Nominando
Raffaello Santi, vulgato come Raffaello Sanzio (Urbino 1483 - Roma 1520), la
mente si volge, priva d’indugio, alla sua opera pittorica (che sovravanza,
nella memoria, la sua abilità architettonica), summa eletta dell’arte figurativa rinascimentale, in cui si
amalgamano con fulgente equilibrio e chiarezza, attraverso una piena
personalità indipendente, le più vive esperienze plastiche della sua epoca.
Hanno così sostanza di rilettura autonoma espressioni diverse, come i delicati tratti
spaziali della scuola toscana, il profondo senso spirituale umbro, lo “sfumato
prospettico” di Leonardo, l’acutissima espressività michelangiolesca, il
“colorismo” della pittura veneta. La sua prodigiosa capacità di assimilare
l’arte figurativa, nella sua totalità, i variegati modi, può travolgere pittori
meno dotati, ma non Raffaello, che invece, già dal suo primo periodo, li
disciplina, poi superandoli effondendo, ad esempio, una straordinaria agevole
cadenza. Egli raffigura l’ideale di bellezza generato da un’assorta ed empirea
meditazione, da cui le opere adempiono i più elevati fini dell’Umanesimo;
l’inconfondibile suo virtuoso timbro espressivo, assimila dunque il gusto della
pittura coeva. La sua materia di consistente plasticità non può che rinsaldarsi
con la monumentalità, che iscrive poderosi aerei raggi di luce, fughe
prospettiche, verticalità delle figure, non soggiacendo -lui giovane luminoso
talento- supinamente alla fascinazione di acclamati ambienti artistici. Sue le
quieti ombre, che armoniosamente stende sino a sfiorare con dolcezza il
modellato, condotto con acume raffigurativo nella sinfonia di effetti
volumetrici, nell’accuratissima distribuzione chiaroscurale. Ombre enuncianti
immagini di superba proporzione, impostate su una rigorosa levità di ritmi,
trasmutati in un temperato spazio, rigettante una sterile aulica trasposizione,
sino a esporre una riserbata spiritualità che ne pronuncia l’intima passione. La
regalità, dei personaggi ritratti, viene esaltata dalla perfezione dei
lineamenti incisi nei volti, negli incarnati pregni d’interna luce. A Firenze,
il giovane artista, manifesta già uno straordinario rapporto tra figure e spazi
architettonici, affondando in chiave monumentale una nuova impostazione
compositiva, proemio pieno di ciò che lo magnificherà a Roma, dove eseguirà le
maestose opere pittoriche.
Nella
“Città Eterna” si trasferisce tra l’estate e l’autunno del 1508, per volontà
(su probabile consiglio del Bramante) di Giulio II (1503-1513) –Giuliano della
Rovere-, per decorare, inizialmente insieme con altri pittori, tra i quali il
Sodoma, a fresco le nuove Stanze vaticane, cominciando da quella della “Signatura”
(1508-1511). Tale ambiente è così appellato dal nome del più importante
tribunale pontificio –che vi si riunirà dalla metà Cinquecento, circa-, quello
della “Signatura Gratiae et Iustitiae”,
governato dal pontefice, ma in precedenza progettata quale studio privato e
biblioteca proprio di papa della Rovere; questo particolare vano sarà
utilizzato dal successore, Leone X (Giovanni de’ Medici, 1513-1521), altresì
quale “stanza della musica”.
