Il
primo oratorio, in questo nuovo ambito, è voluto da S. Filippo Neri (1515 -1595;
nato a Firenze e giunto a Roma nel 1534, circa) che, intorno al 1551, progetta e
concreta una comunità di laici e di religiosi dedita a un’attività caritatevole,
radunandovi, senza distinzione di sesso, dei giovani sbandati accostandoli alle
ufficiature cultuali, al raccoglimento interiore, alle preghiere comuni, ai dialoghi
spirituali, introducendo in quel singolare ambiente altresì momenti di serena e
densa allegria, non disgiunti da canti. I prodromi di tale aspetto religioso e
musicale sono avvertibili già nell’oratorio del Divino Amore, vivida istituzione
presso la chiesa dei Ss. Silvestro e Dorotea in Trastevere, dove vi aderisce S.
Gaetano Thiene (1480 – 1547), dove l’attività e volta all’elevazione spirituale
e a un costante impegno assistenziale a favore degli indigenti. Alle orazioni,
alle prediche e alle conversazioni su temi inerenti al sacro, si aggiunge il
largo respiro mostrato dai canti delle litanie. L’insieme di questi elementi
ispirano quindi, S. Filippo Neri, a creare il suo oratorio, nel quale la musica
è insostituibile protagonista, palesandovi natura ricreatrice che educa gli
animi avvicinandoli, in modo familiare, alla parola di Dio. (per tale argomento
e per gli sviluppi oratoriali v. anche mio post
Alessandro
Scarlatti: il clima musicale della Roma barocca; l’oratorio; “Il martirio di S.
Cecilia del 9 dicembre 2014).
In
tale contesto, come in altri insiti nel medesimo XVI secolo, fiorisce una forma
musicale non ben definita, che accoglie, comprendendo testi in latino, un
repertorio sacro e immediatamente colto e un altro, con esposizioni orali in
volgare italiano, esterno all’agire liturgico, il quale mira a una sconfinata
interiorità, a un autentico innalzamento spirituale. Questa ultima “corrente”
deriva dalla lauda, espressione musicale semplice, cui i primi vagiti si
colgono alla fine del XII secolo, per propagarsi nel successivo XIII,
raggiungendo l’apice, attraverso l’evoluzione del linguaggio sonoro, nei secoli
XIV e XV, nei quali dalle iniziali lodi rivolte a Dio, alla Vergine e ai santi
approda a temi comprendenti episodi biblici e a brani agiografici. Da tali
riferimenti derivano esposizioni allegoriche e drammatico-narrative, caratteri
che costituiscono comunque l’humus di
ogni forma oratoriale.
Padre
Filippo, come ancor oggi amorevolmente lo chiamano “i suoi figli”, detti
Filippini (Congregazione dell’Oratorio), plasma quindi in Roma uno dei più
sentiti luoghi di spiritualità, resi ancor più saldi grazie a specifici innesti
musicali, che iniziando in S. Girolamo della Carità, pervengono a una maggiore corposità
in S. Maria in Vallicella (riguardo alla genesi edificatoria dell’Oratorio dei
Filippini, v. mio post del 10
dicembre 2014, Francesco Borromini,
l’Oratorio dei Filippini (facciata e primo cortile). Intorno alla sua
figura sono chiamati illustri musicisti come, ad esempio, Giovanni Animuccia
(1514 ? – 1571), uno dei primi seguaci del Santo fiorentino, che aderisce al
dettato conciliare di Trento permettendo al testo (in volgare) di emergere, pur
se inserito in una leggera costruzione musicale contrappuntistica, la quale sovrappone più linee melodiche, distante
quindi dall’omofonia (emissione di medesimi suoni all’unisono di voci e di
strumenti), liberando in giochi polifonici (successioni combinate di suoni
individuali) i palesi “rimandi gregoriani”. I suoi due libri delle Laudi, che magnificamente interpretano
le indicazioni di S. Filippo, concependo la musica quale edificante opera
religiosa, sono considerate precorritrici dell’oratorio, con accenti melodici
che danno luce alla voce soprana, preludendo, in alcuni passaggi, alla monodia
accompagnata (canto a una voce con, in questo caso, il solo accompagnamento
vocale, così articolato durante il XVI secolo).
