiente, contengono sei statue a grandezza naturale, di cui cinque compiute tra il 1629 e il 1633: i due notevoli “Angeli” di Stefano Maderno, “S. Cecilia” di Giuliano Finelli (già allievo del Bernini), “S. Domitilla” di Domenico De Rossi (scultore e architetto nella Roma del tardo Barocco; questa sua realizzazione scultorea è posteriore rispetto alle altre), “S. Agnese” di Pompeo Ferrucci (principe dell’Accademia di S. Luca), “S. Susanna” di François Duquesnoy, opera tra le più ammirate tanto da godere, tra la prima metà del XVII secolo e la fine del XVIII secolo, di una diffusione quasi senza pari, che ne ingigantisce l’interesse verso il suo eccellente modellato.
 
Voluta anch’essa dalla Confraternita della Madonna di Loreto, come si definisce per questo suo luogo di culto la Corporazione dei Fornai (oggi Pio Sodalizio dei Fornai), la realizzazione della scultura inizia il 31 gennaio del 1630, per poi essere collocata nella nicchia della Chiesa, ove ancor oggi è posta, il 29 marzo del 1633. Questa effige della Santa, quindi, desta una sorta di fascino nei confronti di molti artisti, soprattutto di diversi paesi europei, sino a sollecitare l’attenzione dell’Accademia di Francia a Roma. Infatti, nel 1736, Nicolas Vleughels –pittore più che discreto-, direttore di tale inclito Istituto accademico, riesce nell’intento di far rimuovere, per un limitatissimo periodo, la statua per trarne una copia di gesso, da adibire come modello per la pratica artistica dei giovani capaci borsisti, protetti dai maggiori nobili francesi e nominati dal re. Assoggettati a rigidi precetti, il loro percorso di perfezionamento prevede l’esecuzione di copie di opere appartenenti all’età antica, al Rinascimento e altresì coeve, destinate a essere definitivamente esposte –quelle considerate migliori- in Francia, come accade per quella realizzata, con felice mano, da Guillaume Coustou il Giovane –scultore di enfatica cifra ma non priva di arguta grazia-, inviata a Parigi nel 1740 e messa in mostra all’Académie Royale de Peinture et de Sculpture. La statua scolpita dal Duquesnoy, quindi, è attorniata da una vistosa fama che richiama altresì componimenti grafici, spesso inseriti in diffuse raccolte; altresì sono eseguite copiose riduzioni in terracotta, una delle quali appartiene al Museo Nazionale del Palazzo di Venezia - manchevole di alcune parti-, eseguita, molto probabilmente, nella prima metà del Settecento da un artista non identificato, il cui lavoro si presenta, nella sua minima altezza di sessantatré centimetri, con il tratto plastico non pienamente fedele all’opera originale.
 
Avviciniamoci, adesso, a François Duquesnoy, detto Francesco Fiammingo (1594-1643), lo scultore che ha creato questa acclamata scultura; il suo carattere stilistico estremamente elegante, sebbene in altri suoi lavori non sia scevro da “influenze berniniane”, dà forma, attraverso il marmo di S. Susanna, all’idealizzazione di una bellezza algida, atemporale nelle intenzioni, che vuole riecheggiare un’antica eleganza, prossima ai modelli del tardo ellenismo. Questo, eloquente, appressarsi al modo artistico “classicheggiante”, già viene realizzato dal Fiammingo con i busti eseguiti nel 1627 –la cui aria di viso è congeniale a una certa impersonalità dell’impianto- e collocati nei due Monumenti funebri di John Barclay e di Bernardo Guglielmi (letterati molto vicini al cardinale Francesco Barberini); tali sepolcri sono disegnati da un altro maestro del Barocco, Pietro da Cortona, che li erige (1627-1628), scegliendo la forma “all’antica”, nella Basilica di S. Lorenzo fuori le Mura, mutando, forse, un antecedente grandioso progetto da concretizzare altrove.
 