Il
fulgore dell’arte figurativa, dell’Urbinate, connota presto i suoi primi lavori
vaticani, tanto da convincere lo stesso Giulio II ad affidargli la
realizzazione dell’intera impresa degli affreschi. S’irradiano così in quei
luoghi un infinito respiro che effigia un soprannaturale sentire, tra argentee
luminosità, frementi magnifiche passioni, fulgenti insolite reinterpretazioni
di una visione imbevuta di “pensiero classico” e di “antico” reso con nuovo
magistrale verso; elementi serrati tutti con equilibrata e monumentale unità
nel disegno dello spazio diversificato e dunque libero. La formidabile naturalezza
delle figure è svolta con fluente e mossa grandiosità sculturale, imponente
animata perfezione che concreta quell’idealità, concepiti dal Rinascimento,
sostanziata “nell’idea” di società ideale. Nulla però soggiace a edulcorati
schemi, a imbolsiti stilemi, anzi una virulenta drammaticità appare nella stanza
di Eliodoro (la seconda decorata da Raffaello tra il 1512 e il 1514; ambiente
voluto per le udienze private del pontefice). V’impera un’aria rotta da
impenetrabili bagliori e sfingei riverberi, grigie architetture su cui
avvampano raggi aurati, vesti agitate da un ardente sentimento policromatico,
sontuosi splendori dispiegati di sotto a un cielo sicuramente azzurro ma
annunciante la notte, repentini effetti luminosi e preziosi paramenti, freschezze
primaverili e rossi squillanti; un’aura di maestosità rivelata da incandescenti
sfumati contorni, da strepitosi effetti di controluce fuoriuscenti da cupi
schermi. L’opera raffaellesca assurge, in tal modo, altresì a sfida con le, coeve,
differenti espressioni della pittura, poiché alla “eroicità” delle figure vi
fissa una mirabile agilità compositiva, come se una fertile inquietudine
creativa lo inciti, guidandolo, a cimentarsi in nuovi linguaggi figurativi; una
sfida volta a privare di qualsiasi “staticità intellettuale” il, magnificente, portato
della sua arte. Da questa straordinaria “ansia” sorge ciò che Roberto Longhi,
il celebre storico dell’arte, definisce circa la stanza dell’Incendio di Borgo
(utilizzata da Leone X come sala da pranzo), la terza dipinta da Raffaello (1514,
circa e il 1517), quale atto pittorico declamatorio che ritorna come poesia.
Difatti, pur se in grande misura è lavoro eseguito da allievi dell’Urbinate -su
suoi disegni-, egli realizza con enfatico slancio un peculiare gergo, pregno di
struggente tragicità. Nuova e appassionata meditazione rivelata con linguaggio
d'inesorabile spontanea purezza, capace di rivelare con evidenza immediata
fisionomie, espressioni, caratteri, atteggiamenti, tratti architettonici,
elementi naturali nel battito improvviso di raggi lucenti.
Artista
circondato da eclatante ammirazione, tributata assai presto, è oberato da
impegni e incarichi, tali da non poter attendere personalmente all’esecuzione
di tutte le copiose opere commissionategli, come dimostra, per l’appunto, l’ornamentazione
dell’ambiente de “L’Incendio di Borgo”.
Ora
però tralasciamo il poetare pittorico del Sanzio, per vergere al suono dei
suoi, sparuti, versi lirici assai petrarcheschi, sebbene mantengano talune sue
costumanze linguistiche.
Una
fonte d’ispirata immagine, per il Sanzio, di artista conscio del proprio
sapere, abile a esplicitare rilevanti doti letterarie, è da accordare al padre,
Giovanni Santi (1440, circa – 1494). Pittore, cui la capacità figurativa è oggi,
in parte, rivalutata, riconoscendone un’abilità che intesse articolazioni
evocatrici, certamente non statiche, create con armoniosa intensità di luce e
di colori, elementi fondamentali nella realizzazione dei volumi disegnati. Egli
è uomo colto, che agisce con valenza nella sfera letteraria e teatrale; artista
perciò “totale”, dalla vasta conoscenza delle diverse espressioni dell’arte,
fortemente “provata” nel suo animo. Brillante protagonista nella corte di
Federico da Montefeltro, signore di Urbino, che accoglie il principe Federico
d’Aragona (futuro Federico I, re di Napoli per un breve periodo) con notevoli
festeggiamenti, culminati con la rappresentazione teatrale dell’opera in versi, Amore al tribunale della Pudicizia,
composta (1474) e diretta proprio dal Santi. Lo spettacolo, metafora della
castità, includente recitativi, cantate e balli, desta una ragguardevole eco.
Acclamato poeta di corte, realizza -tra il 1482 e il 1485, circa- La vita e le gesta di Federico da
Montefeltro duca di Urbino, poema in
terza rima (la terzina possiede un metro aperto, incentrato su una
struttura generante una continua spinta “in avanti” delle rime, con tensione
costante), scritto impegnativo, cui una sezione svolge un disteso scenario
delle temperie pittoriche inerenti alla sua epoca.
Raffaello
in Roma, durante l’ornamentazione figurativa della Stanza della “Signatura”, verga su fogli (1509,
probabilmente) comprendenti i suoi disegni preparatori per l’esecuzione della
cosiddetta Disputa del Sacramento, i
cinque sonetti –con varianti- a oggi conosciuti e con sicurezza attribuitigli,
cui del quarto e del quinto rimangono solo dei frammenti. La relativa paternità
raffaellesca è attestata anche dalla grafia, così conforme a quella mostrata
dalla lettera scritta, dall’Urbinate, allo zio materno Simone Ciarla (1508).