Nello
stesso periodo sorgono i primi vagiti del melodramma, avviando un nuovo
rapporto tra la parola e il dramma, tra il canto e la musica, sino a giungere,
nel successivo XVII secolo, a un’estetica definita, - soprattutto attraverso il
mirabile estro di Claudio Monteverdi (1567 – 1643) - nella quale l’espressività
sonora accetta, facendola propria, la stretta connessione al testo poetico di
tono drammatico, non risolvendo però compitamente la “naturale” conflittualità
tra musica e parola, lasciando al singolo autore la risoluzione, in virtù del
proprio estro. L’esecuzione della Rappresentatione
di Anima et Corpo di Emilio de’ Cavalieri (1550, circa - 1602), si palesa
come fondamentale passaggio di tale verso musicale (febbraio 1600), evento
posto in scena in due occasioni, proprio all’Oratorio di S. Maria in
Vallicella. Infatti, questo lavoro – gemma tra le foci del primo dramma
eseguito “ in musica per recitar cantando”-
riscuote un rilevante positivo riscontro, in cui il testo nella maggior parte
composto (se non completamente) -come da diverse attribuzioni- dallo scrittore,
poeta e rinomato predicatore Agostino Manni (1547 – 1618) della Congregazione
dell’Oratorio. Invero, l’opera testuale dispiega una cifra poetica di stampo
popolare anziché un’articolazione incardinata su modi ricercati, perciò
conforme all’intrinseca natura propria di quell’ordine religioso che mira a uno
stile, come afferma lo stesso Manni: ”familiare
e piano, e senza squisita eleganza e rigida osservanza delle regole, dovendo
servire per il popolo e disporlo pian piano, con utile e dilettevole inganno, a
ricevere nel cuore la dolcezza e soavità dello Spirito”. La sezione
musicale impiega pochi strumenti e questo fattore, unito alla forma utilizzata
per il testo, ha determinato l’erronea attribuzione di “primo oratorio”, come
“un antenato” di quello che splendidamente si rivelerà in pieno Seicento.
Difatti, l’originaria “stesura teatrale”, comprendente anche rapide e concitate
azioni, costumi, balli e altri elementi, esula fortemente dalla cornice
musicale intesa dalla famiglia religiosa, creata da S. Filippo. L’opera perciò
si manifesta, per mezzo della sua struttura, quale primo melodramma sacro, come
attestano i lavori dei successivi decenni (sino, circa, alla fine del XVIII
secolo) che ne traggono, elaborandolo, il medesimo schema. La “commistione
autonoma”, dei due “generi”, ne determina certamente l’assottigliamento delle
differenze talvolta minime, come dimostra in questo caso e in successivi, il
coro cui la partitura segue un andamento omofonico e omoritmico (si evidenzia
nella polifonia con un costante uguale ritmo variandone l’intonazione) ma i
“brani a solo”, pur se d’impostazione recitativa, appaiono più melodiosi
rispetto a quelli propri della monodia praticata nella musica popolare. Infine,
altra caratteristica, dell’Anima et Corpo, sostanzia accuratamente e
dettagliatamente il basso continuo, il quale si stende ininterrottamente per
tutta la durata della composizione, indicando la parte di basso sul quale si
fonda l’intera costruzione armonica dell’accompagnamento, che l’esecutore interpreta
e concreta. Costituisce perciò un passaggio primario, che allontanandosi dalla
produzione rinascimentale, introduce una particolarità che connoterà il
Barocco, in evidente conflitto con la concezione polifonica, che nel
Cinquecento ha conquistato il massimo accento.
Possiamo
ora ritornare al “nostro” oratorio che nasce e si sviluppa nel seno della
Congregazione filippina, che, come abbiamo osservato, assorbe l’antica lauda e
alcuni elementi del contemporaneo melodramma, esponendo il testo in volgare.