Il nostro scultore fiammingo è tra i collaboratori del Bernini, durante una fase della magnificente decorazione della Basilica di S. Pietro (alcune sezioni scultoree del baldacchino, 1627-1628), scenario ammantato da imponenti e fastose opere, le quali intendono estrinsecare la forza di una solida e glorificata religiosità. Di questa potenza comunicativa, assecondando i propositi di papa Urbano VIII, l’acuto talento beniniano ne manifesta un’altra ricostruzione scenica, dal palese senso teologico; egli apre nei voluminosi piloni -che “sollevano” la cupola michelangiolesca- le logge che incoronano gli altari dedicati ai Santi, di cui sono conservate le reliquie (Sacra Lancia, frammenti della Croce, Sudario sul quale è impresso il Volto di Cristo, la testa di S. Andrea) a guisa di testimonianze della fede cristiana sovrana “nei e dei tempi”. Il Bernini scolpisce S. Longino affidando, su indicazione del Pontefice, ad Andrea Bolgi la statua di S. Elena, a Francesco Mochi quella della Veronica e a François Duquesnoy il marmo di S. Andrea (1629-1630). Le quattro sculture, sebbene contraddistinte dalle differenze stilistiche degli autori, combinano una coralità che sembra definire lo spazio centripeto della navata centrale intorno al baldacchino, non sfuggendo, a un attento sguardo, quanto siano presenti alcuni “accenti berniani”, per l’appunto, nella statua del Fiammingo. Infatti, la sua “accordatura” sviluppa, seppure con esiti stemperati, il tema della figurazione “eroica” dilatata nello spazio, rivelando una controllata tensione emotiva nell’Apostolo scolpito, un calibrato impulso spirituale che interpreta il compiersi delle virtù immesse nell’uomo da Dio. Ancora la poetica barocca, in questo artista, traspare nelle impaginazioni berniniane incise nei due cenotafi dei nobili Adrien Vryburch (1629) e Ferdinand van den Eynde (1633-1640), nella Chiesa di S. Maria dell’Anima, dei quali la minuziosa elaborazione s’infittisce attraverso i gesti turbati, agitati dei putti reggicortina, soprattutto nel secondo monumento sepolcrale.
 
Posiamo, ora, nuovamente gli occhi sulla statua di S. Susanna, la quale, invece, traluce una tangibile matura reminiscenza dell’antichità, un ellenismo che desta però una sorta di “soggiogamento artistico”, un atto creativo racchiuso nell’antiquaria, sebbene trasmetta una fine capacità di lettura di quegli aulici testi, padroneggiando magistralmente l’esercizio plastico, fondato su una compostezza classica, sulla prospettiva di un rinnovellato ideale che genera una figurata metafora, unita all’età antica, modello di perfezione ripetuto quale stereotipo. L’opera si trova a destra dell’altare maggiore, indicato dalla Santa con la mano sinistra tesa in avanti, posa che “muove” un poco il personaggio, altrimenti espresso in modo alquanto statico; i suoi occhi bianchi –lo sguardo fisso- sono rivolti verso un indeterminato infinito, distante da qualsiasi artificio sentimentalistico, assenza questa che però fa sorgere, nella scultura, una soffusa vena poetica, quasi contraddicendo la formula iconica, che la vorrebbe ristretta in un’accademica entità ideatoria. Il suo viso ben illuminato, pur se comune, suscita un lieve senso di piacere estetico, come se una nascosta fonte luminosa splendesse su di esso, contrapponendosi alla fredda ombra del materiale marmoreo; l‘ampio panneggio è scolpito in nitida, netta forma e la statua emana una sensazione di nobile studio, capace anche d’interpretare un pacato, etereo riverbero spirituale.

 

 


 

 

 

 


sabato 26 settembre 2015

Chiesa di S. Ignazio di Loyola in Campo Marzio (cenni su Antonio Pozzo): l’affresco della “Annunciazione” della Sacrestia

La Chiesa di S. Ignazio di Loyola in Campo Marzio si manifesta quale uno dei più maestosi esempi di architettura barocca, come conferma la sua grandiosa facciata e il suo sontuoso interno, le cui forme sono opera del gesuita Orazio Grassi (1583-1654) –architetto e matematico-, prefetto della Fabbrica dal 1627 al 1633, al quale subentra un suo collaboratore, Antonio Sasso, anch’egli padre gesuita, che modifica, parzialmente, il prospetto.

Questo luogo di culto rende, però, testimonianza delle elevatissime capacità artistiche di un altro gesuita, Andrea Pozzo (1642-1709), pittore e architetto. Infatti, quest’ultimo è l’autore della stupefacente “Entratura di S. Ignazio in Paradiso”, sua opera maestra, che decora la volta della navata, disserrando con la sua felice fantasia compositiva il senso assoluto, d’incommensurabile profondità, dell’etere sotto al quale (nelle imposte) sono raffigurate le“Quattro parti del mondo” che, profondamente toccate dalla fede cristiana conosciuta per mezzo delle incisive predicazioni gesuitiche, “stanno in atto di gettare da sé i deformissimi mostri o d’idolatria o di eresia o di altri vizi”, come ci indica lo stesso Pozzo. Pur la finta “Cupola” è suo capolavoro d’illusionismo prospettico, il quale diffonde nell’aria la “meraviglia” del Barocco, sigillando con estro l’imponente fastosità di tutto l’enorme spazio, ove anche il catino dell’abside (Gloria di S. Ignazio), la volta del presbiterio (Scene della vita di S. Ignazio) e quella del braccio destro del transetto (S. Luigi Gonzaga) celebrano la felicissima vena di questo maestro, che sembra concludere il suo ciclo pittorico, in tali vastissimi ambienti, nelle quattro superfici limitate dei pennacchi della sua cupola (David, Giuditta, Sansone, Giaele), levati tra le alte e possenti spinte delle arcate. Dal suo lavoro magistrale risaltano le interpretazioni dell’opera sia del Borromini –attraverso l’aspetto pittorico-, per la ricerca dei contrasti di luci geometriche, assimilati mediante differenti grandezze cromatiche, in un avvicendamento di spazi cangianti, speculari a nervature architettoniche portanti, sia del Bernini, per la resa monumentale dei ricchissimi altari dei due bracci del transetto: quello di “S. Luigi Gonzaga”, che riluce nella parte destra (pala marmorea di Pierre Le Gros, il Giovane), quello della “Annunziata” nel braccio sinistro della crociera (pala marmorea di Filippo Valle). L’artista trentino, dunque, in queste due creazioni architettoniche si rivolge al genio beniniano, realizzando una massa scenografica enunciante quella libertà compositiva, che sfugge tuttavia la ridondanza anonima per definire un singolare movimento aereo, morbido.

