Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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martedì 17 ottobre 2017

Antonello da Messina: il Ritratto d’uomo della Galleria Borghese



La biografia di Antonello da Messina (1430, circa – 1479) poggia su esigue notizie documentarie, tanto da determinare, nelle epoche successive alla sua vita, ricostruzioni inattendibili intorno alla sua vicenda esistenziale. Tale peculiare stato è dovuto altresì alla cronologia delle sue opere a noi giunte, concentrata tra il 1465 e il 1476, circa, concorrendo a confondere gli studi riguardanti il suo percorso artistico.

Nella sua cifra pittorica si apre un verso prospettico, che abbraccia ampiezze visive in un’osmosi scaturita da atmosfere, luci, colori, ambienti, figure; questi elementi si congiungono in un ordine di pura intuizione sensibile, di coerente unità espressiva, la quale scandaglia la realtà con “pintura” poetica.

La sua padronanza, degli effetti luministici, rende ancor più singolare la resa psicologica dei personaggi raffigurati, creando degli assoluti vertici, esposti anche nei ritratti virili, in cui il carattere, di derivazione fiamminga, mostrato dalla “posa di tre quarti”, il tipico diaframma del bordo disegnato - che separa con brillante esito l’effigiato dall’osservatore - e il nero sfondo, egregiamente tutti si combinano tanto da comporre un acuto “rendimento psicologico”, che diffonde un’immediata percezione di vivezza. Tale profilo, se si vuole indagare l’insieme di questi lavori con un certo severo piglio, sembra quasi cedere, talvolta, a una reiterata rappresentazione del soggetto, apparendo quale limite enunciato attraverso un “lineare calcolo” di stile, racchiuso in una struttura dettata da un preciso canone, riferibile però a una sorta d’interludio posto tra i diversi momenti dell’attività di questo artista.

L’unica opera conosciuta in Roma, a oggi, di Antonello da Messina è conservata nella Galleria Borghese: Ritratto d’uomo (1475 o 1476), dipinto eseguito a tempera e olio su tavola, esposto nella Sala XX (Sala di Psiche).

Immagine – cui l’identità è ignota, sebbene in passato siano state formulate alcune ipotesi- tra le più coinvolgenti del pittore, ove il personaggio raffigurato sembra, con lieve movimento del capo, di sondare - con accennata ironia di quell’impenetrabile “quasi” sorriso - lo spazio aperto dinanzi ai suoi occhi. Quello sguardo diretto e sfuggente attira l’attenzione di chi lo osserva. Esempio di vivace intensità espressiva, sia per la riuscita precisione realistica, che però non avvilisce la pregevolissima definizione artistica, sia per la peculiare incisività del lavoro, nel quale il pittore compie una perfetta fusione di forma con il rigore geometrico, come se volesse indagare una verità intrinseca al soggetto ritratto, che a sua volta sembra rinviarla all’esterno della scena, quest’ultima esaltata nel volume da una luce evidenziante il volto e la stessa pelle.

La veste rossa e la berretta nera richiamano gli indumenti dei nobili veneziani; infatti, il “nostro” Antonello è proprio a Venezia tra il 1475 e il 1476, dove la sua estrema perizia ritrattistica ha cospicuo seguito. La tavola manca della firma e per tale motivo si ipotizza che fosse posta su un cartiglio, dipinto sulla cornice. Lavoro già attribuito, verso la fine del XVIII secolo, a Giovanni Bellini e definitivamente assegnato al maestro messinese nel 1869, cui per la morbidezza cromatica e per la definizione plastica lo collocano tra i suoi migliori ritratti.   
 
 
 
Immagine tratta da "Google Immagini"       

 

 

 

 

 
 
 



 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

lunedì 25 settembre 2017

Giacomo Carissimi nella definizione dell' oratorio


Il termine oratorio indica, inizialmente, il solo luogo di pratiche religiose, di esercizi spirituali compresi nell’ampio programma di riorganizzazione religiosa e devozionale della Chiesa di Roma, scaturito dal Concilio di Trento (1545 - 1563), cui le disposizioni e le norme sancite da quella adunanza conciliare determinano, nel giro di pochi anni, un iniziale cambiamento in ogni aspetto della vita della Chiesa stessa, vale a dire amministrativo, pastorale, missionario, spirituale. In sostanza, sono definiti, in modo sistematico, i punti fondamentali della dottrina cattolica e inoltre sono accolte rilevanti riforme, per ricostituire e accrescere la globalità del corpo ecclesiastico. Anche l’arte, in tale vasto disegno, è considerata, a ragione, uno strumento di propaganda politica e religiosa, divenendo esaltazione corale della Chiesa cattolica, espressione trionfante della centralità spirituale e culturale di Roma nel mondo cristiano (per tale argomento v. mio post I Papi della Speranza. Arte e religiosità nella Roma del ‘600, del 1 dicembre 2014).

Il primo oratorio, in questo nuovo ambito, è voluto da S. Filippo Neri (1515 -1595; nato a Firenze e giunto a Roma nel 1534, circa) che, intorno al 1551, progetta e concreta una comunità di laici e di religiosi dedita a un’attività caritatevole, radunandovi, senza distinzione di sesso, dei giovani sbandati accostandoli alle ufficiature cultuali, al raccoglimento interiore, alle preghiere comuni, ai dialoghi spirituali, introducendo in quel singolare ambiente altresì momenti di serena e densa allegria, non disgiunti da canti. I prodromi di tale aspetto religioso e musicale sono avvertibili già nell’oratorio del Divino Amore, vivida istituzione presso la chiesa dei Ss. Silvestro e Dorotea in Trastevere, dove vi aderisce S. Gaetano Thiene (1480 – 1547), dove l’attività e volta all’elevazione spirituale e a un costante impegno assistenziale a favore degli indigenti. Alle orazioni, alle prediche e alle conversazioni su temi inerenti al sacro, si aggiunge il largo respiro mostrato dai canti delle litanie. L’insieme di questi elementi ispirano quindi, S. Filippo Neri, a creare il suo oratorio, nel quale la musica è insostituibile protagonista, palesandovi natura ricreatrice che educa gli animi avvicinandoli, in modo familiare, alla parola di Dio. (per tale argomento e per gli sviluppi oratoriali v. anche mio post Alessandro Scarlatti: il clima musicale della Roma barocca; l’oratorio; “Il martirio di S. Cecilia del 9 dicembre 2014).