Poesia
dunque, composizione di versi che sembrano, in questo caso, in rapporto con la
pittorica somma arte del Sanzio, magnificata altresì dal Parnaso (altro affresco della “Signatura”,
eseguito successivamente a quello della “Disputa”).
Il Parnaso, massiccio montuoso dalle due cime sacro ad Apollo, il dio -tra le
altre sue attribuzioni- della musica, della sapienza filosofica e del culmine
creativo, che trova piena realizzazione nell’arte, nel canto poetico,
suscitante nell’uomo la sublime emozione del bello, di cui la capacità creativa
dell’artista, quale artefice, ne sancisce (etimo dal latino “rendere sacro, inviolabile”)
la forma. Il Parnaso, dimora delle Muse
(una delle “residenze”ad esse consacrate), creature armoniose, strettamente
congiunte ad Apollo, con le loro conoscenze degli elementi tecnici e delle
imprescindibili abilità, che concretano l’arte nelle sue differenti
espressioni, delle quali il nume ne è l’ispiratore.
Siamo
innanzi a dei “tentativi poetici” di Raffaello, durante la creazione dei suoi,
mirabili, affreschi, ove si erge un’ispirazione che, per come “il tutto” appare,
dalla tavolozza (soprattutto il Parnaso)
arriva, in tono minore, alle metriche. Creatività e passione amorosa in un
eccelso pittore, che nel suo ingegno accoglie un’abilità letteraria, come sembra
confermare l’immancabile Giorgio Vasari, il quale, terminando le sue “Vite”, scrive riguardo all’elaborazione
delle stesse: ”I quali aiuti sono
veramente sì fatti, che io ho potuto veramente scoprire il vero e dare in luce
quest’opera … Nel che fare mi sono stati … di non piccolo aiuto gli scritti di
Lorenzo Ghiberti, di Domenico Ghirllandai e di Raffaello da Urbino”. Altra
base di appoggio, dell’acclarata abilità letteraria raffaellesca, è costituita
dalle venticinque annotazioni di mano dell’Urbinate, apposte nel testo De Architectura di Vitruvio –il
trattatista architetto dell’età augustea- tradotto, probabilmente tra il 1514 e
il 1515, dal filologo Fabio Marco Calvo (e non solo, come attualmente si
reputa), ai fini della ricostruzione testuale archeologica dell’antica Roma,
progetto fondamentale per gli studi di Raffaello, utilizzati inoltre per le
corrette ambientazioni architettoniche, così chiaramente definite nei suoi
dipinti. Testo quindi colmo di aggiunte, chiose, postille alcune delle quali,
come detto, scritte dal Sanzio. La sua rilevanza intellettuale è ancora
suffragata dalla nomina insignitagli da Leone X, nel 1515, nominandolo “praefectus marmorum et lapidum omnium”,
soprintendente quindi -nell’antico significato generico di colui che, da specifico incarico, esercita una mera verifica- di tutti gli antichi marmi rinvenuti (nel raggio di circa
venti chilometri dalla Città) e selezionati per la costruenda Fabbrica di S.
Pietro, della quale ne condivide la responsabilità (1514) con il domenicano
Giovanni Giocondo da Verona (detto Fra’ Giocondo), alla cui morte (1515)
succede Antonio Cordini (o Cordiani), detto Antonio da Sangallo il Giovane
(1516). Il pontefice con la carica di “praefectus”
gli affida dunque il compito di esaminare l’importanza delle epigrafi, delle
inscrizioni incise sugli antichi reperti marmorei, prima del loro eventuale
reimpiego edilizio, allo scopo di salvaguardare quelle considerate rilevanti
per lo studio della lingua latina. Uomo colto, Raffaello, come evidenzia pure
la celeberrima lettera al suo più potente fautore, il medesimo pontefice de’ Medici -scritta tra la fine del 1518 e la metà del 1519, non completata per la morte dell'Urbinate (1520); una sorta di prima stesura è di Baldassare Castiglione-, commissionante all’artista altresì uno studio
circa la pianta di Roma antica, di cui l’epistola ne rappresenta la prefazione:
”Sono molti, padre beatissimo, che,
misurando col loro debile giudizio le grandissime cose che delli romani, circa
l’arme, e della città di Roma, circa ‘l mirabile artificio, ricchezze,
ornamenti e grandezza delli edifici si scrivono, più presto estimano quelle
fabulose che vere. Ma altramente a me sole avenire e aviene; perché,
considerando dalle reliquie che ancor si veggono per le ruine di Roma la
divinitade di quelli animi antichi, non estimo fòr di ragione credere che molte
cose di quelle che a noi paiono impossibili, che ad essi paressero facilissime.