Oltre queste –ed altre- sfavillanti somme di pieni elementi artistici, appartata rimane la notevole Sacrestia, ritmata da preziose fughe ebanistiche, le quali sembrano incorniciare la volta e le lunette affrescate da un altro gesuita, Pierre De Lattre (1606-1683), mentre l’altare (di origine cinquecentesca), la cui ancona è dipinta dalla stessa mano, dal fondo della parete trasversale in alto sospinge il raggio visivo, con sottile modo prospettico. Di questo pittore, indubbiamente, “minore” sono visibili due opere nella medesima Chiesa nella navata sinistra: S. Gregorio Magno (prima cappella), SS. Francesco Saverio e Francesco Borgia (seconda cappella).

Tutto lo spazio occupato da questo locale, così funzionale alle celebrazioni liturgiche, è decorato dall’artista fiammingo, il quale nelle “lunette trasversali” dipinge -differentemente a quanto dipinto nelle altre parti di questo riservato ambiente (Storie di S. Ignazio)- due altri temi: “Riposo durante la Fuga in Egitto” e “Annunciazione”. Quest’ultimo, secondo confermati studi, riproduce, parzialmente, un affresco di Federico Zuccari (1540, circa-1609), già esistente nella Chiesa dell’Annunziata, edificata tra il 1562 e il 1567, annessa al primo Collegio Romano, demolita nel 1626, poiché divenuta non idonea a contenere, nelle frequenti funzioni religiose, il gran numero di studenti del medesimo Collegio, nel frattempo ingrandito (1581-1584). Se la necessità di innalzare un tempio adeguato al corpus studentesco, costituisce la causa decisiva della nuova costruzione, non si deve escludere, contemporaneamente, la volontà di erigere un monumento, di grande “tangibilità”, che concreti quel sentimento di universalità, quindi cattolico, espresso con nuova ricchezza, sgorgata da contrappunti di luce e di penombre, di audaci sinfonie plastiche e architettoniche e di quiete armonie.

Sulle dilettevoli sponde della quietezza ci accompagna “Fratel” Pierre De Lattre, riproponendo quel disegno che, secondo lo Zuccari, si origina nella mente dell’artista come reale ispirazione divina, distinto quindi da quella capacità tecnica che, invece, lo esteriorizza in un contesto ben determinato.
Potremmo tentare di descrivere questa teoria, dell’artista marchigiano, espressa nel suo più importante trattato” L’Idea de’Pittori, Scultori et Architetti” (1607) –“humus” altresì dell’affresco della “Annunciazione” - come il manifestarsi di un moto fluente, spiegato verso la bellezza tanto alta e dall’arte risolta. Moto che svela il linguaggio distinto dal noto, ove l’intelletto è verso di soffio vitale, in quella riva mentale da cui i pensieri s’innalzano d’universo, di mistero. Ricerca, perciò, di quella consonanza intuita tra l’uomo e quel tutto che lo cinge, attraversando lo stato di un interiore squarcio di quella densa coltre, apparente e inscrutabile verità, che lo divide dalla profonda natura divina in lui pulsante. Suscitare quell’innato affetto volto all’infinitezza, che svelle nel petto quella stantia dimora, eretta dall’usualità, attraverso una costa meditativa, sino ad abbracciare, in un vuoto pieno, l’eternità che infrange il tempo. E in tale prospetto si mostra il tratto, con luce, con diafane ali, in quell’empireo quale riva primigenia dell’uomo, luogo esplicito del nume (presenza e volontà divina). L’unicità di questa alterità rimane sospesa, fintanto l’ingegno dà forma a un flutto, che sospinge l’artista all’unità con l’altro se stesso, astraendolo, in quell’istante creativo, dal suo divenire quotidiano, per respirare oltre il cardine dell’esperienza trita, nella visibilità della sua colorata solitudine. Ecco la grazia e la vaghezza, non più distanti dall’umanità, che il talento sprigiona permettendo agli occhi la visione dell’incanto; alveo di viva impressione e di tenera commozione, d’inventiva, di levità e di gaudio.