In tale contesto, come in altri insiti nel medesimo XVI secolo, fiorisce una forma musicale non ben definita, che accoglie, comprendendo testi in latino, un repertorio sacro e immediatamente colto e un altro, con esposizioni orali in volgare italiano, esterno all’agire liturgico, il quale mira a una sconfinata interiorità, a un autentico innalzamento spirituale. Questa ultima “corrente” deriva dalla lauda, espressione musicale semplice, cui i primi vagiti si colgono alla fine del XII secolo, per propagarsi nel successivo XIII, raggiungendo l’apice, attraverso l’evoluzione del linguaggio sonoro, nei secoli XIV e XV, nei quali dalle iniziali lodi rivolte a Dio, alla Vergine e ai santi approda a temi comprendenti episodi biblici e a brani agiografici. Da tali riferimenti derivano esposizioni allegoriche e drammatico-narrative, caratteri che costituiscono comunque l’humus di ogni forma oratoriale.

Padre Filippo, come ancor oggi amorevolmente lo chiamano “i suoi figli”, detti Filippini (Congregazione dell’Oratorio), plasma quindi in Roma uno dei più sentiti luoghi di spiritualità, resi ancor più saldi grazie a specifici innesti musicali, che iniziando in S. Girolamo della Carità, pervengono a una maggiore corposità in S. Maria in Vallicella (riguardo alla genesi edificatoria dell’Oratorio dei Filippini, v. mio post del 10 dicembre 2014, Francesco Borromini, l’Oratorio dei Filippini (facciata e primo cortile). Intorno alla sua figura sono chiamati illustri musicisti come, ad esempio, Giovanni Animuccia (1514 ? – 1571), uno dei primi seguaci del Santo fiorentino, che aderisce al dettato conciliare di Trento permettendo al testo (in volgare) di emergere, pur se inserito in una leggera costruzione musicale contrappuntistica, la  quale sovrappone più linee melodiche, distante quindi dall’omofonia (emissione di medesimi suoni all’unisono di voci e di strumenti), liberando in giochi polifonici (successioni combinate di suoni individuali) i palesi “rimandi gregoriani”. I suoi due libri delle Laudi, che magnificamente interpretano le indicazioni di S. Filippo, concependo la musica quale edificante opera religiosa, sono considerate precorritrici dell’oratorio, con accenti melodici che danno luce alla voce soprana, preludendo, in alcuni passaggi, alla monodia accompagnata (canto a una voce con, in questo caso, il solo accompagnamento vocale, così articolato durante il XVI secolo).

Nello stesso periodo sorgono i primi vagiti del melodramma, avviando un nuovo rapporto tra la parola e il dramma, tra il canto e la musica, sino a giungere, nel successivo XVII secolo, a un’estetica definita, - soprattutto attraverso il mirabile estro di Claudio Monteverdi (1567 – 1643) - nella quale l’espressività sonora accetta, facendola propria, la stretta connessione al testo poetico di tono drammatico, non risolvendo però compitamente la “naturale” conflittualità tra musica e parola, lasciando al singolo autore la risoluzione, in virtù del proprio estro. L’esecuzione della Rappresentatione di Anima et Corpo di Emilio de’ Cavalieri (1550, circa - 1602), si palesa come fondamentale passaggio di tale verso musicale (febbraio 1600), evento posto in scena in due occasioni, proprio all’Oratorio di S. Maria in Vallicella. Infatti, questo lavoro – gemma tra le foci del primo dramma eseguito “ in musica per recitar cantando”- riscuote un rilevante positivo riscontro, in cui il testo nella maggior parte composto (se non completamente) -come da diverse attribuzioni- dallo scrittore, poeta e rinomato predicatore Agostino Manni (1547 – 1618) della Congregazione dell’Oratorio. Invero, l’opera testuale dispiega una cifra poetica di stampo popolare anziché un’articolazione incardinata su modi ricercati, perciò conforme all’intrinseca natura propria di quell’ordine religioso che mira a uno stile, come afferma lo stesso Manni: ”familiare e piano, e senza squisita eleganza e rigida osservanza delle regole, dovendo servire per il popolo e disporlo pian piano, con utile e dilettevole inganno, a ricevere nel cuore la dolcezza e soavità dello Spirito”. La sezione musicale impiega pochi strumenti e questo fattore, unito alla forma utilizzata per il testo, ha determinato l’erronea attribuzione di “primo oratorio”, come “un antenato” di quello che splendidamente si rivelerà in pieno Seicento. Difatti, l’originaria “stesura teatrale”, comprendente anche rapide e concitate azioni, costumi, balli e altri elementi, esula fortemente dalla cornice musicale intesa dalla famiglia religiosa, creata da S. Filippo. L’opera perciò si manifesta, per mezzo della sua struttura, quale primo melodramma sacro, come attestano i lavori dei successivi decenni (sino, circa, alla fine del XVIII secolo) che ne traggono, elaborandolo, il medesimo schema. La “commistione autonoma”, dei due “generi”, ne determina certamente l’assottigliamento delle differenze talvolta minime, come dimostra in questo caso e in successivi, il coro cui la partitura segue un andamento omofonico e omoritmico (si evidenzia nella polifonia con un costante uguale ritmo variandone l’intonazione) ma i “brani a solo”, pur se d’impostazione recitativa, appaiono più melodiosi rispetto a quelli propri della monodia praticata nella musica popolare. Infine, altra caratteristica, dell’Anima et Corpo, sostanzia accuratamente e dettagliatamente il basso continuo, il quale si stende ininterrottamente per tutta la durata della composizione, indicando la parte di basso sul quale si fonda l’intera costruzione armonica dell’accompagnamento, che l’esecutore interpreta e concreta. Costituisce perciò un passaggio primario, che allontanandosi dalla produzione rinascimentale, introduce una particolarità che connoterà il Barocco, in evidente conflitto con la concezione polifonica, che nel Cinquecento ha conquistato il massimo accento. 

Possiamo ora ritornare al “nostro” oratorio che nasce e si sviluppa nel seno della Congregazione filippina, che, come abbiamo osservato, assorbe l’antica lauda e alcuni elementi del contemporaneo melodramma, esponendo il testo in volgare. Del canto monodico ne accetta il recitativo e l’espressivo ma non il rappresentativo, rifiutando “il facile allettamento” offerto dai personaggi in costume, dagli apparati scenici, dalla mimica; la narrazione deve sospingere l’animo a un godimento schiettamente spirituale. Il dialogo tra i personaggi appare diretto come funzione drammatica, le voci del canto corrispondono a quelle dei personaggi biblici o a quelle dei caratteri delle storie devozionali; l’azione viene esposta da un “narratore storico” – in sostituzione della messinscena - e, nel caso di passi del Vangelo, “dall’Evangelista” cui si riferisce il testo, mente un coro commenta e poi conclude in chiave didattica e morale.