Del canto monodico ne accetta il recitativo e l’espressivo ma non il
rappresentativo, rifiutando “il facile allettamento” offerto dai personaggi in
costume, dagli apparati scenici, dalla mimica; la narrazione deve sospingere
l’animo a un godimento schiettamente spirituale. Il dialogo tra i personaggi
appare diretto come funzione drammatica, le voci del canto corrispondono a
quelle dei personaggi biblici o a quelle dei caratteri delle storie
devozionali; l’azione viene esposta da un “narratore storico” – in sostituzione
della messinscena - e, nel caso di passi del Vangelo, “dall’Evangelista” cui si
riferisce il testo, mente un coro commenta e poi conclude in chiave didattica e
morale.
Questa
semplice costruzione si palesa però non scevra di impliciti, misurati, artifici
emotivi, gli stessi che se pur d’ispirazione sacra inevitabilmente si amalgamano,
in un altro sfondo, con elementi profani, disegnando quello splendido nascente
melodramma che, come in precedenza abbiamo considerato, vede la luce palpabile
nella Rappresentazione di Anima et Corpo.
La
giovanissima musica oratoriale, per l’amorevole e notevole impegno dei
Filippini, inizia a richiedere solide basi che, nei libretti appositamente
scritti, trova l’espressa soluzione, la quale sopravanza la lauda dialogata,
che tuttavia non cessa di echeggiare. In questo periodo embrionale si assiste
perciò a un magma di eterogenei elementi e riappropriazioni, nei quali vi
convergono e in seguito vi si raffrontano oltre e soprattutto la lauda anche,
per certi aspetti, il madrigale (contraddistinto da raffinatezza poetica in un
intreccio, di voci e di strumenti, eseguito da pochi solisti, ove le note
propongono una migliore adesione alle parole) e, per alcuni spunti, il
mottetto. Quest’ultimo, cui se ne ascrive l’origine alla temperie della fine
del XII secolo circa, espone durante il Quattrocento brani polifonici a
cappella (in latino) e su testo religioso, perciò mancante di parti
strumentali, in stile imitativo - peculiarità della tecnica contrappuntistica –
nel quale viene riprodotto, in una o in più parti vocali, un frammento - già
eseguito - variabile in estensione. Nel Seicento, all’alba del “percorso
formativo-creativo” dell’oratorio, si nota l’influenza nel mottetto sia della
monodia e sia della pratica concertante che, in un insieme sonoro, attribuisce
a una voce un ruolo predominante sulle altre; nondimeno feconda è altresì
l’esperienza della voce sola con accompagnamento del basso continuo. La scena
perciò mostra, del giovanissimo divenire oratoriale, la profonda duttilità espressiva, grazie anche
all’enorme libertà ritmica e armonica che permette, ai diversi compositori, di
rendere percettibile, secondo le possibilità offerte dalle combinazioni scelte,
il significato poetico e sacro del testo. L’oratorio volgare, in tale
multiforme panorama, propone il valore della comprensibilità, da parte del
popolo, dell’esposizione scritta e, se presente, della musica.
