Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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giovedì 22 ottobre 2015

François Duquesnoy, detto Francesco Fiammingo: la statua di S. Susanna della Chiesa di S. Maria di Loreto al Foro Traiano

 
 

La Piazza della Madonna di Loreto si rivela come una “sporgenza distintiva” di Roma, per la presenza dei resti della Basilica Ulpia con la poderosa Colonna Traiana, verso cui sembrano protendersi le Chiese del SS. Nome di Maria e della Madonna di Loreto; quest’ultima -attualmente ne sono in restauro il prospetto e la cappella del Sacro Cuore- porgendo a tale luogo il toponimo, raccoglie nel suo insieme i momenti artistici basilari del XVI e XVII secolo: il fiorito Rinascimento, il Manierismo e il Barocco.
 
Il suo aspetto, invero, è un complesso di parti distinte però corrispondenti e disposte in perfetto equilibrio espositivo tra loro, richiamando, tra gli altri, i nomi del Bramante -possibile autore del primo progetto della riedificazione della Chiesa, avvenuta tra il 1507 e il 1592 e definitivamente completata nel 1690-, di Antonio da Sangallo il Giovane, di Giacomo del Duca (detto anche Jacopo, brillante allievo di Michelangelo), di Niccolò Circignani (detto il Pomarancio), di Paolo Rossetti (artista minore dotato di una gradevole calligrafica mano), del Cavalier d’Arpino, di Gaspare De Vecchi (collaboratore del Maderno).
 
Il fulcro, di tutto l’impianto architettonico e decorativo, dimora nell’organizzazione dell’altare maggiore, opera di De Vecchi (1628-1630), mutato in alcuni componenti strutturali dal restauro condotto, tra il 1867 e il 1873, da Luca Carimini. La volta pronuncia uno studio di effetti preziosi, le pareti, abbigliate da policromi marmi, circondano di bellezza il visitatore; ogni lato sembra comporre un’intensità armoniosa che svela la bellissima pala -già appartenuta alla precedente Chiesa- realizzata alla fine del XV secolo su due tavole a fondo oro, attribuita a Marco Palmezzano (allievo di Melozzo da Forlì), raffigurante “Il Padre Eterno, lo Spirito Santo e la Madonna di Loreto con il Bambino, tra i SS. Rocco e Sebastiano”. Delle nicchie, aperte sui fianchi di questo ambiente, contengono sei statue a grandezza naturale, di cui cinque compiute tra il 1629 e il 1633: i due notevoli “Angeli” di Stefano Maderno, “S. Cecilia” di Giuliano Finelli (già allievo del Bernini), “S. Domitilla” di Domenico De Rossi (scultore e architetto nella Roma del tardo Barocco; questa sua realizzazione scultorea è posteriore rispetto alle altre), “S. Agnese” di Pompeo Ferrucci (principe dell’Accademia di S. Luca), “S. Susanna” di François Duquesnoy, opera tra le più ammirate tanto da godere, tra la prima metà del XVII secolo e la fine del XVIII secolo, di una diffusione quasi senza pari, che ne ingigantisce l’interesse verso il suo eccellente modellato.
 
Voluta anch’essa dalla Confraternita della Madonna di Loreto, come si definisce per questo suo luogo di culto la Corporazione dei Fornai (oggi Pio Sodalizio dei Fornai), la realizzazione della scultura inizia il 31 gennaio del 1630, per poi essere collocata nella nicchia della Chiesa, ove ancor oggi è posta, il 29 marzo del 1633. Questa effige della Santa, quindi, desta una sorta di fascino nei confronti di molti artisti, soprattutto di diversi paesi europei, sino a sollecitare l’attenzione dell’Accademia di Francia a Roma. Infatti, nel 1736, Nicolas Vleughels –pittore più che discreto-, direttore di tale inclito Istituto accademico, riesce nell’intento di far rimuovere, per un limitatissimo periodo, la statua per trarne una copia di gesso, da adibire come modello per la pratica artistica dei giovani capaci borsisti, protetti dai maggiori nobili francesi e nominati dal re. Assoggettati a rigidi precetti, il loro percorso di perfezionamento prevede l’esecuzione di copie di opere appartenenti all’età antica, al Rinascimento e altresì coeve, destinate a essere definitivamente esposte –quelle considerate migliori- in Francia, come accade per quella realizzata, con felice mano, da Guillaume Coustou il Giovane –scultore di enfatica cifra ma non priva di arguta grazia-, inviata a Parigi nel 1740 e messa in mostra all’Académie Royale de Peinture et de Sculpture. La statua scolpita dal Duquesnoy, quindi, è attorniata da una vistosa fama che richiama altresì componimenti grafici, spesso inseriti in diffuse raccolte; altresì sono eseguite copiose riduzioni in terracotta, una delle quali appartiene al Museo Nazionale del Palazzo di Venezia - manchevole di alcune parti-, eseguita, molto probabilmente, nella prima metà del Settecento da un artista non identificato, il cui lavoro si presenta, nella sua minima altezza di sessantatré centimetri, con il tratto plastico non pienamente fedele all’opera originale.
 