Certamente il De Lattre della “Annunciazione” ne ripresenta un’impaginazione quasi fedele a quella originale, tale da apparire in un’eccellente resa pressoché “scolastica”, sebbene non avulsa da una certa personale ricerca accurata e dettagliata dei particolari. Invero, la struttura narrativa, dal carattere naturalistico, viene espressa con brillante verso descrittivo, in cui la pittura non rinuncia a evidenziare un’intima partecipazione dell’autore; raffigurazione che, perciò, dona una certa freschezza e una soavità abile ad attrarre lo spettatore, con la -quasi- spontaneità degli atteggiamenti dei personaggi, accostevoli per gli sguardi di chi li osserva. La preziosa leggerezza delle gamme cromatiche, così ariose e, insieme, elaborate e un’ottima impostazione delle figure nello spazio, compongono la scena nella quale diviene tangibile l’immaterialità della fede.

La sostanza iconografica di tale affresco corrisponde a quella funzione esplicativa, teologale, originata dal Concilio di Trento (1545-1563), secondo il quale l’artista deve rendere la sua opera altresì idonea ad insegnare; a questa esigenza si rimodella, generalmente, l’espressione plastica che ne risalta la vena intensa, emozionale. Il nostro affresco realizzato, originariamente, dallo Zuccari intorno al 1591 dà forma –mantenendo, come in tutti i suoi lavori, una certa indipendenza stilistica- a questa temperie con somma eleganza, con adesione, originale, a valori formali prefissati.
Nel copiarlo il pittore fiammingo ne reimposta l’insieme degli elementi figurativi, con alcune sue suggestioni che ne esplicitano le doti coloristiche tenui e il tocco chiaro ed euritmico, affrontando in modo sapientemente didascalico –si tratta pur sempre di un religioso, che agisce in un periodo di glorificazione della Cattolicità attraverso l’enfatizzazione dell'apostolato gesuitico- il tema del peccato e del Verbo incarnato per la redenzione degli uomini tutti. Infatti, la scena dell’annuncio del concepimento verginale è inserita tra le figure di Eva presa dal convincimento del serpente (al lato dell’arcangelo Gabriele, sospeso su una radente e candida nube) e di Adamo dormiente (al lato di Maria in raccolta posa).

Viene effigiata, dunque, l’antitesi tra la Vergine ed Eva, contrapposizione che scaturisce da quella tra Cristo Gesù e Adamo, come afferma S. Paolo.”Poiché per mezzo di un uomo venne la morte, così anche per mezzo di un uomo verrà la resurrezione dai morti. Poiché come tutti muoiono in Adamo, così anche in Cristo saranno tutti vivificati” (I Lettera ai Corinzi, capitolo 15, versetti 21-22). La simmetria fra Cristo e Adamo ha condotto, nel corso della storia del Cristianesimo, a quello tra Maria ed Eva progenitrice definita “la madre di tutti i viventi” (Genesi, capitolo 3, versetto 20), attribuzione che viene definitivamente identificata con la nuova Eva, la Vergine, madre del nuovo Adamo, Gesù Cristo, assimilazione argomentata in particolar modo da S. Ireneo di Lione (130, circa-202, circa), che nel suo testo “Adversus Haereses” (Contro le Eresie), afferma che “come Eva, la quale, … avendo come marito Adamo... disobbedendo divenne causa di morte per sé e per tutto il genere umano, allo stesso modo Maria … obbedendo divenne causa di salvezza per sé e per l'intero genere umano... Così dunque il processo della disobbedienza di Eva trovò la soluzione grazie all’obbedienza di Maria. Ciò che Eva aveva legato a causa della sua incredulità, Maria lo ha sciolto mediante la sua fede”. Tale concetto è strettamente connesso, dunque, a quello della riconducibilità di “tutte le cose” in Cristo, fondamento della salvezza divina, che annienta il peccato e il suo portato, la definitiva morte, introdotti della disobbedienza di Adamo, ristabilendo l’immagine di Dio dell’umanità, guastata da quella primitiva trasgressione. L’obbedienza al Padre, del nuovo Adamo, compensa pienamente l’improbo comportamento del primo Adamo; l’azione redentrice non può che comprendere la Vergine, poiché con il suo cosciente spontaneo candore distrugge, accettando immediatamente il piano di Dio –azione positiva-, la superbia e l’astuzia del serpente, diversamente da Eva irretita –azione negativa- dalla tremenda furbizia di quel rettile: ” Come Eva fu sedotta dalla parola dell'angelo (decaduto) al punto di fuggire davanti a Dio, avendo trasgredito la sua parola, così Maria ricevette il lieto annuncio per mezzo della parola dell'angelo, cosicché, obbedendo alla sua parola, portò Dio dentro di sé. E come quella si lasciò sedurre fino a disobbedire a Dio, così questa si lasciò persuadere in modo da obbedire a Dio”. La sua obbediente risposta, colma di fede, alla parola dell’Eterno è causa di salvezza; dal suo seno inizia la presenza tra gli uomini del Messia, che si è affermata sul mondo: “il peccato del primo uomo fu riparato dalla retta condotta del Figlio primogenito (di Dio); … la scaltrezza del serpente fu vinta dalla semplicità della colomba (Maria)… sono stati spezzati i legami che ci tenevano vincolati alla morte”.