Questa semplice costruzione si palesa però non scevra di impliciti, misurati, artifici emotivi, gli stessi che se pur d’ispirazione sacra inevitabilmente si amalgamano, in un altro sfondo, con elementi profani, disegnando quello splendido nascente melodramma che, come in precedenza abbiamo considerato, vede la luce palpabile nella Rappresentazione di Anima et Corpo.    

La giovanissima musica oratoriale, per l’amorevole e notevole impegno dei Filippini, inizia a richiedere solide basi che, nei libretti appositamente scritti, trova l’espressa soluzione, la quale sopravanza la lauda dialogata, che tuttavia non cessa di echeggiare. In questo periodo embrionale si assiste perciò a un magma di eterogenei elementi e riappropriazioni, nei quali vi convergono e in seguito vi si raffrontano oltre e soprattutto la lauda anche, per certi aspetti, il madrigale (contraddistinto da raffinatezza poetica in un intreccio, di voci e di strumenti, eseguito da pochi solisti, ove le note propongono una migliore adesione alle parole) e, per alcuni spunti, il mottetto. Quest’ultimo, cui se ne ascrive l’origine alla temperie della fine del XII secolo circa, espone durante il Quattrocento brani polifonici a cappella (in latino) e su testo religioso, perciò mancante di parti strumentali, in stile imitativo - peculiarità della tecnica contrappuntistica – nel quale viene riprodotto, in una o in più parti vocali, un frammento - già eseguito - variabile in estensione. Nel Seicento, all’alba del “percorso formativo-creativo” dell’oratorio, si nota l’influenza nel mottetto sia della monodia e sia della pratica concertante che, in un insieme sonoro, attribuisce a una voce un ruolo predominante sulle altre; nondimeno feconda è altresì l’esperienza della voce sola con accompagnamento del basso continuo. La scena perciò mostra, del giovanissimo divenire oratoriale,  la profonda duttilità espressiva, grazie anche all’enorme libertà ritmica e armonica che permette, ai diversi compositori, di rendere percettibile, secondo le possibilità offerte dalle combinazioni scelte, il significato poetico e sacro del testo. L’oratorio volgare, in tale multiforme panorama, propone il valore della comprensibilità, da parte del popolo, dell’esposizione scritta e, se presente, della musica.

A Roma però dimorano colti aristocratici e alti prelati, che vogliono introdurre, quale disegno intellettuale, il nascere parallelo dell’oratorio in lingua latina, il quale vanterà le proprie radici principalmente nel mottetto. Tale aspirazione è soddisfatta dall’Arciconfraternita del SS. Crocifisso - così elevata nel 1559, da Pio IV, con motus proprius redatto da suo nipote S. Carlo Borromeo - che cura nel proprio oratorio (sua sede dal 1563 benché la parte architettonica sia completata nel 1568) un’attività musicale, soprattutto nel periodo della Quaresima. Di tale evento fornisce una considerevole testimonianza, André Maugars (1580 – circa, 1645, circa), virtuoso violinista francese, autore del prezioso scritto “Risposta data a un curioso sul sentimento della musica in Italia” (1639): ” Vi è però un altro genere di musica che non è affatto in uso in Francia e che, proprio per questa ragione, merita bene che ve ne faccia una descrizione particolare: si chiama “stile recitativo”. Il migliore che io abbia inteso fu nell’Oratorio ... dove si trova una compagnia dei Fratelli del Santo Crocifisso, formata dai più grandi signori di Roma, che, di conseguenza ha la possibilità di mettere insieme tutto ciò che l’Italia produce di più raro; e di fatto, i musici più eccellenti si fanno un punto d’onore di venirvi e i migliori compositori brigano per avere l’onore di farvi sentire le loro composizioni e si sforzano di apparire ciò che di meglio hanno allo studio. Questa musica ammirevole e incantevole si fa solo il venerdì durante la Quaresima, dalle tre alle sei … Le voci cominciano con un salmo in forma di mottetto e poi tutti gli strumenti eseguono una sinfonia molto bella (particolare intermedio orchestrale, con la netta esclusione delle voci). Dopo, le voci cantano una storia dell’Antico Testamento in forma di commedia spirituale … Ogni cantore rappresenta un personaggio della storia ed esprime perfettamente la forza delle parole. Dopo di che, uno dei più celebri predicatori propone l’esortazione, finita la quale, la musica recita il Vangelo del giorno … e i cantanti imitano perfettamente i diversi personaggi rappresentati dall’Evangelista. Non saprei lodare abbastanza questa musica recitativa: bisogna averla intesa sul posto per giudicare bene i suoi meriti. La musica strumentale è formata d’un organo, d’un clavicembalo grande, d’una lira, di due e tre violini e di due o tre arciliuti. Una volta un violino suona con l’organo, poi un altro risponde; un’altra volta eseguono tutti e tre insieme diverse parti. Ogni tanto un arciliuto fa molte variazioni sopra dieci o dodici note, ogni nota di cinque o sei battute; poi l’altro suona la stessa cosa, ognuno in modo diverso”.  

Data l’elevatezza culturale di quell’ambiente, come conferma il Maugars, sono impiegati, per il canto e per il suono degli strumenti, i maestri più famosi delle cappelle romane, formate da musicisti e cantori al servizio di una chiesa o di una corte nobiliare e Giacomo Carissimi vi dominerà, quale autore, con la sua potenza emotiva, drammatica e lirica.

Da tale contesto la cultura dell’oratorio si espande in altri luoghi, fra cui Bologna, Firenze, Modena, Venezia e così via. Questo soffio artistico penetra anche all’estero, in particolar modo inizialmente a Vienna, dove gli episodi sacri vengono rievocati in guisa teatrale, in modo pressoché realistico, utilizzando abiti, mimica, scenografie, che nei Filippini - e in genere nell’ambiente romano – non hanno trovano terreno favorevole; nel “circuito” viennese invece tale variegata struttura in breve tempo è acquisita dalle cappelle reali e da quelle della nobiltà. In seguito l’oratorio giunge in terra tedesca, trovandovi poderosi imitatori e geniali “inventori”, rispondenti ai nomi di Johann Kaspar Kell (1627 – 1693, che lo introduce attraverso la lezione di Carissimi), Johann Sebastian Bach (1685 – 1750), Georg Philipp Teleman (1681 – 1767), Georg Friedrich Handel (1685 – 1759; egli in Inghilterra comporrà una forma musicale con una maggiore caratterizzazione scenica), Carl Philipp Emanuel Bach (1713, circa – 1788, secondogenito di Johann Sebastian) e altri. In Francia il modo di Carissimi si afferma per mezzo di Marc-Antoine Charpentier (1634, circa – 1704). Percorrendo tutto il Settecento e l’Ottocento, sia in Italia sia nei paesi esteri, l’oratorio conserverà intatto, pur accogliendo modernità espressive, l'affascinante lirismo sacro terminando, come oggi appare, la sua luminosa parabola nei primi anni del Novecento.