Onde, essendo io stato assai studioso di queste tali antiquitati, e avendo
posto non piccola cura in cercarle minutamente e in misurarle con diligenza, e
leggendo di continuo li buoni auctori e conferendo l’opere con le loro
scripture, penso di aver conseguito qualche notizia di quell’antiqua
architectura”.
Alcun
dubbio sorge nei confronti di Raffaello sagace letterato.
Per
i sonetti impiega alcuni vocaboli usati, ad esempio, da Brunetto Latini (1225,circa
- 1294, circa), da Jacopone da Todi (Iacopone dei Benedetti; ?- 1306), da
Dante, dal Tasso e da altri, ma sulla scrittura, memore di Luigi Pulci
(1432-1484) e dell’Ariosto, spicca soprattutto il rinnovellato “modo” del
Petrarca. Tali poesie sgorgano da una fugace sorgente d’amore per una, a noi
sconosciuta, dama.
In
Francesco Petrarca, Laura, è spazio infinito ove l’anima stabilisce la poesia,
che svela passione sensuale, in sé provata con dolcezza, con gioia, con
l’erompere del pianto. Nei versi egli instaura un insieme di nessi semantici,
vivi nella sfera di un elevatissimo svolgimento poetico, trasformando
l’istantaneo “carattere” psicologico in eloquente figura, ovvero in insistita
metafora. Fronde e piagge, vivide acque e aurati capelli e caduchi fiori, che non
vogliono avvinghiarsi a un consueto florilegio amoroso, poiché la continua
muliebre immagine si abbiglia di un irraggiungibile desiderio, di un sogno
quasi febbricitante. Rime contessute nel tema dell’irrequietezza, rifiutante il
solito miscuglio di sentimentali argomenti, canto dove respira invece e anche un
segno di negatività fitto di patimenti, d’insonni speranze, di un universo
indecifrabile, di memorie disperse in visioni caduche. Laura non è finzione
pura ma esistenza, che nella debolezza umana resta la sovrana fonte inarrestabile,
che alimenterà il flusso vitale, del poeta, sino all’oscuro velo della foce estrema,
quando gli occhi s’inabisseranno nell’eterno gelido sepolcro. Laura vertice
della coscienza, lontananza e vicinanza dalle vicende sorte sopra e nelle
stagioni dell’esistenza; metafora accesa e apparentemente ossessiva,
abbracciata dall’esperienza, originata da un concetto divenuto palpabile. Laura
nel pieno sguardo, del poeta, nei diversi periodi della sua vita, cantata costantemente
nel medesimo modo, sebbene non accetti un’egoista visione, in cui l’amata si
trasforma in narcisistico compiacimento di se stesso, tanto da cristallizzare
intorno ad ella una gravosa sintesi di sentimenti, propri soltanto del cantore.
Laura attraverso cui il Petrarca dona, ai lettori, la sua inusuale coerenza,
celebrando quella donna, verso cui tutte le altre sue vicende sentimentali si
sottomettono, determinandone la fama che sarà trasmessa ai posteri. Tutto
l’avvenimento riguardante Laura desta un cardine impareggiabile, amore vivissimo
che dall’etere - il lucente cielo avvolgente il mondo fisicamente percepito,
dove il poeta con tutto se stesso la pone tenacemente- la richiama alla terra
non rendendola perciò alternativa a una realtà altra. Ella dimora, con la sua muliebre
sublimità, nei passi imbrattati dai terreni pericoli, nella sensualità, nell’incessante
dinamico amore vibrante nel petto petrarchesco e dunque, ella, non è mera
immaginazione isolata nell’astrattezza. Il bisogno di evocare madonna Laura perciò travalica “il
divenire” contrapposto “all’essere”, che, tra la dinamicità mutabile e il
perpetuamente immobile, trasformerebbe tale figura in una mera proiezione
concettuale, in una sorta di costruzione idealistica, creata dalle transeunti
afflizioni o dalle gioie contingenti succedutesi nella vita del Petrarca. Le
sue fulgide rime non possono essere adombrate da un modello interpretativo di
grossa grana, legato a stantii stereotipi, derivati da una superficiale ottica,
adatta a una banale diffusione.
