Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

Io Spiego

giovedì 2 maggio 2019

Raffaello nell’estro letterario


Nominando Raffaello Santi, vulgato come Raffaello Sanzio (Urbino 1483 - Roma 1520), la mente si volge, priva d’indugio, alla sua opera pittorica (che sovravanza, nella memoria, la sua abilità architettonica), summa eletta dell’arte figurativa rinascimentale, in cui si amalgamano con fulgente equilibrio e chiarezza, attraverso una piena personalità indipendente, le più vive esperienze plastiche della sua epoca. Hanno così sostanza di rilettura autonoma espressioni diverse, come i delicati tratti spaziali della scuola toscana, il profondo senso spirituale umbro, lo “sfumato prospettico” di Leonardo, l’acutissima espressività michelangiolesca, il “colorismo” della pittura veneta. La sua prodigiosa capacità di assimilare l’arte figurativa, nella sua totalità, i variegati modi, può travolgere pittori meno dotati, ma non Raffaello, che invece, già dal suo primo periodo, li disciplina, poi superandoli effondendo, ad esempio, una straordinaria agevole cadenza. Egli raffigura l’ideale di bellezza generato da un’assorta ed empirea meditazione, da cui le opere adempiono i più elevati fini dell’Umanesimo; l’inconfondibile suo virtuoso timbro espressivo, assimila dunque il gusto della pittura coeva. La sua materia di consistente plasticità non può che rinsaldarsi con la monumentalità, che iscrive poderosi aerei raggi di luce, fughe prospettiche, verticalità delle figure, non soggiacendo -lui giovane luminoso talento- supinamente alla fascinazione di acclamati ambienti artistici. Sue le quieti ombre, che armoniosamente stende sino a sfiorare con dolcezza il modellato, condotto con acume raffigurativo nella sinfonia di effetti volumetrici, nell’accuratissima distribuzione chiaroscurale. Ombre enuncianti immagini di superba proporzione, impostate su una rigorosa levità di ritmi, trasmutati in un temperato spazio, rigettante una sterile aulica trasposizione, sino a esporre una riserbata spiritualità che ne pronuncia l’intima passione. La regalità, dei personaggi ritratti, viene esaltata dalla perfezione dei lineamenti incisi nei volti, negli incarnati pregni d’interna luce. A Firenze, il giovane artista, manifesta già uno straordinario rapporto tra figure e spazi architettonici, affondando in chiave monumentale una nuova impostazione compositiva, proemio pieno di ciò che lo magnificherà a Roma, dove eseguirà le maestose opere pittoriche.
Nella “Città Eterna” si trasferisce tra l’estate e l’autunno del 1508, per volontà (su probabile consiglio del Bramante) di Giulio II (1503-1513) –Giuliano della Rovere-, per decorare, inizialmente insieme con altri pittori, tra i quali il Sodoma, a fresco le nuove Stanze vaticane, cominciando da quella della Signatura” (1508-1511). Tale ambiente è così appellato dal nome del più importante tribunale pontificio –che vi si riunirà dalla metà Cinquecento, circa-, quello della “Signatura Gratiae et Iustitiae”, governato dal pontefice, ma in precedenza progettata quale studio privato e biblioteca proprio di papa della Rovere; questo particolare vano sarà utilizzato dal successore, Leone X (Giovanni de’ Medici, 1513-1521), altresì quale “stanza della musica”.