Riguardo ancora ai primordi dell’oratorio, il termine, viene usato per indicare l’esposizione musicale abbinata agli esercizi spirituali, come sancisce la frase che in questo periodo si esclama: ” si va a sentir l’oratorio”. Il suo significato di particolare - e innovativa- musica sarebbe attribuibile, secondo alcuni, a Francesco Balducci (1579 – 1642), poeta palermitano attivo anche a Roma dopo il 1605, autore dei testi di due oratori: Il Trionfo o L’Incoronazione di Maria Vergine; La Fede o Il Sacrificio di Abramo, composti intorno al 1630 ma pubblicati postumi nel 1646. Principalmente il secondo titolo rende, vivida, la drammaticità della vastissima azione redentiva, per mezzo dei personaggi e dello svolgersi della storia, cui si accompagna il Coro delle Vergini e il Coro dei Savi. Le musiche però sono andate perdute e, come in molti altri casi, il relativo autore resta anonimo. Ancora sul vocabolo oratorio, altre “indagini” sostengono la prima ipotesi non veritiera, assegnando la “parola tecnica” al solo letterato romano Pietro Della Valle (1586 – 1652), autore del “Discorso sulla musica dell’età nostra” (1640). 

Di Giacomo Carissimi (1605 – 1674) si è accennato in precedenza circa la sua cifra stilistica, cui i modelli producono lo sviluppo del ”genere”, rapidamente innestati altresì nell’oratorio in volgare. La sua presenza a Roma è documentata dal 1629; egli in poco tempo diviene uno dei protagonisti del clima musicale della “Città Eterna”. Regnanti di paesi europei lo vorrebbero maestro nelle loro corti, desideri inattuabili – a essi risponde solo con saltuari lavori realizzati “nell’Urbe”  - poiché il musicista preferisce la metodica attività e il quieto ritiro nelle “stanze romane”, situazioni confacenti all’austerità della sua laboriosa vita imperniata sulla stretta osservanza religiosa, tanto da ricevere, nel 1637, la tonsura e in un secondo tempo gli ordini minori, potendo così servire le funzioni liturgiche. Nel frattempo la sua fama di prodigioso musicista attira numerosi allievi, appartenenti alle più influenti famiglie nobili di Roma e, di queste, intrattiene frequenti rapporti con quella dei Barberini, non tralasciando i suoi solidi contatti con il circolo di Cristina già regina di Svezia; prestigiosi “territori”, dove la freschezza e la bellezza espressiva delle sue composizioni destano grande ammirazione. Nel 1649 è nominato dall’Arciconfraternita del SS. Crocifisso, una prima volta, maestro compositore di un oratorio, da eseguire durante la Quaresima del successivo 1650, anno santo, con altri musicisti tra cui Benedetto Pasquini (1637 – 1710), virtuoso clavicembalista e anch’egli pregiato autore e introdotto sia negli ambienti della nobiltà romana e sia in quelli ecclesiastici e artistici. 

Tale considerevole incarico segue l’eco assunto dal suo oratorio Iephte (1646), - si imprime nella memoria il coro finale a sei voci così fulgido, tormentoso e nel contempo dolce - talmente eclatante che l’erudito ed enciclopedico gesuita, Athanasius Kircher (1602 – 1680), dedica una sezione del suo studio sulla musica, Misurgia Universalis Sive Ars Magna Consoni et Dissoni (1650), proprio a questo oratorio, inserendovi con caldo plauso una parte.

Non seguiremo gli avvenimenti fluiti nel corso della via del “nostro” eminente compositore, giacché l’intento, di tale post, non risiede nella volontà di elaborarne una sorta di biografia, ma di coglierne la sua peculiare elevatezza artistica.

La rimarchevole personalità artistica di Carissimi si staglia fra quelle protagoniste, in ambito musicale, del XVII secolo, accostandosi come importanza, ad esempio, al melodramma di Claudio Monteverdi (1567 – 1643), per il comune merito di aver creato un tono declamatorio, molto espressivo, colmo di liriche emozioni e di sentimenti liberati, scevro di giochi meramente virtuosistico-vocali; anche l’orchestrazione è sobria, improntata a una severità e a una semplicità (solitamente organo solo, pochi archi, basso continuo) quali insopprimibili riferimenti. Ritorniamo perciò, come lucente paradigma, allo Iephte. Lo scritto scaturisce dal capitolo XI del libro biblico dei Giudici, dove emerge la figura di Iephte, giudice e capo d’Israele, vittorioso sugli Ammoniti, tuttavia stretto dal suo voto che conduce al sacrificio della sua unica figlia: sentimento di acutissimo dolore, contrastante con il gaudio per la sconfitta subita dal popolo nemico. Le tre sezioni dell’oratorio (battaglia, gli inni festosi per il favorevole esito del conflitto, il drammatico epilogo dell’episodio) stendono cambi di tonalità ascendenti e discendenti, pause di eloquente espressività, brevi dissonanze sul basso continuo, irti e poliformi intervalli, in un succedersi armonioso di arie, di cori e di recitativi. Lavoro intenso e penetrante, unitario nella sostanza, dove il recitare ha foggia di protagonista, senza però soffocare la musica, che, al contrario, strettamente unita alle parole disegna il completo aspetto del tragico epilogo. Domenico Alaleona (1881 – 1927), musicista e letterato, nel suo volume “Studi sulla storia dell’oratorio musicale in Italia” (1908) a riguardo scrive: ” è nell’espressione del dolore che l’oratorio più eccelle: il dialogo tra Iephte e la figlia e i loro lamenti … sono fra le pagine più efficaci e commoventi che il dolore abbia ispirato all’arte musicale”.

Carissimi esilia dal suo lessico sonoro la convenzionale superficialità di certo artificioso “tecnicismo”, modellando e creando elementi musicali in una combinazione brillantemente insolita, riuscendo a imporre, in Europa, l’oratorio latino, per lo sprigionare di una felice e geniale padronanza talentuosa, che si incide nell’animo.