In
Raffaello riecheggia, con efficace forma, un’apparente “atmosfera petrarchesca”
ma l’humus è altro, per quante e per
come sono a noi pervenute le sue rime.
Il
Sanzio, venticinquenne giunto da Firenze, è già un famoso maestro di pittura
quando, nel 1508 come si è già detto, è chiamato a Roma da Giulio II. Egli,
durante il suo percorso artistico, mostra un’eletta cultura a contatto con
eruditi quali, tra gli altri, Pietro Bembo e Baldassarre Castiglione. Il suo
dolce carattere, come narrano le cronache, saldato alla sua fisica graziosità e
alle cortesi maniere, esaltate dal suo indiscutibile genio, non possono che
affascinare coloro che lo avvicinano e, a maggior ragione, le donne e di esse
egli cerca quelle d’incantevole vaghezza, come confida al Castiglione, nella
lettera scritta intorno al 1514: ” per
dipingere una bella, mi bisogneria veder più belle … Ma essendo carestia … di
belle donne, io mi servo di certa idea che mi viene dalla mente”. Da
osservare, riguardo al suo evidente acume “di uomo di lettere”, ciò che vuole
intendere quale “idea”, concetto caro
ai neoplatonici rinascimentali (a lui vicini), quale “habitus”, vale a dire la qualità, la condizione individuale,
l’insita indole che sostiene e muove l’anima. Essa ritrovando il proprio
intelletto –fonte essenziale della conoscenza, ove l’animo intende le idee,
creando i concetti- ritorna al proprio vero habitus
(condizione, stato) che, per l’appunto, comprende le forme delle idee specchianti
quelle assolute, permettendo così di conoscere, interpretare la realtà
circostante: anima nel puro intelletto, generante un’armonia di figure, di
note, di elementi, di luce.
Raffaello
vive in quella Roma, ambita meta di tutti gli artisti, nell’euforia di magnifici
e possenti progetti che realizzeranno opere, conosce una donna impareggiabile
nella sua bellezza assoluta. Il suo sentimento nobile ne viene rapito e la sua
mano ricorrerà alle liriche. L’ignota sua amante mostra nel secondo sonetto “un bel parlar in donnessi costumi”,
mentre nel terzo (varianti) il verso, sprigionando l’alterità cui egli è
suddito, esclama: “ benigna a me la tua
alma inclina abasso … sendo io tuo soggetto”. Alcuni ne vogliono intendere
un’esplicita affermazione di notevole differente “condizione sociale” e quindi,
l’amata, dovrebbe identificarsi con una gentildonna, dotta, elegante come una tangibile
immagine di dama rinascimentale, stupendamente bella. Altri la identificano con
la celebre Fornarina, Margherita, figlia di Francesco Luti, fornaio
trasteverino. Si deve escludere invece che, il misterioso personaggio
femminile, sia Maria Bibbiena, sua promessa sposa morta anzi tempo, nipote del
cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, immortalato da Raffaello con il dipinto,
oggi esposto alla Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze.
Nel
primo sonetto “Un pensier dolce è
rimembrarse il modo di quello assalto”, l’assalto indica l’unione carnale dei due amanti; il ricordo di
quell’incontro si volge presto alla separazione “ma più grave è ‘l danno del partir” e ancora “Ma io restai pur vinto al mio gran foco che mi tormenta”, mentre,
nelle varianti, il Sanzio rima che “molte
speranze nel mio peto stanno e questo sol m’è rimasto ancor quel dolce suo
parlar”. Composizione metrica di pregevoli accenti, che dalle difficoltà
espressive, felicemente superate, sorge supremo l’affetto, nel significato
poetico d’intenso sentimento e desiderio.
“Amor, tu m’envocasti con doi lumi de doi beli occhi dov’io me strugo e sface,
de bianca neve e de rosa vivace, da un bel parlar in donnessi costumi”.
Apre con questi versi il secondo sonetto, che dell’influenza –riletta- del
Petrarca ne appalesa il portato. Il poetare accarezza i pregi della donna
amata, sillabandone il candido aspetto, il roseo volto, il nobile dire, la
grazia delle sue pose. In una fiamma il suo amore arde e la passione lo colma
talmente che, il consumarsi, non gli cagiona sofferenza ”Tal che tanto ardo, che né mar né fiumi, spegnar potrian quel foco: non
mi spiace, poiché ‘l mio ardor tanto di ben mi face, ch’ardendo onior più
d’arder me consumi”. Tanto è dolce il
gioco - l’abbraccio indicante, nell’ambito
poetico, altresì l’amplesso – che, sciogliendosi dalle nivee braccia
dell’amata, egli prova un’acuta doglienza ” Quanto
fu dolce el gioco e la catena de’ toi candidi braci al col mio volti, che
sogliendomi, io sento mortal pena”.