Il fulgore dell’arte figurativa, dell’Urbinate, connota presto i suoi primi lavori vaticani, tanto da convincere lo stesso Giulio II ad affidargli la realizzazione dell’intera impresa degli affreschi. S’irradiano così in quei luoghi un infinito respiro che effigia un soprannaturale sentire, tra argentee luminosità, frementi magnifiche passioni, fulgenti insolite reinterpretazioni di una visione imbevuta di “pensiero classico” e di “antico” reso con nuovo magistrale verso; elementi serrati tutti con equilibrata e monumentale unità nel disegno dello spazio diversificato e dunque libero. La formidabile naturalezza delle figure è svolta con fluente e mossa grandiosità sculturale, imponente animata perfezione che concreta quell’idealità, concepiti dal Rinascimento, sostanziata “nell’idea” di società ideale. Nulla però soggiace a edulcorati schemi, a imbolsiti stilemi, anzi una virulenta drammaticità appare nella stanza di Eliodoro (la seconda decorata da Raffaello tra il 1512 e il 1514; ambiente voluto per le udienze private del pontefice). V’impera un’aria rotta da impenetrabili bagliori e sfingei riverberi, grigie architetture su cui avvampano raggi aurati, vesti agitate da un ardente sentimento policromatico, sontuosi splendori dispiegati di sotto a un cielo sicuramente azzurro ma annunciante la notte, repentini effetti luminosi e preziosi paramenti, freschezze primaverili e rossi squillanti; un’aura di maestosità rivelata da incandescenti sfumati contorni, da strepitosi effetti di controluce fuoriuscenti da cupi schermi. L’opera raffaellesca assurge, in tal modo, altresì a sfida con le, coeve, differenti espressioni della pittura, poiché alla “eroicità” delle figure vi fissa una mirabile agilità compositiva, come se una fertile inquietudine creativa lo inciti, guidandolo, a cimentarsi in nuovi linguaggi figurativi; una sfida volta a privare di qualsiasi “staticità intellettuale” il, magnificente, portato della sua arte. Da questa straordinaria “ansia” sorge ciò che Roberto Longhi, il celebre storico dell’arte, definisce circa la stanza dell’Incendio di Borgo (utilizzata da Leone X come sala da pranzo), la terza dipinta da Raffaello (1514, circa e il 1517), quale atto pittorico declamatorio che ritorna come poesia. Difatti, pur se in grande misura è lavoro eseguito da allievi dell’Urbinate -su suoi disegni-, egli realizza con enfatico slancio un peculiare gergo, pregno di struggente tragicità. Nuova e appassionata meditazione rivelata con linguaggio d'inesorabile spontanea purezza, capace di rivelare con evidenza immediata fisionomie, espressioni, caratteri, atteggiamenti, tratti architettonici, elementi naturali nel battito improvviso di raggi lucenti.
Artista circondato da eclatante ammirazione, tributata assai presto, è oberato da impegni e incarichi, tali da non poter attendere personalmente all’esecuzione di tutte le copiose opere commissionategli, come dimostra, per l’appunto, l’ornamentazione dell’ambiente de “L’Incendio di Borgo”.
Ora però tralasciamo il poetare pittorico del Sanzio, per vergere al suono dei suoi, sparuti, versi lirici assai petrarcheschi, sebbene mantengano talune sue costumanze linguistiche.
Una fonte d’ispirata immagine, per il Sanzio, di artista conscio del proprio sapere, abile a esplicitare rilevanti doti letterarie, è da accordare al padre, Giovanni Santi (1440, circa – 1494). Pittore, cui la capacità figurativa è oggi, in parte, rivalutata, riconoscendone un’abilità che intesse articolazioni evocatrici, certamente non statiche, create con armoniosa intensità di luce e di colori, elementi fondamentali nella realizzazione dei volumi disegnati. Egli è uomo colto, che agisce con valenza nella sfera letteraria e teatrale; artista perciò “totale”, dalla vasta conoscenza delle diverse espressioni dell’arte, fortemente “provata” nel suo animo. Brillante protagonista nella corte di Federico da Montefeltro, signore di Urbino, che accoglie il principe Federico d’Aragona (futuro Federico I, re di Napoli per un breve periodo) con notevoli festeggiamenti, culminati con la rappresentazione teatrale dell’opera in versi, Amore al tribunale della Pudicizia, composta (1474) e diretta proprio dal Santi. Lo spettacolo, metafora della castità, includente recitativi, cantate e balli, desta una ragguardevole eco. Acclamato poeta di corte, realizza -tra il 1482 e il 1485, circa- La vita e le gesta di Federico da Montefeltro duca di Urbino, poema in terza rima (la terzina possiede un metro aperto, incentrato su una struttura generante una continua spinta “in avanti” delle rime, con tensione costante), scritto impegnativo, cui una sezione svolge un disteso scenario delle temperie pittoriche inerenti alla sua epoca. 
Raffaello in Roma, durante l’ornamentazione figurativa della Stanza della “Signatura”, verga su fogli (1509, probabilmente) comprendenti i suoi disegni preparatori per l’esecuzione della cosiddetta Disputa del Sacramento, i cinque sonetti –con varianti- a oggi conosciuti e con sicurezza attribuitigli, cui del quarto e del quinto rimangono solo dei frammenti. La relativa paternità raffaellesca è attestata anche dalla grafia, così conforme a quella mostrata dalla lettera scritta, dall’Urbinate, allo zio materno Simone Ciarla (1508).
