Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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sabato 3 marzo 2018

Giovanni Battista Maini: il monumento funebre di Antonio Publicola De Santacroce e Girolama Nari in S. Maria in Publicolis


La misconosciuta e quasi nascosta chiesa di S. Maria in Publicolis è situata nell’aerea limitrofa all’attuale Largo di Torre Argentina e all’odierna Via delle Botteghe Oscure, dove il Portico di Minucio si espandeva tutt’intorno a un’enorme piazza, al centro della quale si ergeva un tempio (non identificabile), costruito dal console Marco Minucio Rufo (Porticus Minucia Vetus) nel 110 a.C., pur se alcuni studi individuano tale ambiente intorno ai templi della - anche così denominata - Area Sacra di Largo Argentina.

Dopo il grande incendio dell’80 d.C. che devasta l’intera zona, avviene un’intensa attività edificatoria, che comprende altresì la costruzione del Porticus Minucia Frumentaria sotto l’imperio di Domiziano (81-96 d.C.), luogo deputato per la distribuzione gratuita del grano a favore del popolo.

La chiesa è menzionata nel cosiddetto catalogo Salisburgense, anteriore al 682, antico documento che cita i luoghi di culto della Roma cristiana e nel codice della biblioteca del monastero di Einsiedein (Svizzera) del secolo VIII, così come in un codice compilato durante il pontificato di Leone III (795 – 816), mentre nella bolla di Urbano III (1185 – 1186) è indicata, quale luogo sussidiario di culto di S. Lorenzo in Damaso, “S. Maria in (o de) Publico”, espressione latina (mettere a disposizione del pubblico) che rimanda, probabilmente, al ricordo dell’antico Porticus Minucia Frumentaria.

Durante il XIII secolo la famiglia Santacroce ottiene, su questo luogo di culto, il giuspatronato, vale a dire il diritto di proteggerla e di mantenerla, dotandola di beni patrimoniali dai quali essa (e soprattutto chi la gestisce) ne tragga rendite. Proprio per decisione dei Santacroce che, nel 1465, la chiesa è ampiamente restaurata.  

L’influenza di tale nobile famiglia romana, – sin dal 1250 definita nei regesti delle famiglie dell’Urbe come “antiquissima”- in questa area della “Città Eterna”, è così predominante da vantare la discendenza dal console Publio Valerio Levino (Publicola Valerius Laevinus), che nel 280 a. C. combatte con successo contro Pirro. Questa forte volontà di nobilitare maggiormente la propria origine, ricongiungendola all’antica Roma quale aulico lignaggio dei Valerii Publicolae, i Santacroce, intorno alla metà del XVI secolo, aggiungono al loro cognome l’altro di Publicola ed essendo anche i proprietari di un vicino palazzo, imprimo altresì alla chiesa il nuovo appellativo, che permarrà, in publicolis”. Nel medesimo periodo, Prospero Santacroce, viene creato cardinale di Santa Romana Chiesa da Pio IV nel 1565, mentre Antonio, suo nipote, lo diviene nel 1629 e Marcello, nipote di Antonio, lo è dal 1652, cui segue nel 1699, in questo alto titolo di prelatura, Andrea il nipote di Marcello.

Nel 1643 ormai fatiscente e preannunciando una tremenda rovina, la chiesa è demolita e riedificata per volontà dell’alto prelato, all’epoca ancora non cardinale, Marcello Santacroce, che ne affida i lavori a Giovanni Antonio De Rossi, che interamente la edifica.

Le trasformazioni avvenute altresì nell’ambito ecclesiastico cittadino, dovuto pur agli avvenimenti storici succedutesi (Repubblica Romana filofrancese 1798 – 1799; occupazione napoleonica 1809 – 1814), costituiscono i presupposti di quanto Leone XII, con l’enciclica Super universam del 1° novembre del 1824, compie circa la riforma della struttura delle parrocchie romane, già avviata da Pio VII, abrogando nei confronti di questa chiesa la “cura delle anime”. Tale attività religiosa si esplica nell’assistenza personale spirituale nelle differenti situazioni della vita pratica, attraverso la confessione, la cura devozionale, i colloqui e gli aiuti materiali; l’impegno pastorale è perciò attribuito alle vicine parrocchie dei Ss. Biagio e Carlo ai Catinari, di S. Maria in Monticelli e di S. Maria in Campitelli.

Nel 1858 la famiglia Publicola Santacroce consegna la chiesa a S. Gaetano Errico (1791 – 1860), fondatore nel 1833 della Congregazione dei Missionari dei Sacri Cuori, cui lo scopo è imperniato sulla diffusione della devozione dei Sacri Cuori di Gesù e Maria. La Congregazione ancora oggi officia la chiesa.