Imprevedibile aureo secolo, il Seicento, avvia linee artistiche nuove, ridonando alla musica sacra, grazie al “nostro” musicista, quella vivace dignità, altrimenti negata dal rigido e sterile schema che, impropriamente, si richiama al Palestrina (Giovanni Luigi da, 1525 – 1594), in realtà molto discosto dalla schietta e austera icasticità musicale palestriniana, in cui vi alberga una consonanza di radianti colori e di incisivi stupori sonori. Inoltre, il panorama si affaccia su una vista inondata dalla musica strumentale, accolta con favore e ricca di fascino, tale da conquistare, in misura crescente, “platee” sempre più ampie.

Carissimi, che della musica sacra magnificamente ne rinnova i capisaldi, manifesta la sua autentica e generosa creatività anche nel campo della cantata (composizione vocale e strumentale su testo di argomento sacro o profano), mostrando una densa varietà formale e un pregiato livello, tanto da essere considerato anche l’artefice di tale accento musicale, cui alcuni tratti si annodano ai suoi oratori. Artista eccelso, cui la produzione pur distende mottetti, dispiega organici vocali privi di limiti linguistici, come esemplifica splendidamente la sua Messa a 5 e a 9 voci (1670, circa), non dimenticando i Sacri Concerti Musicali (1672, circa), e altre messe nate dal suo genuino fervore creativo.

Nell’oratorio si svela ancor più le, assolute, vette della sua originale vena, in tale forma musicale strettamente italiana, figlia di quel pulsante vasto spazio in cui fermenta la cultura e l’arte in Roma, luogo elettivo di gran parte della eccezionale vivacità creativa, che contraddistingue l’Italia in quelle stagioni insostituibili. La naturale attitudine a vivere in questo immenso e operoso lido, dove novità di nature differenti e nuovi alati squilli artistici si susseguono senza tregua, determina probabilmente in Carissimi l’esile cura di affidare, alle stampe, le sue creature musicali manoscritte, dovendo invece ringraziare l’amorevole attenzione di qualche suo ammiratore e di taluni allievi, per le pubblicazioni (purtroppo esigue rispetto a quanto composto) a noi pervenute e degli oratori conservati. Egli, uomo di elevata cultura, di alcuni testi ne è, come ipotizzabile, l’autore, per l’evidente spessore letterario in essi evidente, superiore a quello piuttosto convenzionale di scrittori coevi, che, se presenti, la sua musica affranca dalla pochezza, rendendo concreta la plausibilità dell’azione nella “sostanza scenica degli affetti” e infondendo un coerente alto valore artistico, a quanto unitamente viene rappresentato.     

A proposito di allievi, molti musicisti - e aspiranti tali- giungono a Roma, per ricevere illuminanti lezioni e preziosi consigli dal Carissimi; importanti artisti che rispondono ai nomi di: Antonio Cesti (1623 – 1669, molte voci concordano nell’indicarlo studente del “nostro musicista”), Marc-Antoine Charpentier (1634, circa – 1704, già in precedenza citato), Johann Kaspar Kell (1627 – 1693, già in precedenza citato), Johann Philipp Krieger (1649 – 1725), Alessandro Scarlatti (1660 – 1725, secondo alcune fonti), Agostino Steffani (1654 – 1728, vescovo dal 1706, influenzerà il giovane Handel), e altri; illuminati artisti che ne legittimano la notorietà e l’autorevolezza musicale.

Nell’osservare l’organica inventiva di questo maestro, non deve essere omesso anche quel fine senso umoristico, incisivo elemento del suo linguaggio; ne forniscono prove le cantate, - con testi in volgare, in francese e in latino – Histoire des Cyclopes, Crolla il Mondo, Requiem Burlesque Latin et Français, I Filosofi, e così via.     

L’animo pregno di una sincera religiosità, riflettono la sua concezione artistica, senza dubbio sobria ma densa di raffinata semplicità, che allontana qualsiasi impoverimento dal tessuto sonoro; i caratteri distintivi dei suoi oratori saldamente poggiano sulla narrazione dell’avvenimento biblico o sacro, condotto sia dallo “storico” - come si è già considerato, tipico elemento oratoriale – sia dal coro esposto in chiave personalissima e priva di vacui effettismi polifonici. Oltre a ciò, la spontanea naturalezza, nel sublimarsi, dissigilla una sintesi di palpabile tragicità, capace espressione impressa sui personaggi scolpiti con singolare emotiva intensità, che rendono distinguibili anche le più lievi sfumature del sentire umano. L’intellettiva destrezza di Carissimi offre, all’auditorio, le immagini delle differenti vicende, attraverso i “colori psicologici” del suono, senza l’ausilio di apparati teatrali, di costumi e di luci, creando quello che si definisce “rappresentazione auditiva”. Infine, la meditazione, quando il compositore affida anch’egli il coro alla “voce del popolo”, lasciando che le parti si intreccino vivacemente e secondo collaudate formule contrappuntistiche ben controllate, dipinge uno smagliante momento riassuntivo dell’oratorio, nel quale sfociano unità vocali e sonore antiche e moderne.


Giacomo Carissimi (1605 - 1674); immagine tratta da "Google Immagini"
Frammento della partitura dell'oratorio Iephte; immagine tratta da "Google Immagini"
Prospetto dell' Oratorio del SS. Crocifisso
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Riporto di seguito i post di argomento musicale sinora pubblicati.
·      Arcangelo Corelli, il paradigma musicale dell’ambiente aristocratico e artistico romano (18 luglio 2015)
·       Handel nello splendido vivore artistico di Roma (6 febbraio 2015)
·      Il Grand Tour a Roma di Felix Mendelssohn-Bartholdy (20 giugno 2016; attualmente nono post dei più letti)
·      Mozart a Roma (27 novembre 2014)
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venerdì 21 aprile 2017

Il Battesimo di Cristo di S. Maria dell’Orto: un dipinto della fertile vena di Corrado Giaquinto


Tra gli apparenti modesti spazi di via Anicia, non compresa nelle “luci” di Trastevere, si staglia lo scenografico prospetto della chiesa di S. Maria dell’Orto, iniziato da Iacopo Barozzi, detto il Vignola (1566-1568) e completato da Francesco Capriani, detto Francesco da Volterra (1576-1577).

All’interno di questo tempio aleggiano artistici rimandi soprattutto a Luigi Barattoni, Gabriele Valvassori, i quali tra il 1720 e il 1755, circa, pur modificando interamente gli equilibri architettonici cinquecenteschi realizzati da Guidetto Guidetti (trasformazione dell’impianto in forma basilicale), hanno disegnato la coesione cromatica e plastica di tutti gli ambienti che vi si esplica.