Poesia dunque, composizione di versi che sembrano, in questo caso, in rapporto con la pittorica somma arte del Sanzio, magnificata altresì dal Parnaso (altro affresco della “Signatura”, eseguito successivamente a quello della “Disputa”). Il Parnaso, massiccio montuoso dalle due cime sacro ad Apollo, il dio -tra le altre sue attribuzioni- della musica, della sapienza filosofica e del culmine creativo, che trova piena realizzazione nell’arte, nel canto poetico, suscitante nell’uomo la sublime emozione del bello, di cui la capacità creativa dell’artista, quale artefice, ne sancisce (etimo dal latino “rendere sacro, inviolabile”) la forma. Il Parnaso, dimora  delle Muse (una delle “residenze”ad esse consacrate), creature armoniose, strettamente congiunte ad Apollo, con le loro conoscenze degli elementi tecnici e delle imprescindibili abilità, che concretano l’arte nelle sue differenti espressioni, delle quali il nume ne è l’ispiratore.
Siamo innanzi a dei “tentativi poetici” di Raffaello, durante la creazione dei suoi, mirabili, affreschi, ove si erge un’ispirazione che, per come “il tutto” appare, dalla tavolozza (soprattutto il Parnaso) arriva, in tono minore, alle metriche. Creatività e passione amorosa in un eccelso pittore, che nel suo ingegno accoglie un’abilità letteraria, come sembra confermare l’immancabile Giorgio Vasari, il quale, terminando le sue “Vite”, scrive riguardo all’elaborazione delle stesse: ”I quali aiuti sono veramente sì fatti, che io ho potuto veramente scoprire il vero e dare in luce quest’opera … Nel che fare mi sono stati … di non piccolo aiuto gli scritti di Lorenzo Ghiberti, di Domenico Ghirllandai e di Raffaello da Urbino”. Altra base di appoggio, dell’acclarata abilità letteraria raffaellesca, è costituita dalle venticinque annotazioni di mano dell’Urbinate, apposte nel testo De Architectura di Vitruvio –il trattatista architetto dell’età augustea- tradotto, probabilmente tra il 1514 e il 1515, dal filologo Fabio Marco Calvo (e non solo, come attualmente si reputa), ai fini della ricostruzione testuale archeologica dell’antica Roma, progetto fondamentale per gli studi di Raffaello, utilizzati inoltre per le corrette ambientazioni architettoniche, così chiaramente definite nei suoi dipinti. Testo quindi colmo di aggiunte, chiose, postille alcune delle quali, come detto, scritte dal Sanzio. La sua rilevanza intellettuale è ancora suffragata dalla nomina insignitagli da Leone X, nel 1515, nominandolo “praefectus marmorum et lapidum omnium”, soprintendente quindi -nell’antico significato generico di colui che, da specifico incarico, esercita una mera verifica- di tutti gli antichi marmi rinvenuti (nel raggio di circa venti chilometri dalla Città) e selezionati per la costruenda Fabbrica di S. Pietro, della quale ne condivide la responsabilità (1514) con il domenicano Giovanni Giocondo da Verona (detto Fra’ Giocondo), alla cui morte (1515) succede Antonio Cordini (o Cordiani), detto Antonio da Sangallo il Giovane (1516). Il pontefice con la carica di “praefectus” gli affida dunque il compito di esaminare l’importanza delle epigrafi, delle inscrizioni incise sugli antichi reperti marmorei, prima del loro eventuale reimpiego edilizio, allo scopo di salvaguardare quelle considerate rilevanti per lo studio della lingua latina. Uomo colto, Raffaello, come evidenzia pure la celeberrima lettera al suo più potente fautore, il medesimo pontefice de’ Medici -scritta tra la fine del 1518 e la metà del 1519, non completata per la morte dell'Urbinate (1520); una sorta di prima stesura è di Baldassare Castiglione-, commissionante all’artista altresì uno studio circa la pianta di Roma antica, di cui l’epistola ne rappresenta la prefazione: ”Sono molti, padre beatissimo, che, misurando col loro debile giudizio le grandissime cose che delli romani, circa l’arme, e della città di Roma, circa ‘l mirabile artificio, ricchezze, ornamenti e grandezza delli edifici si scrivono, più presto estimano quelle fabulose che vere. Ma altramente a me sole avenire e aviene; perché, considerando dalle reliquie che ancor si veggono per le ruine di Roma la divinitade di quelli animi antichi, non estimo fòr di ragione credere che molte cose di quelle che a noi paiono impossibili, che ad essi paressero facilissime. Onde, essendo io stato assai studioso di queste tali antiquitati, e avendo posto non piccola cura in cercarle minutamente e in misurarle con diligenza, e leggendo di continuo li buoni auctori e conferendo l’opere con le loro scripture, penso di aver conseguito qualche notizia di quell’antiqua architectura”.  