Il dipinto, che stiamo osservando, vuole porre in rilievo queste conclusioni e perciò Eva, viene volutamente raffigurata sul lato opposto alla Vergine, sottolineando un frastagliato parallelismo comprendente atti contrapposti tra somiglianza e differenza, rovina dell’ordine divino e suo ristabilimento: Serpente (Satana)-Eva-(dunque) Adamo (intimo legame tra la donna e l’uomo)-Angelo (azione diretta di Dio nella storia dell’uomo)-Maria (concepimento di Cristo, Verbum  e Vero Uomo). L’antinomia ritratta delle due figure femminili restituisce, alla nostra vista, il loro atteggiamento: Eva accoglie nel suo animo la voce di Satana, Maria offre tutta se stessa alla volontà di Dio.



 





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Annunciazione (visione d'insieme) 

Annunciazione (particolare)


 





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martedì 18 agosto 2015

Intorno a Iacopo Torriti nella lettura degli affreschi della Basilica di S. Saba


Le arti figurative, tra l’ultimo periodo del XIII secolo e la prima parte del XIV secolo, esprimono una salda rivisitazione del gotico, attraverso maestri che ne elaborano un mutamento della fisionomia e del percorso.
 
Roma, in questa sorta di operoso programma di rinnovamento, mette in scena assidue opere plastiche, le quali dialogano con il fenomeno artistico che si propaga in altri territori. Infatti, nella “Città Eterna”, in questo volgere tra i due secoli, s’individuano alcuni protagonisti di tale stagione come lo sono Giotto di Bondone e Arnolfo di Cambio; essi vi esplicano, secondo quanto suggeriscono le “testimonianze” a noi giunte, il loro estro in imprese di enorme prestigio, che contribuiscono a identificare “l’Urbe” tra i centri maggiormente vitali della cultura del tempo. Artisti cardini del gotico italiano evoluto, appaiono, in questa loro esperienza particolare, “maestri romani”, determinando la difficoltà di interpretare i contatti e i rapporti esistenti con i maggiori rappresentanti definiti impropriamente “locali”, come Pietro Cavallini, pittore di straordinario pregio artistico, che, secondo differenti interpretazioni cronologiche e qualitative, del rinnovamento della pittura italiana, tradotto in atto all’epoca, ne contende la palma a Giotto –la cui centralità del suo linguaggio rimane indiscutibile- seppure in modo sostanzialmente differente, elaborando fondamentali innovazioni nella rappresentazione tridimensionale delle figure e degli spazi.  
 
Un altro eccellente protagonista della “bottega romana” del tempo s’individua in Iacopo Torriti, misterioso -come indica la sua lacunosa biografia- pittore e mosaicista, la cui opera è incentrata su una precisa connotazione, volta a recuperare valori figurativi tardo antichi e paleocristiani con linguaggio bizantineggiante, attenuato, modificato dalla sua sicura individualità, cogliendo eleganti altezze figurative e decorative, inusitate finezze cromatiche. Autore di affreschi, tra cui alcune attribuzioni, nella Basilica superiore di S. Francesco ad Assisi -uno dei fulcri ove si avvia una nuova sintassi pittorica- raffiguranti scene della “Creazione”, delle “Storie della Genesi” e inolre, le immagini del “Cristo”, della “Vergine”, di “S. Giovanni Battista”, di “S. Francesco” (1288-1290, circa). Il Redentore presenta un solido carattere monumentale, congiunto a un saldo aspetto corposo dello strato pittorico, il quale infonde al dipinto un effetto veramente espressivo, effigiando quasi un contrasto con la soavità che irradia il volto della Madonna. Ella è armoniosamente disegnata, in un brillante sgorgare di linee di contorno, nella frequentata posa iconografica romana della “Madonna advocata” -come ad esempio attestano le due immagini conservate rispettivamente nella Basilica di S. Maria in Aracoeli in Campidoglio e in quella di S. Maria in Via Lata- il cui gesto rivela la sua intercessione rivolta verso Dio.
 