L’arte di molti maestri echeggia negli ornati spazi della chiesa, in cui s’innalzano visibili i versi di Giacomo Della Porta (altare maggiore, in seguito restaurato dal Valvassori), Federico e Taddeo Zuccari (Annunciazione; Storie della Vergine), Giovanni Baglione (cito la Vergine col Bambino tra S. Bartolomeo, S. Giacomo il Maggiore, S. Vittoria), Giacinto Calandrucci (cito la Resurrezione di Cristo) e altri.

Dal consistente impianto plastico rifulge una pala che esclama la cappella in cui è posta: il Battesimo di Cristo della cappella titolata a S. Giovanni Battista.

Tale penetrante opera è compiuta, nel 1750, da Corrado Giaquinto (1703 – 1765) attivo a Roma dal 1727 dopo una prima esperienza affrontata a Napoli; una fruttuosa parentesi torinese (1738 -1739) lo consegna a una sicura maestria, attraverso la quale si esprime in cifra elegiaca, diffusa con morbidi e lievi toni, in cui spirano chiare modulazioni e leggere patine, che rifuggono dal mero esercizio calligrafico mostrando perciò lavori pittorici di altissimo tono, dove il “carattere arcadico” raggiunge il pieno epico idillio fondendo la “dimensione eroica” con quella “galante”, realizzando in tal modo una coerente, appropriata raffigurazione “del bello”. I più intensi sentimenti si arrestano, volutamente, in una vivida superficie estetica, nella quale perciò si addensano anche moti agitati ma risolti ammorbidendo ciò che scuote l’anima dei personaggi, trasformando l’impetuoso torrente del pathos nell’ordinata sponda del patetico, esiliandone però l’eccessiva languidezza (Apollo e Dafne; Morte di Adone; Storie di Enea; Trionfo degli Dei, oggi perduto).   

Tornato nella “Città Eterna” (ante fine del 1739) la sua presenza artistica si concreta nei lavori in: S. Giovanni Calibita (1741), S. Croce in Gerusalemme (1743 e 1750 - 1752), S. Lorenzo in Damaso (1743), Palazzo Borghese (1744, circa), S. Lorenzo dei Lorenesi (1746).

La sua adesione alla temperie classicista si esplicita nei temi che, egli, dipinge in quei luoghi, quintessenza di quel proprio pregevole cromatismo congiunto a uno squisito linguaggio espressivo e a una stringente, solenne monumentalità compositiva che interpreta, con fitta scioltezza creativa, l’armoniosa vibrazione cromatica, della poetica soave, da lui padroneggiata.

Il nostro dipinto, Battesimo di Cristo, però non appare compiutamente conforme a quanto si appalesa in altre sue pitture. L’avvio di questa nuova vena si materializza durante la sua lunga permanenza in Roma, -che nel 1753 lascerà per Madrid, quale pittore di corte del re Ferdinando VI- realizzando diverse pale d’altare destinate sia a committenti italiani, sia a committenti esteri, tra i quali il monarca spagnolo, testimonianze della sua vasta e solida fama di notevole artista. In tali opere avanza una maturata e felice rilettura del Barocco, come avvenuto, ad esempio, già in Francesco Solimena – di cui Giaquinto è stato allievo nella città partenopea- all’incirca un ventennio prima. La minore aderenza allo stile classicista, ben evidente in questi lavori da “esportazione”, consente raffigurazioni rigorosamente imponenti e dal carattere “maiestatico”, che sono talmente apprezzate da convincere lo stesso Giaquinto – e non solo lui- a evidenziare maggiormente questo recupero, in chiave d’incisiva svolta altresì “nell’Urbe”, mutamento cui cogenti elementi permarranno nella sua vicenda artistica, sebbene egli ritornerà nel “perimetro classicista”. Questo particolare momento determina la presenza di sue monumentali realizzazioni nella Basilica dei Santi XII Apostoli (Immacolata Concezione, 1749 -1750) e nella chiesa della SS. Trinità degli Spagnoli (SS. Trinità e liberazione di uno schiavo per opera di un angelo, 1750 circa).

In questo novello alveo si colloca il Battesimo di Cristo (1750), conservato nella Chiesa di S. Maria dell’Orto. Il tema è svolto con originale pienezza naturalistica, che espone eloquenza narrativa con felici giochi chiaroscurali, che già dalla volta celeste le variazioni cromatiche si spiegano nella differente posizione delle nubi rispetto alla luminosa fonte, la colomba, figura sensibile dello Spirito Santo, immagine da cui la scena, così tutta investita, si disvela definendo le peculiarità delle forme e dei rilievi. L’estesa sensibilità cromatica e luministica, espressa dall’artista, infonde un’equilibrata saldezza volumetrica posta in rilievo, per l’appunto, dagli spessi contrasti fra luci e ombre, che sebbene l’insieme raffigurato sia volto a una complessità di azione, l’insita finezza suggella l’impianto con inedito recupero di esperienze barocche, ripudiando un’impersonale e scontata impostazione calligrafica “statutaria” dei personaggi, sostanziati invece da una reale plasticità, attraverso un visibile moto d’animo che permea le figure stese sulla tela con solida inventività.

Il dipinto si apre quindi in vasta figurazione con la sua preziosa eloquenza cromatica e con le sue lievi ombreggiature, tratti di raffinata eleganza compositiva e di fitta grandiosità pittorica.

Una tenue spettacolarità diffonde il carattere del tema iconologico, rinunciando a prospettive multiple e a ridondanti, sfarzosi artifizi scenici.

La luce dunque emanata dalla colomba, tra scure nubi rischiarate da quel diafano luminoso raggio, che attraversa la mano del Battista per coronare il capo di Cristo –su cui è versata una traslucida acqua- e scendere “scorrendo” su sue chiare membra, sino a diffondersi nel tranquillo letto del fiume Giordano, irradiandone altresì la sponda. In quell’acqua fluviale, così trasparente e resa tale dall’alta luce divina, poggia sospeso il piede destro del Messia (mentre il ginocchio sinistro è flesso su uno squadrato masso, perciò su una compatta e stabile roccia); in quel lucido segmento di fiume cade il profondo raggio visivo del Figlio di Dio, alludendo, l’immagine, alla vera fonte che, Egli, offre all’uomo; sorgente da cui sgorga l’acqua della vita, com’è affermato nel Vangelo di Giovanni Apostolo, al capitolo quattro, versetti quattordici - quindici, in cui è narrato l’episodio dell’incontro con la Samaritana: “ … chi beve dell’acqua che io gli darò non avrà mai più sete; anzi l’acqua, che io gli darò, diventerà in lui una fonte d’acqua che zampilla in vita eterna”. La forte sete spirituale, nascosta nell’antro dell’animo umano, trova il suo termine nell’incontro con il Cristo, fonte della verità grazie alla quale una mutata forza sorge, affrancando l’uomo dal crepuscolo del fallimento interiore.   