Alcun dubbio sorge nei confronti di Raffaello sagace letterato.
Per i sonetti impiega alcuni vocaboli usati, ad esempio, da Brunetto Latini (1225,circa - 1294, circa), da Jacopone da Todi (Iacopone dei Benedetti; ?- 1306), da Dante, dal Tasso e da altri, ma sulla scrittura, memore di Luigi Pulci (1432-1484) e dell’Ariosto, spicca soprattutto il rinnovellato “modo” del Petrarca. Tali poesie sgorgano da una fugace sorgente d’amore per una, a noi sconosciuta, dama.
In Francesco Petrarca, Laura, è spazio infinito ove l’anima stabilisce la poesia, che svela passione sensuale, in sé provata con dolcezza, con gioia, con l’erompere del pianto. Nei versi egli instaura un insieme di nessi semantici, vivi nella sfera di un elevatissimo svolgimento poetico, trasformando l’istantaneo “carattere” psicologico in eloquente figura, ovvero in insistita metafora. Fronde e piagge, vivide acque e aurati capelli e caduchi fiori, che non vogliono avvinghiarsi a un consueto florilegio amoroso, poiché la continua muliebre immagine si abbiglia di un irraggiungibile desiderio, di un sogno quasi febbricitante. Rime contessute nel tema dell’irrequietezza, rifiutante il solito miscuglio di sentimentali argomenti, canto dove respira invece e anche un segno di negatività fitto di patimenti, d’insonni speranze, di un universo indecifrabile, di memorie disperse in visioni caduche. Laura non è finzione pura ma esistenza, che nella debolezza umana resta la sovrana fonte inarrestabile, che alimenterà il flusso vitale, del poeta, sino all’oscuro velo della foce estrema, quando gli occhi s’inabisseranno nell’eterno gelido sepolcro. Laura vertice della coscienza, lontananza e vicinanza dalle vicende sorte sopra e nelle stagioni dell’esistenza; metafora accesa e apparentemente ossessiva, abbracciata dall’esperienza, originata da un concetto divenuto palpabile. Laura nel pieno sguardo, del poeta, nei diversi periodi della sua vita, cantata costantemente nel medesimo modo, sebbene non accetti un’egoista visione, in cui l’amata si trasforma in narcisistico compiacimento di se stesso, tanto da cristallizzare intorno ad ella una gravosa sintesi di sentimenti, propri soltanto del cantore. Laura attraverso cui il Petrarca dona, ai lettori, la sua inusuale coerenza, celebrando quella donna, verso cui tutte le altre sue vicende sentimentali si sottomettono, determinandone la fama che sarà trasmessa ai posteri. Tutto l’avvenimento riguardante Laura desta un cardine impareggiabile, amore vivissimo che dall’etere - il lucente cielo avvolgente il mondo fisicamente percepito, dove il poeta con tutto se stesso la pone tenacemente- la richiama alla terra non rendendola perciò alternativa a una realtà altra. Ella dimora, con la sua muliebre sublimità, nei passi imbrattati dai terreni pericoli, nella sensualità, nell’incessante dinamico amore vibrante nel petto petrarchesco e dunque, ella, non è mera immaginazione isolata nell’astrattezza. Il bisogno di evocare madonna Laura perciò travalica “il divenire” contrapposto “all’essere”, che, tra la dinamicità mutabile e il perpetuamente immobile, trasformerebbe tale figura in una mera proiezione concettuale, in una sorta di costruzione idealistica, creata dalle transeunti afflizioni o dalle gioie contingenti succedutesi nella vita del Petrarca. Le sue fulgide rime non possono essere adombrate da un modello interpretativo di grossa grana, legato a stantii stereotipi, derivati da una superficiale ottica, adatta a una banale diffusione.