A
Roma però dimorano colti aristocratici e alti prelati, che vogliono introdurre,
quale disegno intellettuale, il nascere parallelo dell’oratorio in lingua
latina, il quale vanterà le proprie radici principalmente nel mottetto. Tale
aspirazione è soddisfatta dall’Arciconfraternita del SS. Crocifisso - così
elevata nel 1559, da Pio IV, con motus
proprius redatto da suo nipote S. Carlo Borromeo - che cura nel proprio
oratorio (sua sede dal 1563 benché la parte architettonica sia completata nel
1568) un’attività musicale, soprattutto nel periodo della Quaresima. Di tale
evento fornisce una considerevole testimonianza, André Maugars (1580 – circa,
1645, circa), virtuoso violinista francese, autore del prezioso scritto “Risposta data a un curioso sul sentimento della
musica in Italia” (1639): ” Vi è però
un altro genere di musica che non è affatto in uso in Francia e che, proprio
per questa ragione, merita bene che ve ne faccia una descrizione particolare:
si chiama “stile recitativo”. Il migliore che io abbia inteso fu nell’Oratorio
... dove si trova una compagnia dei Fratelli del Santo Crocifisso, formata dai
più grandi signori di Roma, che, di conseguenza ha la possibilità di mettere
insieme tutto ciò che l’Italia produce di più raro; e di fatto, i musici più eccellenti
si fanno un punto d’onore di venirvi e i migliori compositori brigano per avere
l’onore di farvi sentire le loro composizioni e si sforzano di apparire ciò che
di meglio hanno allo studio. Questa musica ammirevole e incantevole si fa solo
il venerdì durante la Quaresima, dalle tre alle sei … Le voci cominciano con un
salmo in forma di mottetto e poi tutti gli strumenti eseguono una sinfonia
molto bella (particolare intermedio orchestrale, con la netta esclusione
delle voci). Dopo, le voci cantano una
storia dell’Antico Testamento in forma di commedia spirituale … Ogni cantore
rappresenta un personaggio della storia ed esprime perfettamente la forza delle
parole. Dopo di che, uno dei più celebri predicatori propone l’esortazione,
finita la quale, la musica recita il Vangelo del giorno … e i cantanti imitano
perfettamente i diversi personaggi rappresentati dall’Evangelista. Non saprei
lodare abbastanza questa musica recitativa: bisogna averla intesa sul posto per
giudicare bene i suoi meriti. La musica strumentale è formata d’un organo, d’un
clavicembalo grande, d’una lira, di due e tre violini e di due o tre arciliuti.
Una volta un violino suona con l’organo, poi un altro risponde; un’altra volta
eseguono tutti e tre insieme diverse parti. Ogni tanto un arciliuto fa molte
variazioni sopra dieci o dodici note, ogni nota di cinque o sei battute; poi
l’altro suona la stessa cosa, ognuno in modo diverso”.
Data
l’elevatezza culturale di quell’ambiente, come conferma il Maugars, sono
impiegati, per il canto e per il suono degli strumenti, i maestri più famosi
delle cappelle romane, formate da musicisti e cantori al servizio di una chiesa
o di una corte nobiliare e Giacomo Carissimi vi dominerà, quale autore, con la
sua potenza emotiva, drammatica e lirica.
Da
tale contesto la cultura dell’oratorio si espande in altri luoghi, fra cui
Bologna, Firenze, Modena, Venezia e così via. Questo soffio artistico penetra
anche all’estero, in particolar modo inizialmente a Vienna, dove gli episodi
sacri vengono rievocati in guisa teatrale, in modo pressoché realistico, utilizzando
abiti, mimica, scenografie, che nei Filippini - e in genere nell’ambiente
romano – non hanno trovano terreno favorevole; nel “circuito” viennese invece tale
variegata struttura in breve tempo è acquisita dalle cappelle reali e da quelle
della nobiltà. In seguito l’oratorio giunge in terra tedesca, trovandovi
poderosi imitatori e geniali “inventori”, rispondenti ai nomi di Johann Kaspar
Kell (1627 – 1693, che lo introduce attraverso la lezione di Carissimi), Johann
Sebastian Bach (1685 – 1750), Georg Philipp Teleman (1681 – 1767), Georg
Friedrich Handel (1685 – 1759; egli in Inghilterra comporrà una forma musicale
con una maggiore caratterizzazione scenica), Carl Philipp Emanuel Bach (1713,
circa – 1788, secondogenito di Johann Sebastian) e altri. In Francia il modo di
Carissimi si afferma per mezzo di Marc-Antoine Charpentier (1634, circa –
1704). Percorrendo tutto il Settecento e l’Ottocento, sia in Italia sia nei
paesi esteri, l’oratorio conserverà intatto, pur accogliendo modernità
espressive, l'affascinante lirismo sacro terminando, come oggi appare, la sua
luminosa parabola nei primi anni del Novecento.