Tale chiaro traslato è magistralmente fissato da Giaquinto in questa sua opera, dove si espande un reale toccante “testo” poetico. Gesù Cristo, dalla possente e nel contempo delicata corporatura, è preso da umile atteggiamento, che possiede in sé una regalità altra, mostrando uno sguardo chino ma non dimesso, rapito da una dimensione d’inafferrabile spiritualità, la quale esplicita la sua missione di “Agnello di Dio”, – come proprio additato dal Battista, secondo il Vangelo di Giovanni - immediatamente prima del suo inizio. Il Divino Maestro, in tal guisa effigiato, è perciò l’agnello pasquale, il cui sacrificio donerà agli uomini quella capacità di sottrarsi al buiore del “peccato del mondo”, innalzando l’essere umano verso quel regno -dapprima interiore- celeste, liberandolo dalla morte veramente eterna. La splendida naturalezza dell’apparato iconico, la sua compiuta corrispondenza formale con il tema esposto, non è contraddetta dalla presenza delle due figure “angeliche”, dalle pose devozionali, poste in piano secondario rispetto ai due protagonisti, anzi esse rilevano la ferma natura mistica di quanto disegnato.

Giovanni Battista, raffigurato tra lo Spirito Santo e il Figlio di Dio, in una combinata fasciante “aura” chiaroscurale, per mezzo di una fluida pennellata torreggia sopra lo sfondo, quasi con audace monumentalità, mostrando un dinamismo genuinamente barocco, non scevro di poderosa armonia, sottolineata dall’espressione composta, controllata del suo volto, il quale mitiga la possanza del suo aspetto fisico, che rievoca la sua testimonianza, alta e acuta, nel deserto, luogo ove predica la vicinanza temporale dell’azione del Messia, che differentemente dal suo battesimo somministrato con acqua, quello offerto dal Cristo sarà compiuto con lo Spirito Santo.   
 
 
 
 

lunedì 20 marzo 2017

Guidetto (Guido) Guidetti: il prospetto di S. Caterina dei Funari


 
 
Nell’argomentare l’originale talento di Marcello Venusti, esplicitato dalla pala d’altare “S. Giovanni Battista”, che risplende, tra altre pregevolezze artistiche, nella Chiesa di S. Caterina dei Funari (post pubblicato il 29 gennaio 2016, attualmente settimo nella “graduatoria” dei “più popolari”), ho accennato alla luminosa e preziosa sostanza architettonica della facciata di questo tempio, voluto dal cardinale Federico Cesi, sostituendo la precedente chiesa medievale (XII secolo), già appellata Sancta Maria Dominae Rosae.

Il nuovo edificio, dedicato alla martire di Alessandria d’Egitto, rapidamente si eleva tra il 1560 e il 1564, mentre i congiunti ambienti sono realizzati, al contrario, in modo graduale, espropriando anche molte umili abitazioni presenti nella zona, estendendosi la relativa costruzione sino al 1575, circa, concretandosi in diversi ampi e articolati edifici, progettati, secondo alcune ipotesi, da Guidetto Guidetti (? – 1564).   

Egli è architetto di origine toscana, probabilmente giunto a Roma prima del 1520; esegue intorno al 1538 il suo primo, come individuato, considerevole lavoro: il prospetto della Chiesa di S. Spirito in Sassia. Opera edificatoria in precedenza assegnata ad Antonio da Sangallo il Giovane (Antonio di Bartolomeo Cordini, 1484 – 1546), viene successivamente attribuita al Guidetti, proprio in virtù della facciata di S. Caterina dei Funari, poiché questa ne espone rilevanti e sicure affinità nell’impianto complessivo, nelle proporzioni e nell’impostazione decorativa, tanto da assurgere a modello imprescindibile di molte successive facciate cinquecentesche. A proposito della paternità di tale opera, -oggi indiscutibilmente compresa nei lavori del “nostro” Guidetto- si indica, dalla prima metà del XVII sino agli inizi del XX secolo, un altro maestro, Giacomo Della Porta (1532 – 1602), come, ad esempio, riporta il “Nuovo studio di Pittura, Scoltura ed Architettura nelle chiese di Roma”, scritto dall’abate Filippo Titi di Città di Castello e pubblicato, una prima volta, nel 1674 (seguiranno riedizioni ampliate fino a quella del 1763): “Fu fabbricata questa Chiesa con bellissima Facciata e Campanile, dal Cardinal Federico Cesi, e ne fu architetto Giacomo Della Porta … “. A un altro illustre nome è stata altresì affidata la creazione di tale fronte architettonica: Iacopo Barozzi, detto il Vignola (1507 – 1573). Finalmente, al termine del primo decennio del Novecento, viene riconosciuta la mano dell’architetto toscano, “rinvenendo” due iscrizioni incise sull’ornamento murario del prospetto, non vedibili dalla strada e “avvertibili” solo da vicino e con gli appropriati mezzi ottici. La prima scritta riferisce il nome del capomastro, Bartolomeo da Casale Monferrato (fondo del piccolo timpano nella parte destra), mentre la seconda –celata dalla estesa iscrizione dedicatoria- ne insegna il reale autore: “Guideto de Guideti Architector” (in corrispondenza della parola “Cardinalis” addossata alla linea superiore dell’architrave).

Artista che esprime, con personalità consistente, quella cifra stilistica che si vorrebbe includere, da talune voci, nel “Manierismo”, definizione di cui riporto, in parte, le mie considerazioni, evidenziate nel mio su citato post: “ … accezione viva del XVI secolo, la quale adotta il vocabolo “maniera” proprio riguardo allo stile di un artista, con valenza, a secondo dei casi, positiva o negativa, come, per l’appunto, scrive il Vasari … (di “bella maniera”). Inoltre, nelle sue “Vite”, egli, attraverso le espressioni “gran’ maniera” e “maniera moderna” intende risaltare il portato delle enormi levature di Leonardo (1452-1519), di Raffaello (1483-1520) e di altri maestri sui quali spicca Michelangelo (1475-1564) … Il Manierismo, se proprio si vuole concatenare a una formula questo periodo, della cultura figurativa cinquecentesca, è sostanziato da una poetica che esalta la fastosità estetica, la raffinatissima ricerca della complessità, il culmine virtuosistico, la bellezza ove abbia compimento la suprema grazia. In esso respirano antitesi diverse: afflati lirici e mirabili digressioni formali, costruzioni ideologiche e formidabili apparenze irrazionali, tratti classici e acuti segmenti eterodossi. Complesso di “fenomeni” differenti espressi con una efficace e pregiata sintesi, che il Vasari individua nella “licenza, che non essendo di regola” è “ordinata nella regola”.

