Tra
gli apparenti modesti spazi di via Anicia, non compresa nelle “luci” di
Trastevere, si staglia lo scenografico prospetto della chiesa di S. Maria dell’Orto,
iniziato da Iacopo Barozzi, detto il Vignola (1566-1568) e completato da Francesco
Capriani, detto Francesco da Volterra (1576-1577).
All’interno
di questo tempio aleggiano artistici rimandi soprattutto a Luigi Barattoni,
Gabriele Valvassori, i quali tra il 1720 e il 1755, circa, pur modificando
interamente gli equilibri architettonici cinquecenteschi realizzati da Guidetto
Guidetti (trasformazione dell’impianto in forma basilicale), hanno disegnato la
coesione cromatica e plastica di tutti gli ambienti che vi si esplica.
L’arte
di molti maestri echeggia negli ornati spazi della chiesa, in cui s’innalzano
visibili i versi di Giacomo Della Porta (altare maggiore, in seguito restaurato
dal Valvassori), Federico e Taddeo Zuccari (Annunciazione;
Storie della Vergine), Giovanni
Baglione (cito la Vergine col Bambino tra
S. Bartolomeo, S. Giacomo il Maggiore, S. Vittoria), Giacinto Calandrucci
(cito la Resurrezione di Cristo) e
altri.
Dal
consistente impianto plastico rifulge una pala che esclama la cappella in cui è
posta: il Battesimo di Cristo della
cappella titolata a S. Giovanni Battista.
Tale
penetrante opera è compiuta, nel 1750, da Corrado Giaquinto (1703 – 1765) attivo
a Roma dal 1727 dopo una prima esperienza affrontata a Napoli; una fruttuosa
parentesi torinese (1738 -1739) lo consegna a una sicura maestria, attraverso
la quale si esprime in cifra elegiaca, diffusa con morbidi e lievi toni, in cui
spirano chiare modulazioni e leggere patine, che rifuggono dal mero esercizio calligrafico
mostrando perciò lavori pittorici di altissimo tono, dove il “carattere arcadico”
raggiunge il pieno epico idillio fondendo la “dimensione eroica” con quella
“galante”, realizzando in tal modo una coerente, appropriata raffigurazione
“del bello”. I più intensi sentimenti si arrestano, volutamente, in una vivida
superficie estetica, nella quale perciò si addensano anche moti agitati ma
risolti ammorbidendo ciò che scuote l’anima dei personaggi, trasformando
l’impetuoso torrente del pathos nell’ordinata sponda del patetico, esiliandone
però l’eccessiva languidezza (Apollo e
Dafne; Morte di Adone; Storie di Enea; Trionfo degli Dei, oggi perduto).
Tornato
nella “Città Eterna” (ante fine del 1739) la sua presenza artistica si concreta
nei lavori in: S. Giovanni Calibita (1741), S. Croce in Gerusalemme (1743 e
1750 - 1752), S. Lorenzo in Damaso (1743), Palazzo Borghese (1744, circa), S.
Lorenzo dei Lorenesi (1746).
La
sua adesione alla temperie classicista si esplicita nei temi che, egli, dipinge
in quei luoghi, quintessenza di quel proprio pregevole cromatismo congiunto a uno
squisito linguaggio espressivo e a una stringente, solenne monumentalità compositiva
che interpreta, con fitta scioltezza creativa, l’armoniosa vibrazione
cromatica, della poetica soave, da lui padroneggiata.
Il
nostro dipinto, Battesimo di Cristo, però
non appare compiutamente conforme a quanto si appalesa in altre sue pitture. L’avvio
di questa nuova vena si materializza durante la sua lunga permanenza in Roma,
-che nel 1753 lascerà per Madrid, quale pittore di corte del re Ferdinando VI- realizzando
diverse pale d’altare destinate sia a committenti italiani, sia a committenti
esteri, tra i quali il monarca spagnolo, testimonianze della sua vasta e solida
fama di notevole artista. In tali opere avanza una maturata e felice rilettura
del Barocco, come avvenuto, ad esempio, già in Francesco Solimena – di cui
Giaquinto è stato allievo nella città partenopea- all’incirca un ventennio
prima. La minore aderenza allo stile classicista, ben evidente in questi lavori
da “esportazione”, consente raffigurazioni rigorosamente imponenti e dal
carattere “maiestatico”, che sono talmente apprezzate da convincere lo stesso
Giaquinto – e non solo lui- a evidenziare maggiormente questo recupero, in
chiave d’incisiva svolta altresì “nell’Urbe”, mutamento cui cogenti elementi
permarranno nella sua vicenda artistica, sebbene egli ritornerà nel “perimetro
classicista”. Questo particolare momento determina la presenza di sue
monumentali realizzazioni nella Basilica dei Santi XII Apostoli (Immacolata Concezione, 1749 -1750) e
nella chiesa della SS. Trinità degli Spagnoli (SS. Trinità e liberazione di uno schiavo per opera di un angelo,
1750 circa).