Riguardo
ancora ai primordi dell’oratorio, il termine, viene usato per indicare
l’esposizione musicale abbinata agli esercizi spirituali, come sancisce la
frase che in questo periodo si esclama: ” si
va a sentir l’oratorio”. Il suo significato di particolare - e innovativa-
musica sarebbe attribuibile, secondo alcuni, a Francesco Balducci (1579 –
1642), poeta palermitano attivo anche a Roma dopo il 1605, autore dei testi di
due oratori: Il Trionfo o L’Incoronazione
di Maria Vergine; La Fede o Il Sacrificio di Abramo, composti intorno al
1630 ma pubblicati postumi nel 1646. Principalmente il secondo titolo rende,
vivida, la drammaticità della vastissima azione redentiva, per mezzo dei
personaggi e dello svolgersi della storia, cui si accompagna il Coro delle
Vergini e il Coro dei Savi. Le musiche però sono andate perdute e, come in
molti altri casi, il relativo autore resta anonimo. Ancora sul vocabolo
oratorio, altre “indagini” sostengono la prima ipotesi non veritiera, assegnando
la “parola tecnica” al solo letterato romano Pietro Della Valle (1586 – 1652),
autore del “Discorso sulla musica
dell’età nostra” (1640).
Di
Giacomo Carissimi (1605 – 1674) si è accennato in precedenza circa la sua cifra
stilistica, cui i modelli producono lo sviluppo del ”genere”, rapidamente
innestati altresì nell’oratorio in volgare. La sua presenza a Roma è
documentata dal 1629; egli in poco tempo diviene uno dei protagonisti del clima
musicale della “Città Eterna”. Regnanti di paesi europei lo vorrebbero maestro
nelle loro corti, desideri inattuabili – a essi risponde solo con saltuari
lavori realizzati “nell’Urbe” - poiché
il musicista preferisce la metodica attività e il quieto ritiro nelle “stanze
romane”, situazioni confacenti all’austerità della sua laboriosa vita
imperniata sulla stretta osservanza religiosa, tanto da ricevere, nel 1637, la
tonsura e in un secondo tempo gli ordini minori, potendo così servire le
funzioni liturgiche. Nel frattempo la sua fama di prodigioso musicista attira
numerosi allievi, appartenenti alle più influenti famiglie nobili di Roma e, di
queste, intrattiene frequenti rapporti con quella dei Barberini, non
tralasciando i suoi solidi contatti con il circolo di Cristina già regina di
Svezia; prestigiosi “territori”, dove la freschezza e la bellezza espressiva
delle sue composizioni destano grande ammirazione. Nel 1649 è nominato
dall’Arciconfraternita del SS. Crocifisso, una prima volta, maestro compositore
di un oratorio, da eseguire durante la Quaresima del successivo 1650, anno
santo, con altri musicisti tra cui Benedetto Pasquini (1637 – 1710), virtuoso
clavicembalista e anch’egli pregiato autore e introdotto sia negli ambienti
della nobiltà romana e sia in quelli ecclesiastici e artistici.
Tale
considerevole incarico segue l’eco assunto dal suo oratorio Iephte (1646), - si imprime nella
memoria il coro finale a sei voci così fulgido, tormentoso e nel contempo dolce
- talmente eclatante che l’erudito ed enciclopedico gesuita, Athanasius Kircher
(1602 – 1680), dedica una sezione del suo studio sulla musica, Misurgia Universalis Sive Ars Magna Consoni et
Dissoni (1650), proprio a questo oratorio, inserendovi con caldo plauso una
parte.
Non
seguiremo gli avvenimenti fluiti nel corso della via del “nostro” eminente
compositore, giacché l’intento, di tale post,
non risiede nella volontà di elaborarne una sorta di biografia, ma di coglierne
la sua peculiare elevatezza artistica.