In Raffaello riecheggia, con efficace forma, un’apparente “atmosfera petrarchesca” ma l’humus è altro, per quante e per come sono a noi pervenute le sue rime.
Il Sanzio, venticinquenne giunto da Firenze, è già un famoso maestro di pittura quando, nel 1508 come si è già detto, è chiamato a Roma da Giulio II. Egli, durante il suo percorso artistico, mostra un’eletta cultura a contatto con eruditi quali, tra gli altri, Pietro Bembo e Baldassarre Castiglione. Il suo dolce carattere, come narrano le cronache, saldato alla sua fisica graziosità e alle cortesi maniere, esaltate dal suo indiscutibile genio, non possono che affascinare coloro che lo avvicinano e, a maggior ragione, le donne e di esse egli cerca quelle d’incantevole vaghezza, come confida al Castiglione, nella lettera scritta intorno al 1514: ” per dipingere una bella, mi bisogneria veder più belle … Ma essendo carestia … di belle donne, io mi servo di certa idea che mi viene dalla mente”. Da osservare, riguardo al suo evidente acume “di uomo di lettere”, ciò che vuole intendere quale “idea”, concetto caro ai neoplatonici rinascimentali (a lui vicini), quale “habitus”, vale a dire la qualità, la condizione individuale, l’insita indole che sostiene e muove l’anima. Essa ritrovando il proprio intelletto –fonte essenziale della conoscenza, ove l’animo intende le idee, creando i concetti- ritorna al proprio vero habitus (condizione, stato) che, per l’appunto, comprende le forme delle idee specchianti quelle assolute, permettendo così di conoscere, interpretare la realtà circostante: anima nel puro intelletto, generante un’armonia di figure, di note, di elementi, di luce. 
Raffaello vive in quella Roma, ambita meta di tutti gli artisti, nell’euforia di magnifici e possenti progetti che realizzeranno opere, conosce una donna impareggiabile nella sua bellezza assoluta. Il suo sentimento nobile ne viene rapito e la sua mano ricorrerà alle liriche. L’ignota sua amante mostra nel secondo sonetto “un bel parlar in donnessi costumi”, mentre nel terzo (varianti) il verso, sprigionando l’alterità cui egli è suddito, esclama: “ benigna a me la tua alma inclina abasso … sendo io tuo soggetto”. Alcuni ne vogliono intendere un’esplicita affermazione di notevole differente “condizione sociale” e quindi, l’amata, dovrebbe identificarsi con una gentildonna, dotta, elegante come una tangibile immagine di dama rinascimentale, stupendamente bella. Altri la identificano con la celebre Fornarina, Margherita, figlia di Francesco Luti, fornaio trasteverino. Si deve escludere invece che, il misterioso personaggio femminile, sia Maria Bibbiena, sua promessa sposa morta anzi tempo, nipote del cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, immortalato da Raffaello con il dipinto, oggi esposto alla Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze.
Nel primo sonetto “Un pensier dolce è rimembrarse il modo di quello assalto”, l’assalto indica l’unione carnale dei due amanti; il ricordo di quell’incontro si volge presto alla separazione “ma più grave è ‘l danno del partir” e ancora “Ma io restai pur vinto al mio gran foco che mi tormenta”, mentre, nelle varianti, il Sanzio rima che “molte speranze nel mio peto stanno e questo sol m’è rimasto ancor quel dolce suo parlar”. Composizione metrica di pregevoli accenti, che dalle difficoltà espressive, felicemente superate, sorge supremo l’affetto, nel significato poetico d’intenso sentimento e desiderio.
Amor, tu m’envocasti con doi lumi de doi beli occhi dov’io me strugo e sface, de bianca neve e de rosa vivace, da un bel parlar in donnessi costumi”. Apre con questi versi il secondo sonetto, che dell’influenza –riletta- del Petrarca ne appalesa il portato. Il poetare accarezza i pregi della donna amata, sillabandone il candido aspetto, il roseo volto, il nobile dire, la grazia delle sue pose. In una fiamma il suo amore arde e la passione lo colma talmente che, il consumarsi, non gli cagiona sofferenza ”Tal che tanto ardo, che né mar né fiumi, spegnar potrian quel foco: non mi spiace, poiché ‘l mio ardor tanto di ben mi face, ch’ardendo onior più d’arder me consumi”.  Tanto è dolce il gioco - l’abbraccio indicante, nell’ambito poetico, altresì l’amplesso – che, sciogliendosi dalle nivee braccia dell’amata, egli prova un’acuta doglienza ” Quanto fu dolce el gioco e la catena de’ toi candidi braci al col mio volti, che sogliendomi, io sento mortal pena”.