In
questo novello alveo si colloca il Battesimo
di Cristo (1750), conservato nella Chiesa di S. Maria dell’Orto. Il tema è
svolto con originale pienezza naturalistica, che espone eloquenza narrativa con
felici giochi chiaroscurali, che già dalla volta celeste le variazioni
cromatiche si spiegano nella differente posizione delle nubi rispetto alla
luminosa fonte, la colomba, figura sensibile dello Spirito Santo, immagine da
cui la scena, così tutta investita, si disvela definendo le peculiarità delle
forme e dei rilievi. L’estesa sensibilità cromatica e luministica, espressa
dall’artista, infonde un’equilibrata saldezza volumetrica posta in rilievo, per
l’appunto, dagli spessi contrasti fra luci e ombre, che sebbene l’insieme
raffigurato sia volto a una complessità di azione, l’insita finezza suggella
l’impianto con inedito recupero di esperienze barocche, ripudiando un’impersonale
e scontata impostazione calligrafica “statutaria” dei personaggi, sostanziati
invece da una reale plasticità, attraverso un visibile moto d’animo che permea le
figure stese sulla tela con solida inventività.
Il
dipinto si apre quindi in vasta figurazione con la sua preziosa eloquenza cromatica
e con le sue lievi ombreggiature, tratti di raffinata eleganza compositiva e di
fitta grandiosità pittorica.
Una
tenue spettacolarità diffonde il carattere del tema iconologico, rinunciando a
prospettive multiple e a ridondanti, sfarzosi artifizi scenici.
La
luce dunque emanata dalla colomba, tra scure nubi rischiarate da quel diafano
luminoso raggio, che attraversa la mano del Battista per coronare il capo di
Cristo –su cui è versata una traslucida acqua- e scendere “scorrendo” su sue
chiare membra, sino a diffondersi nel tranquillo letto del fiume Giordano, irradiandone
altresì la sponda. In quell’acqua fluviale, così trasparente e resa tale dall’alta
luce divina, poggia sospeso il piede destro del Messia (mentre il ginocchio
sinistro è flesso su uno squadrato masso, perciò su una compatta e stabile
roccia); in quel lucido segmento di fiume cade il profondo raggio visivo del
Figlio di Dio, alludendo, l’immagine, alla vera fonte
che, Egli, offre all’uomo; sorgente da cui sgorga l’acqua della vita, com’è
affermato nel Vangelo di Giovanni Apostolo, al capitolo quattro, versetti quattordici
- quindici, in cui è narrato l’episodio dell’incontro con la Samaritana: “ … chi beve dell’acqua che io gli darò non
avrà mai più sete; anzi l’acqua, che io gli darò, diventerà in lui una fonte
d’acqua che zampilla in vita eterna”. La forte sete spirituale, nascosta
nell’antro dell’animo umano, trova il suo termine nell’incontro con il Cristo,
fonte della verità grazie alla quale una mutata forza sorge, affrancando l’uomo
dal crepuscolo del fallimento interiore.
Tale
chiaro traslato è magistralmente fissato da Giaquinto in questa sua opera, dove
si espande un reale toccante “testo” poetico. Gesù Cristo, dalla possente e nel
contempo delicata corporatura, è preso da umile atteggiamento, che possiede in
sé una regalità altra, mostrando uno sguardo chino ma non dimesso, rapito da
una dimensione d’inafferrabile spiritualità, la quale esplicita la sua missione
di “Agnello di Dio”, – come proprio additato dal Battista, secondo il Vangelo
di Giovanni - immediatamente prima del suo inizio. Il Divino Maestro, in tal
guisa effigiato, è perciò l’agnello pasquale, il cui sacrificio donerà agli
uomini quella capacità di sottrarsi al buiore del “peccato del mondo”, innalzando l’essere umano verso quel regno -dapprima
interiore- celeste, liberandolo dalla morte veramente eterna. La splendida
naturalezza dell’apparato iconico, la sua compiuta corrispondenza formale con
il tema esposto, non è contraddetta dalla presenza delle due figure “angeliche”,
dalle pose devozionali, poste in piano secondario rispetto ai due protagonisti,
anzi esse rilevano la ferma natura mistica di quanto disegnato.
Giovanni
Battista, raffigurato tra lo Spirito Santo e il Figlio di Dio, in una combinata
fasciante “aura” chiaroscurale, per mezzo di una fluida pennellata torreggia sopra
lo sfondo, quasi con audace monumentalità, mostrando un dinamismo genuinamente
barocco, non scevro di poderosa armonia, sottolineata dall’espressione
composta, controllata del suo volto, il quale mitiga la possanza del suo
aspetto fisico, che rievoca la sua testimonianza, alta e acuta, nel deserto,
luogo ove predica la vicinanza temporale dell’azione del Messia, che
differentemente dal suo battesimo somministrato con acqua, quello offerto dal
Cristo sarà compiuto con lo Spirito Santo.
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