La
rimarchevole personalità artistica di Carissimi si staglia fra quelle
protagoniste, in ambito musicale, del XVII secolo, accostandosi come
importanza, ad esempio, al melodramma di Claudio Monteverdi (1567 – 1643), per
il comune merito di aver creato un tono declamatorio, molto espressivo, colmo
di liriche emozioni e di sentimenti liberati, scevro di giochi meramente
virtuosistico-vocali; anche l’orchestrazione è sobria, improntata a una
severità e a una semplicità (solitamente organo solo, pochi archi, basso
continuo) quali insopprimibili riferimenti. Ritorniamo perciò, come lucente
paradigma, allo Iephte. Lo scritto
scaturisce dal capitolo XI del libro biblico dei Giudici, dove emerge la figura
di Iephte, giudice e capo d’Israele, vittorioso sugli Ammoniti, tuttavia
stretto dal suo voto che conduce al sacrificio della sua unica figlia:
sentimento di acutissimo dolore, contrastante con il gaudio per la sconfitta
subita dal popolo nemico. Le tre sezioni dell’oratorio (battaglia, gli inni
festosi per il favorevole esito del conflitto, il drammatico epilogo
dell’episodio) stendono cambi di tonalità ascendenti e discendenti, pause di
eloquente espressività, brevi dissonanze sul basso continuo, irti e poliformi
intervalli, in un succedersi armonioso di arie, di cori e di recitativi. Lavoro
intenso e penetrante, unitario nella sostanza, dove il recitare ha foggia di
protagonista, senza però soffocare la musica, che, al contrario, strettamente
unita alle parole disegna il completo aspetto del tragico epilogo. Domenico
Alaleona (1881 – 1927), musicista e letterato, nel suo volume “Studi sulla storia dell’oratorio musicale in
Italia” (1908) a riguardo scrive: ” è
nell’espressione del dolore che l’oratorio più eccelle: il dialogo tra Iephte e
la figlia e i loro lamenti … sono fra le pagine più efficaci e commoventi che
il dolore abbia ispirato all’arte musicale”.
Carissimi
esilia dal suo lessico sonoro la convenzionale superficialità di certo
artificioso “tecnicismo”, modellando e creando elementi musicali in una
combinazione brillantemente insolita, riuscendo a imporre, in Europa,
l’oratorio latino, per lo sprigionare di una felice e geniale padronanza
talentuosa, che si incide nell’animo.
Imprevedibile
aureo secolo, il Seicento, avvia linee artistiche nuove, ridonando alla musica
sacra, grazie al “nostro” musicista, quella vivace dignità, altrimenti negata
dal rigido e sterile schema che, impropriamente, si richiama al Palestrina
(Giovanni Luigi da, 1525 – 1594), in realtà molto discosto dalla schietta e
austera icasticità musicale palestriniana, in cui vi alberga una consonanza di
radianti colori e di incisivi stupori sonori. Inoltre, il panorama si affaccia
su una vista inondata dalla musica strumentale, accolta con favore e ricca di
fascino, tale da conquistare, in misura crescente, “platee” sempre più ampie.
Carissimi, che della musica sacra magnificamente ne rinnova i
capisaldi, manifesta la sua autentica e generosa creatività anche nel campo
della cantata (composizione vocale e strumentale su testo di argomento sacro o
profano), mostrando una densa varietà formale e un pregiato livello, tanto da
essere considerato anche l’artefice di tale accento musicale, cui alcuni tratti
si annodano ai suoi oratori. Artista eccelso, cui la produzione pur distende mottetti,
dispiega organici vocali privi di limiti linguistici, come esemplifica
splendidamente la sua Messa a 5 e a 9
voci (1670, circa), non dimenticando i Sacri
Concerti Musicali (1672, circa), e altre messe nate dal suo genuino fervore
creativo.
Nell’oratorio si svela ancor più le, assolute, vette della sua
originale vena, in tale forma musicale strettamente italiana, figlia di quel
pulsante vasto spazio in cui fermenta la cultura e l’arte in Roma, luogo
elettivo di gran parte della eccezionale vivacità creativa, che
contraddistingue l’Italia in quelle stagioni insostituibili. La naturale
attitudine a vivere in questo immenso e operoso lido, dove novità di nature
differenti e nuovi alati squilli artistici si susseguono senza tregua,
determina probabilmente in Carissimi l’esile cura di affidare, alle stampe, le
sue creature musicali manoscritte, dovendo invece ringraziare l’amorevole
attenzione di qualche suo ammiratore e di taluni allievi, per le pubblicazioni
(purtroppo esigue rispetto a quanto composto) a noi pervenute e degli oratori
conservati. Egli, uomo di elevata cultura, di alcuni testi ne è, come
ipotizzabile, l’autore, per l’evidente spessore letterario in essi evidente,
superiore a quello piuttosto convenzionale di scrittori coevi, che, se
presenti, la sua musica affranca dalla pochezza, rendendo concreta la
plausibilità dell’azione nella “sostanza scenica degli affetti” e infondendo un
coerente alto valore artistico, a quanto unitamente viene rappresentato.