La prima opera del Torriti in Roma, efficacemente provata, si mostra nel mosaico absidale della Basilica di S. Giovanni in Laterano –“Croce gemmata pervasa dalla Grazia tra la Vergine, S. Francesco, S. Pietro, S. Paolo, S. Giovanni Battista, S. Antonio di Padova, S. Giovanni Evangelista, S. Andrea e Personaggi”- come dimostra la sua “firma” nell’angolo inferiore sinistro nella calotta dell’abside, leggibile e “interpretabile” come “Iacobus Torriti pictor hoc opus fecit”. L’aspetto più dibattuto in passato riguarda la data, 1292, impressa nel mosaico odierno, molto rielaborato durante il grande intervento di restauro della Chiesa, avvenuto dal 1876 al 1886, nel corso del quale viene abbattuta l’antica costruzione absidale, per edificarne un’altra, collocata posteriormente rispetto alla precedente; l’anno indicato non appare filologicamente coerente, come indagano studi anche recenti proponendo quale data il 1291. L’impresa decorativa, voluta da Niccolò IV (1288-1292) – il quale riedifica parti della Basilica-, vede la presenza, quale collaboratore dell’artista, di fra Iacopo da Camerino, secondo l’iscrizione posta nella fascia musiva dell’emiciclo absidale:”Frater Iacobus de Camerino socius magistri operis recommendat se misericordiae Christie et meritis beati Iohannis”; le notizie sull’opera appaiono quindi compiute ma ciò che si è estinto è proprio il mosaico. Infatti, come in precedenza accennato, la copia eseguita nel XIX secolo durante l’imponente ricostruzione dell’area absidale, pur riproducendo, in apparenza fedelmente, l’impianto iconografico del mosaico torritiano, ne ha alterato l’entità stilistica sino a estinguerla, annullando la reale possibilità di comprendere e di interpretare, in essa, il tratto distintivo del Torriti, obbligando gli studiosi a volgere la propria attenzione sulle relative difficoltà “ermeneutiche” e sui dubbi concernenti gli elementi compositivi, che l’imponente mosaico espone.
 
L’attività di mecenate del pontefice raggiunge il suo vertice nel grandioso rinnovamento della Basilica di S. Maria Maggiore, che comprende l’edificazione del transetto e l’innalzamento di una nuova abside, la quale viene arretra di circa sei metri e mezzo, rispetto a quella antica, di cui si conserva l’arco, che diviene perciò quello trionfale. L’imponente mosaico terminato nel 1296, disteso sulla superficie absidale interna, esprime una considerevole articolazione iconografica, pur mostrando le evidenti “impronte” dei restauri posti in atto durante lo svolgersi dei secoli, che, nel complesso, non ne hanno totalmente compromesso la leggibilità stilistica. L’insieme, di elevatissima qualità, conferma l’opera di un grande maestro, al quale non gli è sconosciuta un’innegabile ricerca spaziale innovativa, risaltando quale struttura compositiva originale per la “scuola romana”. Un sicuro centripeto andamento compenetra tutta la scena, ove tutte le componenti, incluso il colore, fluiscono verso il nucleo, il fondamento intorno a cui si è costituita l’intera rappresentazione, vale a dire la “Incoronazione della Vergine” e le “ Storie della Vergine”. Per la prima volta, con molta probabilità, un’abside di Roma afferma una sorprendente sintassi di superfici volumetriche; l’omogeneità plastica è completamente realizzata, i diversi elementi sono del tutto calibrati nei loro reciproci dialoghi, in un armonioso equilibrio delle forme, prive dunque di qualsiasi incoerenza. La grande efficacia della resa prospettica deriva da un concreto studio delle linee di fuga, da assetti cromatici che intensificano lo stacco del soggetto riprodotto dal fondo. Tutta la composizione riflette, attraverso una superlativa maestria d’arte, la cura volta a sostanziare la realtà visiva, intesa quale forma slegata da ogni prefissata, stagnante idealizzazione, attraverso una precisa consistenza dell’intreccio cromatico e un’esplicita resa di colori ordinati in figure spaziali, attraverso cui sono definite le volumetrie dei corpi. Infatti, il panneggio delle figure del Cristo e della Vergine mostra una densa impostazione di pieghe con accentuate convessità ombrate, che suscitano effetti di scandita pienezza delle forme realizzate; attraverso il fitto chiaroscuro emerge plasticamente e vividamente, dal fondo, l’aspetto dei corpi. Tra le “Scene della Vita di Maria”, tutte caratterizzate dalla tecnica coloristica di questo maestro, che sottolinea la fisicità dei soggetti ritratti, quella della “Natività” intona uno dei momenti qualitativamente eminenti, come rivelano le movenze della Vergine nel prendere il Bambino dalla mangiatoia -o a deporlo nella mangiatoia-, che ne segnano l’eleganza e la naturalezza in una consistente spazialità, punto focale di quanto visivamente espresso. Un breve cenno merita altresì l’episodio della “Adorazione dei Magi”, di salda impaginazione estetica e di “intervalli visivi”, ove i re inginocchiati, avvolti da ariosi panneggi, sono collocati su tre differenti piani di profondità, mentre su un trono architettonicamente preciso vi siede la Vergine mentre il Bambino con incisiva spontaneità, tendendo una mano, tocca il dono offerto da uno dei Magi. 
 
L’ultima realizzazione del Torriti, per la quale si hanno notizie e scritture documentarie nonché disegni, è il pannello musivo che orna il monumento funebre di Bonifacio VIII (1294-1303), addossato alla controfacciata dell’antica Basilica di S. Pietro, eseguito da Arnolfo di Cambio, opera demolita verso la fine del XVI secolo. Lavoro assegnabile probabilmente al 1296, voluta dal papa ancora in vita; in questa circostanza le capacità dei due artisti si confrontano senza reciprocamente influenzarsi, compartecipando con pari dignità alla “stesura” del monumento, firmando la parte di propria di pertinenza (Jacobus pictor, Arnolfus architectus). Un brano, raffigurante il “Bambino”, è stato identificato tra le raccolte del Museo Puskin di Mosca e tale frammento, sebbene di esile misura e alterato, rimanda a una soffice resa dell’incarnato, a un'evidenziazione del vivo profilo del volto, a una posa pienamente partecipe.  
 