Un’unica navata accoglie il visitatore; spazio definibile come una grande cappella gentilizia, dove sono sepolti membri della famiglia Santacroce. Spazio che appare quale equilibrato e gradevolissimo armonico insieme.

Una piccola ma preziosa gemma artistica, che sembra congiungersi con l’altra, la pala dell’altare maggiore (Natività della Vergine, di Raffaele Vanni, 1660, circa), è concretata dal monumento funebre, all’inizio del lato sinistro della navata, eseguito da Giovanni Battista Maini (1690 – 1752) nel 1750, con le quasi “mezze figure” marmoree di Antonio Publicola De Santacroce e di Girolama Nari.

Il Maini è scultore che evidenzia, nei suoi lavori, eloquente finezza e brillante gusto con cui modella le figure scolpite. Vivaci combinazioni ritmiche e una raffinata trattazione delle superfici marmoree, realizzate con delicati tratti di ombre e di luci, personale trattazione del linguaggio tardo barocco mostrato con vivace e trepidante plasticismo.

La sua capace abilità creativa ed esecutiva è testimoniata, ad esempio, nel 1727 quando il principe Camillo Pamphilj lo incarica di compiere il monumento funebre – in S. Agnese in Agone - del suo avo Innocenzo X (1644 – 1655), il quale, oltre alla statua del defunto pontefice, comprende le due statue della Fede e della Giustizia (gruppo scultorio terminato nel 1730). Inoltre, nel 1728 è tra gli appartenenti all’Accademia di S. Luca e nel 1730 è indicato quale “primario scultore di Roma”. Tra i successivi incarichi affidatagli, spicca quello del 1731, che lo vede membro della commissione, esaminatrice dei progetti, per il nuovo prospetto principale della basilica di S. Giovanni in Laterano (esecuzione assegnata ad Alessandro Galilei). Proprio in quella Basilica innalza la sua somma opera: il monumento funebre del cardinal Neri Corsini (1733-1734), non tralasciando la preziosa statua bronzea di Clemente XII, posta nella medesima Cappella Corsini.

Abbandoniamo ora le vicende biografiche di questo scultore, che, quando “giunge” nella chiesa di S. Maria in Publicolis, è da molto tempo maestro di nobile fama e ormai prossimo a terminare il suo percorso di vita. Infatti, nel 1749 inizia a lavorare sulla “nostra” scultura completandola - tra diversi lavori cui si dedica- nel 1750 (egli morirà, come già in precedenza indicato, nel 1752).

Opera che echeggia, in tono molto minore e parzialmente, i personaggi defunti che assistono, quali viventi, all’Estasi di S. Teresa, uno dei magnifici culmini dell’acutissimo ingegno di Gian Lorenzo Bernini, che rifulge dalla Cappella Cornaro in S. Maria della Vittoria, completata intorno al 1652. Nella “nostra” chiesa la scultura del Maini evoca un organismo architettonico, una risplendente nicchia che espande lo spazio retrostante alle due figure principali, mentre ai lati della composizione due putti rappresentano il pungente dolore causato dalla morte, attraverso espressioni quasi contrapposte. Invero, quello di sinistra emana un sentimento di fonda ma controllata afflizione; al contrario quello di destra è compenetrato da un irrefrenabile dolore manifestato dal pianto, che sembra invadere la piegata mano sinistra. Il nero mortale drappo, su cui sono incisi i riferimenti ai due nobili defunti, è nella parte inferiore sollevato da un teschio, dal quale proviene tutto il movimento di quel panno che presto ricoprirà le sembianze di quei defunti, eppur ancora ritratti viventi.

La figura muliebre è presa da uno sguardo altro rivolto verso l’altare maggiore, una silenziosa preghiera, attestata dal libro delle ore - comprendente brani tratti dalla Sacra Scrittura, cantici, inni, preghiere, salmi e così via per la preghiera quotidiana - che saldamente tiene con la mano destra, fuoriuscente, come l’altra, da un lucido panneggio, lambito da un soffio leggero.

La figura maschile è ancor più protesa verso il fulcro del presbiterio, e il gesto della mano sinistra, posta sul torace dove pulsa il cuore, manifesta la sua vivida fede in Dio, la sua palese fiducia nella Vergine. Le sue ricche vesti, la nobile parrucca settecentesca ne sottolinea il blasone.

Dalla penombra sono queste sculture, con il loro bianco marmo, a catturare lo sguardo del visitatore; l’insieme scultorio riesce a sostanziare la commemorazione della famiglia Publicola De Santacroce, quale costante presenza nella vita del luogo di culto. Esempio ritrattistico proprio della storia dell’arte, dove si evidenzia un classicismo permeato di tardo barocco, combinata osmosi di diversi caratteri e tendenze entro un sistema compositivo, inteso quale fondamentale connessione tra le figure e l’ambiente circostante, ponendo in rilievo il pieno significato di quanto l’opera allude.