Nuovamente, il Petrarca, pervade il tono della terza poesia, pur rimandando l’inizio al Morgante, il magistrale poema di Luigi Pulci (due edizioni: 1461, 1483): ” Como non podde dir d’arcana Dei Paul, como disceso dal cielo, così el mio cor d’uno amoroso velo ha ricoperto tutti i penser miei”. Similitudine della conversione di “Saulo in S. Paolo”, il quale improvvisamente è cinto da un vivido raggio luminoso, divino, rovesciandolo a terra. Analogamente il cuore di Raffaello, impregnato d’amore, avvolge ogni suo pensiero, ogni sua azione. L’estesa lingua di fuoco, accesa da quell’impetuoso sentimento, alimentata dall’amata, che abbassandosi ad amarlo tutto avvolge ed egli perirà, qualora non riceverà sostegno da colei, che è donna elevata ” … in basso cede, vedrai che non fia a me, ma al mio gran foco … Ma pensa che’el mio spirto a poco a poco el corpo lascerà, se tua mercede socorso non lo dia …”. Varianti composte dall’Urbinate: ” … ma tu rimedio al mio mal sei … te pregarò, ché ‘l peregar qui lice … Adunqua tu sei sola alma felice in cui el ciel tuta beleza pose … che ‘l tien mio cor come infoco … e se benigna a me tua alma inclina abasso … e se il pregar mio in te avesse loco … guarda a l’ardor mio … sendo io tuo soggetto …”.
Il quarto sonetto preludia al distacco dalla dama ” S’a te servir par mi steginiase Amore, per li efetti dimostri da me in parte, tu sai el perché, senza vergante in carte … Io grido e dico che tu sei el mio signiore dal centro al ciel … e che schermo non val, né ingenio o arte, schifar le tue forze e ‘l tuo furore … et quell’alma gentil non mi dislazia, ond’io ringrazio Amor  … a me pietoso …” Raffaello ad Amore –entità- con enfasi pronuncia i versi ” Se ti è parso Amore, ch’io sdegnassi di servirti, per il mio contegno serbato in quegli incontri amorosi, tu ben ne conosci il motivo, pur non scrivendolo. Sopraffatto da te mi conducevo, mio signore, e nulla può schivare la tua forza e contro di te non appare alcun riparo. Ma ti ringrazio Amore, che hai mostrato pietà nei miei confronti, poiché lei non mi ha disfatto né consumato l’animo”.
Quanto è discosto il pulsante sentimento del Petrarca -come si è argomentato- verso Laura. L’ultima poesia (frammento) raffaellesca sancisce che, la relazione amorosa, si è presto estinta; ben altro affetto chiama il novello -e breve, per quanto oggi si conosce- poeta: quello della raffigurazione pittorica. Ad essa vuole interamente donarsi, liberando la sua esistenza dal legame che, ora, gli carpisce i fulgidi anni della sua vigoria artistica e fisica. Esalta l’esempio dei grandi protagonisti, che si adoperano con forza a conquistare la grandissima fama universale; da tale impulso ridesta il suo inerte pensiero affinché ottenga una fama ancor maggiore ” … pensier, che in ricercar t’afanni ? .. dare in preda el cor per più sua pace, non vedi tu l’efetto aspro e tenace, o stolto, che mi usurpa i più belli anni? Dure fatiche, e voi, famosi afanni, risvegliate il pensier che in ozio giace, mostrateli quel sole alto che face salir da’ bassi ai più sublimi scanni. Divine alme celeste, acuti ingeni …”. Varianti ” … voler seguita la nostra stella non vedi tu dal’uno a l’altro polo …”. Allontanamento da quella dama, già amata nella vampa di poche rime, a favore dell’estro inciso nell’infinità del linguaggio pittorico.   


Raffaello (immagine tratta da Google): Autoritratto (particolare), dalla "Scuola di Atene", Stanza della Segnatura,
Città del Vaticano 

cielo di luce spirituale e sede dei beati, che avvolge l’universo fisico