La
Piazza della Madonna di Loreto si rivela come una “sporgenza distintiva” di
Roma, per la presenza dei resti della Basilica Ulpia con la poderosa Colonna
Traiana, verso cui sembrano protendersi le Chiese del SS. Nome di Maria e della
Madonna di Loreto; quest’ultima -attualmente ne sono in restauro il prospetto e
la cappella del Sacro Cuore- porgendo a tale luogo il toponimo, raccoglie nel
suo insieme i momenti artistici basilari del XVI e XVII secolo: il fiorito Rinascimento,
il Manierismo e il Barocco.
Il
suo aspetto, invero, è un complesso di parti distinte però corrispondenti e
disposte in perfetto equilibrio espositivo tra loro, richiamando, tra gli
altri, i nomi del Bramante -possibile autore del primo progetto della riedificazione
della Chiesa, avvenuta tra il 1507 e il 1592 e definitivamente completata nel
1690-, di Antonio da Sangallo il Giovane, di Giacomo del Duca (detto anche
Jacopo, brillante allievo di Michelangelo), di Niccolò Circignani (detto il
Pomarancio), di Paolo Rossetti (artista minore dotato di una gradevole calligrafica
mano), del Cavalier d’Arpino, di Gaspare De Vecchi (collaboratore del Maderno).
Il
fulcro, di tutto l’impianto architettonico e decorativo, dimora
nell’organizzazione dell’altare maggiore, opera di De Vecchi (1628-1630),
mutato in alcuni componenti strutturali dal restauro condotto, tra il 1867 e il
1873, da Luca Carimini. La volta pronuncia uno studio di effetti preziosi, le
pareti, abbigliate da policromi marmi, circondano di bellezza il visitatore;
ogni lato sembra comporre un’intensità armoniosa che svela la bellissima pala
-già appartenuta alla precedente Chiesa- realizzata alla fine del XV secolo su
due tavole a fondo oro, attribuita a Marco Palmezzano (allievo di Melozzo da
Forlì), raffigurante “Il Padre Eterno, lo
Spirito Santo e la Madonna di Loreto con il Bambino, tra i SS. Rocco e
Sebastiano”. Delle nicchie, aperte sui fianchi di questo ambiente,
contengono sei statue a grandezza naturale, di cui cinque compiute tra il 1629
e il 1633: i due notevoli “Angeli” di
Stefano Maderno, “S. Cecilia” di
Giuliano Finelli (già allievo del Bernini), “S. Domitilla” di Domenico De Rossi (scultore e architetto nella
Roma del tardo Barocco; questa sua realizzazione scultorea è posteriore
rispetto alle altre), “S. Agnese” di
Pompeo Ferrucci (principe dell’Accademia di S. Luca), “S. Susanna” di François Duquesnoy, opera tra le più ammirate tanto
da godere, tra la prima metà del XVII secolo e la fine del XVIII secolo, di una
diffusione quasi senza pari, che ne ingigantisce l’interesse verso il suo
eccellente modellato.
Voluta
anch’essa dalla Confraternita della
Madonna di Loreto, come si definisce per questo suo luogo di culto la
Corporazione dei Fornai (oggi Pio Sodalizio dei Fornai), la realizzazione della
scultura inizia il 31 gennaio del 1630, per poi essere collocata nella nicchia
della Chiesa, ove ancor oggi è posta, il 29 marzo del 1633. Questa effige della
Santa, quindi, desta una sorta di fascino nei confronti di molti artisti,
soprattutto di diversi paesi europei, sino a sollecitare l’attenzione dell’Accademia
di Francia a Roma. Infatti, nel 1736, Nicolas Vleughels –pittore più che
discreto-, direttore di tale inclito Istituto accademico, riesce nell’intento
di far rimuovere, per un limitatissimo periodo, la statua per trarne una copia
di gesso, da adibire come modello per la pratica artistica dei giovani capaci
borsisti, protetti dai maggiori nobili francesi e nominati dal re. Assoggettati
a rigidi precetti, il loro percorso di perfezionamento prevede l’esecuzione di
copie di opere appartenenti all’età antica, al Rinascimento e altresì coeve, destinate a essere definitivamente
esposte –quelle considerate migliori- in Francia, come accade per quella
realizzata, con felice mano, da Guillaume Coustou il Giovane –scultore di
enfatica cifra ma non priva di arguta grazia-, inviata a Parigi nel 1740 e
messa in mostra all’Académie Royale de
Peinture et de Sculpture. La statua scolpita dal Duquesnoy, quindi, è
attorniata da una vistosa fama che richiama altresì componimenti grafici,
spesso inseriti in diffuse raccolte; altresì sono eseguite copiose riduzioni in
terracotta, una delle quali appartiene al Museo Nazionale del Palazzo di
Venezia - manchevole di alcune parti-, eseguita, molto probabilmente, nella
prima metà del Settecento da un artista non identificato, il cui lavoro si
presenta, nella sua minima altezza di sessantatré centimetri, con il tratto plastico
non pienamente fedele all’opera originale.