Avviciniamoci, adesso, a François Duquesnoy, detto Francesco Fiammingo (1594-1643), lo scultore che ha creato questa acclamata scultura; il suo carattere stilistico estremamente elegante, sebbene in altri suoi lavori non sia scevro da “influenze berniniane”, dà forma, attraverso il marmo di S. Susanna, all’idealizzazione di una bellezza algida, atemporale nelle intenzioni, che vuole riecheggiare un’antica eleganza, prossima ai modelli del tardo ellenismo. Questo, eloquente, appressarsi al modo artistico “classicheggiante”, già viene realizzato dal Fiammingo con i busti eseguiti nel 1627 –la cui aria di viso è congeniale a una certa impersonalità dell’impianto- e collocati nei due Monumenti funebri di John Barclay e di Bernardo Guglielmi (letterati molto vicini al cardinale Francesco Barberini); tali sepolcri sono disegnati da un altro maestro del Barocco, Pietro da Cortona, che li erige (1627-1628), scegliendo la forma “all’antica”, nella Basilica di S. Lorenzo fuori le Mura, mutando, forse, un antecedente grandioso progetto da concretizzare altrove.
 
Il nostro scultore fiammingo è tra i collaboratori del Bernini, durante una fase della magnificente decorazione della Basilica di S. Pietro (alcune sezioni scultoree del baldacchino, 1627-1628), scenario ammantato da imponenti e fastose opere, le quali intendono estrinsecare la forza di una solida e glorificata religiosità. Di questa potenza comunicativa, assecondando i propositi di papa Urbano VIII, l’acuto talento beniniano ne manifesta un’altra ricostruzione scenica, dal palese senso teologico; egli apre nei voluminosi piloni -che “sollevano” la cupola michelangiolesca- le logge che incoronano gli altari dedicati ai Santi, di cui sono conservate le reliquie (Sacra Lancia, frammenti della Croce, Sudario sul quale è impresso il Volto di Cristo, la testa di S. Andrea) a guisa di testimonianze della fede cristiana sovrana “nei e dei tempi”. Il Bernini scolpisce S. Longino affidando, su indicazione del Pontefice, ad Andrea Bolgi la statua di S. Elena, a Francesco Mochi quella della Veronica e a François Duquesnoy il marmo di S. Andrea (1629-1630). Le quattro sculture, sebbene contraddistinte dalle differenze stilistiche degli autori, combinano una coralità che sembra definire lo spazio centripeto della navata centrale intorno al baldacchino, non sfuggendo, a un attento sguardo, quanto siano presenti alcuni “accenti berniani”, per l’appunto, nella statua del Fiammingo. Infatti, la sua “accordatura” sviluppa, seppure con esiti stemperati, il tema della figurazione “eroica” dilatata nello spazio, rivelando una controllata tensione emotiva nell’Apostolo scolpito, un calibrato impulso spirituale che interpreta il compiersi delle virtù immesse nell’uomo da Dio. Ancora la poetica barocca, in questo artista, traspare nelle impaginazioni berniniane incise nei due cenotafi dei nobili Adrien Vryburch (1629) e Ferdinand van den Eynde (1633-1640), nella Chiesa di S. Maria dell’Anima, dei quali la minuziosa elaborazione s’infittisce attraverso i gesti turbati, agitati dei putti reggicortina, soprattutto nel secondo monumento sepolcrale.
 
Posiamo, ora, nuovamente gli occhi sulla statua di S. Susanna, la quale, invece, traluce una tangibile matura reminiscenza dell’antichità, un ellenismo che desta però una sorta di “soggiogamento artistico”, un atto creativo racchiuso nell’antiquaria, sebbene trasmetta una fine capacità di lettura di quegli aulici testi, padroneggiando magistralmente l’esercizio plastico, fondato su una compostezza classica, sulla prospettiva di un rinnovellato ideale che genera una figurata metafora, unita all’età antica, modello di perfezione ripetuto quale stereotipo. L’opera si trova a destra dell’altare maggiore, indicato dalla Santa con la mano sinistra tesa in avanti, posa che “muove” un poco il personaggio, altrimenti espresso in modo alquanto statico; i suoi occhi bianchi –lo sguardo fisso- sono rivolti verso un indeterminato infinito, distante da qualsiasi artificio sentimentalistico, assenza questa che però fa sorgere, nella scultura, una soffusa vena poetica, quasi contraddicendo la formula iconica, che la vorrebbe ristretta in un’accademica entità ideatoria. Il suo viso ben illuminato, pur se comune, suscita un lieve senso di piacere estetico, come se una nascosta fonte luminosa splendesse su di esso, contrapponendosi alla fredda ombra del materiale marmoreo; l‘ampio panneggio è scolpito in nitida, netta forma e la statua emana una sensazione di nobile studio, capace anche d’interpretare un pacato, etereo riverbero spirituale.

 

 


 

 

 

 


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