Stando alle scarse conoscenze biografiche torritiane, l’esistenza di una sua bottega “organizzata” è argomento che, per certi peculiari aspetti, suscita ampie ipotesi; sembra perciò tradursi in maggiore attendibilità che, un gruppo di pittori e di mosaicisti, si sia raccolto intorno al maestro -ormai famoso- e che le loro opere, riconducibili a modelli del Torriti, siano cronologicamente databili in un periodo successivo alle prove maggiori del maestro, vale a dire intorno alla fine del nono decennio del XIII secolo.  Inoltre, la serie di attribuzioni assegnategli forma una sorta di nutrito corpus, in cui elementi eterogenei costituiscono punti cruciali, quindi complicati e difficoltosi, circa il grado di accettabilità di opere riferibili all’artista.
 
In questo annoso tema si effonde, altresì, la lettura degli affreschi che ornano la “quarta navata” della Basilica di S. Saba. In realtà, tale ambiente caratterizzato da volte a crociera, affiancato alla navata laterale sinistra, può individuarsi quale portico, edificato entro la prima metà del XII secolo durante la ricostruzione della Chiesa, utilizzato ai fini del diretto ingresso tra il luogo di culto e il monastero; le tamponature che ne hanno mutato l’aspetto -e “l’uso”- risalgono al XIII secolo, al cui termine sono eseguite le opere pittoriche murali. Queste riuniscono, attraverso la figurazione, alcune memorie tradizionali e storiche del complesso monastico ricordate in quel periodo, che possono essere riassunte iniziando dalla famiglia di S. Gregorio I, Magno (590-604), appartenente all’antica “Gens” degli Anicii.
 
Secondo la più conosciuta voce tradizionale, la madre del papa, S. Silvia, alla morte del consorte si ritira (574, circa) con altre donne in una sua domus, posta sul fianco orientale del Colle Aventino; la proprietà diviene, di conseguenza, luogo di preghiera –caro altresì all’eminente figlio- appartato dal mondo: la Cellae Novae, coincidente con l’area della Basilica di S. Saba, ove si spegne tra il 590 e il 591. Le fonti storiche, invece, indicano la fondazione di un primo nucleo monasteriale avanti al 648, quando un gruppo di monaci provenienti da Biserta (Tunisia), fuggiti in seguito all’invasione araba, s’insedia in questa zona, forse restaurando e trasformando una costruzione già esistente. A questi primi religiosi se ne aggiungono altri provenienti da Gerusalemme, dal Deserto di Giuda e da altri siti di quel territorio oggetto dell’avanzata islamica; questa folta comunità dedica il nuovo monastero, in onore delle proprie origini, a S. Saba, uno dei maggiori e venerati esponenti del monachesimo orientale. In seguito a un periodo di decadenza (IX secolo), l’Ordine Benedettino vi subentra durante il X secolo, sostituito da quello Cluniacense poco prima della metà del XII secolo, che intraprende la ricostruzione del complesso nelle forme ancor oggi, in buona misura, visibili.
 
Ritornando al "molto indagato" ciclo di affreschi -oggetto di questo post- compiuto intorno, come s'ipotizza, al 1292, esso viene attribuito al così denominato “Maestro di S. Saba” pur se diversi studi insistono su un’assegnazione al Torriti. Le scene raffigurate presentano, sulla corta parete di fondo sinistra, la “Vergine in trono con il Bambino tra S. Saba e S. Andrea Apostolo, mentre sulla parete longitudinale risalta “S. Gregorio I, Magno tra S. Benedetto e un Santo Vescovo”, concludendosi la visone d’insieme nella scena di “ S. Nicola e le tre fanciulle povere”. Sebbene larghe sezioni delle pitture siano mancanti, quanto è ancora osservabile ne permette un’ampia lettura, che di tali dipinti ne afferra la persistente, reale, importanza nel percorso storico dell’arte; quanto si esamina e si deduce insorge soltanto, perciò, da uno specifico metodo, filologico, circa il dato oggettivo di evoluzione e di personalità espressiva.  
 