A proposito di allievi, molti musicisti - e aspiranti tali- giungono
a Roma, per ricevere illuminanti lezioni e preziosi consigli dal Carissimi;
importanti artisti che rispondono ai nomi di: Antonio Cesti
(1623 – 1669, molte voci concordano nell’indicarlo studente del “nostro
musicista”), Marc-Antoine Charpentier (1634, circa – 1704, già in precedenza citato),
Johann Kaspar Kell (1627 – 1693, già in precedenza citato), Johann Philipp
Krieger (1649 – 1725), Alessandro Scarlatti (1660 – 1725, secondo alcune fonti),
Agostino Steffani (1654 – 1728, vescovo dal 1706, influenzerà il giovane
Handel), e altri; illuminati artisti che ne legittimano la notorietà e
l’autorevolezza musicale.
Nell’osservare
l’organica inventiva di questo maestro, non deve essere omesso anche quel fine
senso umoristico, incisivo elemento del suo linguaggio; ne forniscono prove le
cantate, - con testi in volgare, in francese e in latino – Histoire des Cyclopes, Crolla
il Mondo, Requiem Burlesque Latin et Français, I Filosofi, e così via.
L’animo
pregno di una sincera religiosità, riflettono la sua concezione artistica,
senza dubbio sobria ma densa di raffinata semplicità, che allontana qualsiasi
impoverimento dal tessuto sonoro; i caratteri distintivi dei suoi oratori saldamente
poggiano sulla narrazione dell’avvenimento biblico o sacro, condotto sia dallo
“storico” - come si è già considerato, tipico elemento oratoriale – sia dal
coro esposto in chiave personalissima e priva di vacui effettismi polifonici. Oltre
a ciò, la spontanea naturalezza, nel sublimarsi, dissigilla una sintesi di
palpabile tragicità, capace espressione impressa sui personaggi scolpiti con
singolare emotiva intensità, che rendono distinguibili anche le più lievi
sfumature del sentire umano. L’intellettiva destrezza di Carissimi offre,
all’auditorio, le immagini delle differenti vicende, attraverso i “colori
psicologici” del suono, senza l’ausilio di apparati teatrali, di costumi e di
luci, creando quello che si definisce “rappresentazione auditiva”. Infine, la meditazione,
quando il compositore affida anch’egli il coro alla “voce del popolo”,
lasciando che le parti si intreccino vivacemente e secondo collaudate formule
contrappuntistiche ben controllate, dipinge uno smagliante momento riassuntivo
dell’oratorio, nel quale sfociano unità vocali e sonore antiche e moderne.
Giacomo Carissimi (1605 - 1674); immagine tratta da "Google Immagini"
Frammento della partitura dell'oratorio Iephte; immagine tratta da "Google Immagini"
Prospetto dell' Oratorio del SS. Crocifisso
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Riporto
di seguito i post
di argomento musicale sinora pubblicati.
· Arcangelo Corelli, il
paradigma musicale dell’ambiente aristocratico e artistico romano (18 luglio
2015)
· Handel nello splendido vivore artistico
di Roma (6 febbraio 2015)
· Il Grand Tour a Roma di
Felix Mendelssohn-Bartholdy (20 giugno 2016; attualmente nono post dei più letti)
·
Mozart a Roma (27 novembre 2014)
· Alessandro Scarlatti: il
clima musicale della Roma barocca; l’oratorio; “Il martirio di S. Cecilia” (9
dicembre 2014)
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