L’espressività del Guidetti dunque si dispiega con penetrante libertà, elaborando con audaci “elementi plastici” e attraverso un’innovativa lezione, le forme degli stilemi lessicali del classicismo. “Eufonico” appare quel suo creare fusioni di strutture –differenti- architettoniche, in cui sviluppa masse accentuate, sulle quali salde nervature svolgono fughe complesse ma leggibili: con questa luminosa sostanza artistica si mostra, il prospetto, di S. Caterina dei Funari. Notabile perciò la sua armoniosità che sfocia in una complessa ornamentazione, inverando un efficace tema artistico, che dona forme di solido virtuosismo, eleganti passaggi confermanti l’enorme varietà di “figure” strettamente connesse all’articolatissimo –ma non ingarbugliato- disegno generale, anzi i distinti elementi sono pervasi di grazia e di perfetti nessi sintattici.

Innalzata tra il 1562 e il 1564 (muratura, travertino e stucco) la facciata risalta, con tutto il suo portato artistico, nell’angusto ambiente in cui si eleva. Composta di due ordini sovrapposti di paraste corinzie, divisi da un’eminente trabeazione (architrave, fregio, cornice), si evidenzia per il risalto della porzione centrale e per la”fastosità” dell’ornato, inserito con fasce tra i capitelli. Si mostra rialzata rispetto al piano stradale, come sembrano scandirne il proemio i quattro gradini, che introducono il visitatore al prospetto, in cui il registro inferiore snoda in basso una zoccolatura, sulla quale trovano posto lesene alternate a quattro grandi nicchie “chiuse” (sopra e sotto) da simmetriche targhe rettangolari. Distingue l’imponente raffinatezza dell’asse mediano, il portale, affiancato da due colonne scanalate e totalmente sporgenti dalla parete, che terminano nei capitelli corinzi sui quali la piccola trabeazione posa e in essa, nel severo timpano triangolare (perimetrato da dentellature), l’incisione “DIVAE CATHARINAE VIRG ET MART”. Gli stessi capitelli presentano una decorazione insolita, soprattutto in questo periodo, sostituendo le canoniche foglie di acanto e le volute angolari, con i corni dell’abbondanza e con piccoli serti scolpiti tra di essi, sormontati da minuti fanciulleschi visi.  

Se l’abbondante –ma ottimamente distribuita- decorazione architettonica sviluppa elementi tra loro dialoganti e rispondenti, altrettanto ricca è quella ornamentale, realizzata con motivi di festoni, che disegnano una fascia adorna di fiori, di frutta, di nastri svolazzanti, di rose, di rami di palma, di spade e di ruote (queste ultime emblemi del martirio della Santa); un insieme il quale sembra sorreggere, al centro, un medaglione in cui compare l’inscrizione: “DIVAE CATHARINAE VIRGINI “ a ribadire il titolo del tempio. La modanatura, che comprende questo gruppo ornamentale, è un’originale soluzione, che attenua le irregolarità ottiche derivanti da una prospettiva così ridotta, insita nel circostante sito, mostrandosi ben dimensionata e sagomata come palesa la cornice aggettante superiore (che divide le due sezioni), sotto cui la scritta celebra il Cesi: “FEDERIC CAESIUS EPISC CARDINALIS PORTVEN FECIT M D LXIIII”.

Il registro superiore, secondo alcune indagini, evidenzierebbe lievi differenze, scaturendone un ulteriore assunto che, pur affermando il Guidetti quale autore di tutto il progetto, ne riconduce la diretta edificazione soltanto alla parte inferiore. Tale ipotesi, ad ogni modo, non inficia l’appartenenza, dell’intera opera architettonica e decorativa, esclusivamente al “nostro” Guido, come dimostra, ad esempio, il cromatismo riproposto in tutti gli intercolumni: la sezione alta pertanto corrisponde con quella sottostante.

Una linea di tegole, quasi impercettibile, segna tale parte della Chiesa, serrata da due ampie volute a curvatura semplice e cadenzata da quattro paraste poste su zoccolatura, alternate a due spaziose nicchie accostate maggiormente alla base, rispetto a quelle della sezione inferiore, a causa della minore altezza di questo registro; in tal modo sono inserite due sole targhe. Pur in questo livello, tra capitelli corinzi, privi di quegli accenti originali prima descritti, -costituendo uno dei punti che ne vogliono una diversa mano da quella del Guidetti- si distende una ornata fascia di festoni contenenti nastri, ghirlande, perline; ancora, lo stemma della famiglia Cesi di forma ovale e inghirlandato tra aerei nastri, preceduto da una spaziosa targa quadrata con linee simmetriche spezzate, bordata di leggere volute. Al centro s’irradia una grande luce che richiama il rosone, per rappresentare, probabilmente, il ricordo dell’antecedente chiesa medievale, oculo cui corrisponde il portale dell’ordine inferiore. Il prospetto di S. Caterina dei Funari termina con il voluminoso - però tenue nel suo tono- timpano triangolare, cinto da dentellature, sormontato da quattro candelabri e dalla Croce.

L’artista di origine toscana possiede un raffinatissimo senso del chiaroscuro, una indiscussa minuta perizia circa l’esposizione del particolare incluso in un finissimo senso decorativo, come dichiara il prospetto di questa Chiesa, sua migliore opera, ove la sua fantasia si libra in concreta compiuta azione, dove raggiunge un esaltante equilibrio tra linee architettoniche e accenti decorativi: lavoro degno di essere compreso tra le maggiori testimonianze artistiche del Cinquecento. L’ornamentazione, sua qualità più evidente, mai piega in formalismo “di mestiere” e mai il Guidetti smarrisce l’orditura architettonica della fabbrica, poiché felice si dilata il profondo legame con l’edificio in costruzione. Egli, in maggior misura nel progetto di S. Caterina, non si esilia in quella penuria di inventiva architettonica, nascosta da una immota e tediosa psuedo-fertilità decorativa: la sua vena non indugia in astratti o risaputi canoni, essa ha intima veste di spontaneità, aderente con appropriatezza al tema affrontato.