Iniziando l’osservazione con l’episodio di “S. Nicola” questo può essere accostato, marginalmente, a quello rappresentato nel Sancta Sanctorum (1278-1279, con tutta probabilità), desumendone una dipendenza compositiva, non disgiunta da alcune affinità decorative e da certe strutture architettoniche disegnate. Il nostro affresco però narra il fatto con un’impostazione semplificata dell’ambiente, rispetto all’affresco compreso nella Cappella votiva del Santuario della Scala Santa, ove la scena viene esposta in due distinti momenti: all’atto misericordioso, del santo, verso le tre fanciulle dormienti segue il ringraziamento del loro padre, tra linee architettoniche maggiormente articolate. Continuando a ritroso questo nostro esame, ci poniamo innanzi al dipinto murale di “S. Gregorio I, Magno”, la cui presenza di S. Benedetto menziona sia la presenza del suo Ordine nella storia del complesso conventuale, sia la sua bellezza spirituale affermata proprio dal grande pontefice effigiato, attraverso l’intero suo secondo libro dei “Dialoghi”, la prima testimonianza scritta sulla vita del santo nato a Norcia.
 
Lo schema iconografico dei due affreschi, sebbene non difetti di un buon accento decorativo, si sussegue senza ragguardevoli varianze e, rispetto alla lezione del Torriti, l’insieme composto appare appiattito, deprivato di un gusto fortemente plastico e di un autentico e autonomo svolgersi figurativo; i personaggi non possiedono una loro viva corposità, tradotti in figure rigidamente ricostruite da questo pittore, che si limita a ricalcare, palesando una debole “mano inventiva”, arcaici convenzionalismi. La meticolosa osservanza, descrittiva, di questi ultimi, produce formule confinate in una retroguardia culturale, dimostrata dalle incoerenze spaziali e dalle semplici architetture che contornano le figure. Nella stesura cromatica delle pitture murali il disegno, nella sua totalità, è reso in forma iconizzata, abbandonato in stereotipati modelli, distante da qualsiasi raffinata esposizione dei piani facciali, consegnandosi ai nostri sguardi privo di salde ed espressive forme. Appare qui evidente in ogni personaggio la pressante staticità, che sottomessa al peso di un’irrigidita trasmissione temporale iconografica, sottrae l’opera a un qualsiasi contrasto chiaroscurale.
 
L’affresco raffigurante la “Vergine con il Bambino chiude la nostra particolare rassegna; le due figure laterali rievoca l’origine del monastero, fondato da monaci orientali. Invero, a sinistra della Madonna è individuabile, in base al frammento superstite, S. Andrea Apostolo per la posa –che include la stola e il “cartiglio” avvolto e ben stretto nelle mani- corrispondente all’immagine frequentatissima, nel culto orientale, del Protocletos, ossia del “Primo chiamato” dal Cristo; a destra si nota S. Saba con il suo emblema: il pastorale. Quest’ultimo personaggio, non esente da una rigida postura, mostra una maggiore autonomia da vieti schemi e una vicinanza ai nuovi percorsi artistici nel taglio degli occhi, nella forma della bocca, nella stesura delle pennellate, nella disposizione delle pieghe delle vesti monacali. L’effetto pittorico, della Vergine, è quello che più dimostra di aver recepito, in una certa misura, la cifra del Torriti, per la sua altezza qualitativa, per gli accurati particolari dei lineamenti, per gli accenni chiaroscurali, i quali ne risaltano la forma evidenziandone il rilievo, separandola, parzialmente, dal compatto fondo, come permette la sottolineatura del colore bruno, utilizzato nella parte superiore delle orbite oculari e nei delicati contorni del viso, ben modellato, che nitidamente si mostra sopra lo sfondo dell’aureola. Il disegno del manto e del velo realizzato con ispirata eleganza, le mani, morbide dalle dita sottili, sono elementi che confermano una nobiltà pittorica intrinseca in questa figura, la cui consistenza volumetrica è creata con soffici passaggi cromatici. L’impostazione prospettica del trono, su cui siede la Vergine, è del tipo frontale, presentando semplici decorazioni e una struttura con uno schienale avvolgente. In sostanza, un lavoro che, in larghi tratti, segue gli stilemi torritiani ma ne diverge, in diversi passaggi, dagli originari elementi compositivi e perciò dalla sua attenzione naturalistica, dalla sua autorevole forza espressiva e dalla sua ineguagliabile competenza con cui affronta il repertorio definibile classico. Si percepisce che, quest'affresco, deriva da un compimento del lavoro commissionato e come tale attento e ripercorrere, per quanto possibile, la via tracciata da un altro artista, tanto celebrato, la cui sigla stilistica, sebbene in questo caso a essa riconducibile, rimane, nella sua sostanza, distante. Non può sfuggire la sincrona secchezza modellante alcuni brani, esemplificato dal gesto -il quale sembra bruscamente interrompersi- del Bambino, dipinto in un atteggiamento artificioso, privo di reciprocità con l’immagine della Vergine, che nella sua indubbia consistenza plastica è pur accolta un’espressione ferma, come se il suo modo imperturbabile di guardare sia pervaso di un’immota eternità.
 
 
La "quarta navata" della Basilica di S. Saba



L'affresco di “ S. Nicola e le tre fanciulle povere


L'affresco di  “S. Gregorio I, Magno tra S. Benedetto e un Santo Vescovo


L'affresco "Vergine in trono con il Bambino tra S. Saba e S. Andrea Apostolo