Nuovamente,
il Petrarca, pervade il tono della terza poesia, pur rimandando l’inizio al Morgante, il magistrale poema di Luigi
Pulci (due edizioni: 1461, 1483): ” Como
non podde dir d’arcana Dei Paul, como disceso dal cielo, così el mio cor d’uno
amoroso velo ha ricoperto tutti i penser miei”. Similitudine della
conversione di “Saulo in S. Paolo”, il quale improvvisamente è cinto da un
vivido raggio luminoso, divino, rovesciandolo a terra. Analogamente il cuore di
Raffaello, impregnato d’amore, avvolge ogni suo pensiero, ogni sua azione. L’estesa
lingua di fuoco, accesa da quell’impetuoso sentimento, alimentata dall’amata, che
abbassandosi ad amarlo tutto avvolge ed egli perirà, qualora non riceverà
sostegno da colei, che è donna elevata ” …
in basso cede, vedrai che non fia a me, ma al mio gran foco … Ma pensa che’el mio spirto a poco a poco
el corpo lascerà, se tua mercede socorso non lo dia …”. Varianti composte
dall’Urbinate: ” … ma tu rimedio al mio
mal sei … te pregarò, ché ‘l peregar qui lice … Adunqua tu sei sola alma felice
in cui el ciel tuta beleza pose … che ‘l tien mio cor come infoco … e se
benigna a me tua alma inclina abasso … e se il pregar mio in te avesse loco …
guarda a l’ardor mio … sendo io tuo soggetto …”.
Il
quarto sonetto preludia al distacco dalla dama ” S’a te servir par mi steginiase Amore, per li efetti dimostri da me in
parte, tu sai el perché, senza vergante in carte … Io grido e dico che tu sei
el mio signiore dal centro al ciel … e che schermo non val, né ingenio o arte,
schifar le tue forze e ‘l tuo furore … et quell’alma gentil non mi dislazia,
ond’io ringrazio Amor … a me pietoso …”
Raffaello ad Amore –entità- con enfasi pronuncia i versi ” Se ti è parso Amore,
ch’io sdegnassi di servirti, per il mio contegno serbato in quegli incontri
amorosi, tu ben ne conosci il motivo, pur non scrivendolo. Sopraffatto da te mi
conducevo, mio signore, e nulla può schivare la tua forza e contro di te non
appare alcun riparo. Ma ti ringrazio Amore, che hai mostrato pietà nei miei
confronti, poiché lei non mi ha disfatto né consumato l’animo”.
Quanto
è discosto il pulsante sentimento del Petrarca -come si è argomentato- verso
Laura. L’ultima poesia (frammento) raffaellesca sancisce che, la relazione
amorosa, si è presto estinta; ben altro affetto chiama il novello -e breve, per
quanto oggi si conosce- poeta: quello della raffigurazione pittorica. Ad essa
vuole interamente donarsi, liberando la sua esistenza dal legame che, ora, gli
carpisce i fulgidi anni della sua vigoria artistica e fisica. Esalta l’esempio
dei grandi protagonisti, che si adoperano con forza a conquistare la
grandissima fama universale; da tale impulso ridesta il suo inerte pensiero
affinché ottenga una fama ancor maggiore ” …
pensier, che in ricercar t’afanni ? .. dare in preda el cor per più sua pace,
non vedi tu l’efetto aspro e tenace, o stolto, che mi usurpa i più belli anni?
Dure fatiche, e voi, famosi afanni, risvegliate il pensier che in ozio giace,
mostrateli quel sole alto che face salir da’ bassi ai più sublimi scanni. Divine
alme celeste, acuti ingeni …”. Varianti ” … voler seguita la nostra stella non vedi tu dal’uno a l’altro polo …”.
Allontanamento da quella dama, già amata nella vampa di poche rime, a favore
dell’estro inciso nell’infinità del linguaggio pittorico.
Raffaello (immagine tratta da Google): Autoritratto (particolare), dalla "Scuola di Atene", Stanza della Segnatura, Città del Vaticano |
cielo di luce spirituale e sede dei beati,
che avvolge l’universo fisico
Nessun commento:
Posta un commento