Avviciniamoci,
adesso, a François Duquesnoy, detto Francesco Fiammingo (1594-1643), lo
scultore che ha creato questa acclamata scultura; il suo carattere stilistico
estremamente elegante, sebbene in altri suoi lavori non sia scevro da
“influenze berniniane”, dà forma, attraverso il marmo di S. Susanna, all’idealizzazione
di una bellezza algida, atemporale nelle intenzioni, che vuole riecheggiare
un’antica eleganza, prossima ai modelli del tardo ellenismo. Questo, eloquente,
appressarsi al modo artistico “classicheggiante”, già viene realizzato dal
Fiammingo con i busti eseguiti nel 1627 –la cui aria di viso è congeniale a una
certa impersonalità dell’impianto- e collocati nei due Monumenti funebri di John Barclay e di Bernardo Guglielmi
(letterati molto vicini al cardinale Francesco Barberini); tali sepolcri sono disegnati
da un altro maestro del Barocco,
Pietro da Cortona, che li erige (1627-1628), scegliendo la forma “all’antica”, nella
Basilica di S. Lorenzo fuori le Mura, mutando, forse, un antecedente grandioso
progetto da concretizzare altrove.
Il
nostro scultore fiammingo è tra i collaboratori del Bernini, durante una fase
della magnificente decorazione della Basilica di S. Pietro (alcune sezioni
scultoree del baldacchino, 1627-1628), scenario ammantato da imponenti e
fastose opere, le quali intendono estrinsecare la forza di una solida e
glorificata religiosità. Di questa potenza comunicativa, assecondando i
propositi di papa Urbano VIII, l’acuto talento beniniano ne manifesta un’altra ricostruzione
scenica, dal palese senso teologico; egli apre nei voluminosi piloni -che “sollevano”
la cupola michelangiolesca- le logge che incoronano gli altari dedicati ai
Santi, di cui sono conservate le reliquie (Sacra Lancia, frammenti della Croce,
Sudario sul quale è impresso il Volto di Cristo, la testa di S. Andrea) a guisa
di testimonianze della fede cristiana sovrana “nei e dei tempi”. Il Bernini
scolpisce S. Longino affidando, su
indicazione del Pontefice, ad Andrea Bolgi la statua di S. Elena, a Francesco Mochi quella della Veronica e a François Duquesnoy il marmo di S. Andrea (1629-1630). Le
quattro sculture, sebbene contraddistinte dalle differenze stilistiche degli
autori, combinano una coralità che sembra definire lo spazio centripeto della
navata centrale intorno al baldacchino, non sfuggendo, a un attento sguardo, quanto
siano presenti alcuni “accenti berniani”, per l’appunto, nella statua del
Fiammingo. Infatti, la sua “accordatura” sviluppa, seppure con esiti stemperati,
il tema della figurazione “eroica” dilatata nello spazio, rivelando una controllata
tensione emotiva nell’Apostolo scolpito, un calibrato impulso spirituale che
interpreta il compiersi delle virtù immesse nell’uomo da Dio. Ancora la poetica
barocca, in questo artista, traspare nelle impaginazioni berniniane incise nei
due cenotafi dei nobili Adrien Vryburch (1629) e Ferdinand van den Eynde (1633-1640),
nella Chiesa di S. Maria dell’Anima, dei quali la minuziosa elaborazione s’infittisce
attraverso i gesti turbati, agitati dei putti reggicortina, soprattutto nel
secondo monumento sepolcrale.
Posiamo, ora, nuovamente gli occhi sulla statua di S. Susanna, la quale, invece, traluce
una tangibile matura reminiscenza dell’antichità, un ellenismo che desta però
una sorta di “soggiogamento artistico”, un atto creativo racchiuso nell’antiquaria,
sebbene trasmetta una fine capacità di lettura di quegli aulici testi,
padroneggiando magistralmente l’esercizio plastico, fondato su una compostezza
classica, sulla prospettiva di un rinnovellato ideale che genera una figurata
metafora, unita all’età antica, modello di perfezione ripetuto quale
stereotipo. L’opera si trova a destra dell’altare maggiore, indicato dalla
Santa con la mano sinistra tesa in avanti, posa che “muove” un poco il
personaggio, altrimenti espresso in modo alquanto statico; i suoi occhi bianchi
–lo sguardo fisso- sono rivolti verso un indeterminato infinito, distante da
qualsiasi artificio sentimentalistico, assenza questa che però fa sorgere,
nella scultura, una soffusa vena poetica, quasi contraddicendo la formula iconica,
che la vorrebbe ristretta in un’accademica entità ideatoria. Il suo viso ben
illuminato, pur se comune, suscita un lieve senso di piacere estetico, come se
una nascosta fonte luminosa splendesse su di esso, contrapponendosi alla fredda
ombra del materiale marmoreo; l‘ampio panneggio è scolpito in nitida, netta
forma e la statua emana una sensazione di nobile studio, capace anche d’interpretare
un pacato, etereo riverbero spirituale.
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