Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

Io Spiego

giovedì 6 dicembre 2018

Girolamo Siciolante, detto da Sermoneta: Vergine col Bambino in trono con S. Giacomo il Maggiore e i Ss. Eligio e Martino di Tours vescovi, pala dell’altare maggiore della Chiesa di S. Eligio de’ Ferrari


Tra i “cammei artistici” poco conosciuti in Roma, che pur rilucono nella loro appartata dimensione, la Chiesa di S. Eligio de’Ferrari ne conferma l’aulica ed eminente dignità.
La sua genesi si volge al 1453, quando papa Niccolò V concede al sodalizio dei fabbri-ferrari, formato da un considerevole numero di artigiani fabbri già costituitisi in Università, la zona dove sorgono due minuscole chiese in rovina, dedicate una a S. Giacomo il Maggiore e l’altra a S. Martino di Tours, in seguito titolate -1548, circa- ai Ss. Eligio, Giacomo e Martino. Tali edifici cultuali sono restaurati e, successivamente, abbattuti per l’edificazione di un unico tempio (1561-1562) con annesso ospedale, in cui l'assistenza sanitaria è rivolta ai membri, di tale “associazione”.
L’Università dunque intesa come corporazione di “arti e mestieri”, vale a dire un insieme di persone associate, che, tutelando i propri specifici interessi, producono oggetti, arnesi e così via, per essere prontamente utilizzati.
Il forte substrato religioso vivido nella Roma di quell’epoca, favorito dal suo particolare potere governante, permea altresì tale corporazione che ottiene, da papa Gregorio XIII, il riconoscimento di Pia Società e, quindi, di Confraternita (1575). In essa si formano, in breve tempo, altri similari sodalizi tanto da essere elevata, in seguito, ad Arciconfraternita.
Innalzata perciò la nuova chiesa, il suo interno viene abbigliato di ornamentazioni, che subiscono sostanziosi interventi tra il 1639 e il 1640, quando il presbiterio è oggetto di interventi architettonici -diretti soprattutto da  Giovanni Battista Mola- che distruggono gli affreschi realizzati, nel 1563, da Girolamo Siciolante,  detto da (o il) Sermoneta (1521-1575). Questi lavori di trasformazione edificatoria, di tale spazio, risparmiano soltanto la pala dell’altare maggiore, dipinta dal medesimo pittore intorno al 1564, raffigurante la Vergine col Bambino in trono con S. Giacomo il Maggiore e i Ss. Eligio e Martino di Tours vescovi.
Si colloca, questo dipinto (olio su tavola), nell’ambito della sua attività pittorica dedicata alle ancone, così preminente dagli anni Sessanta del XVI secolo, come, ad esempio, mostrano la Decapitazione di S. Caterina d’Alessandria (1567, circa) nella Cappella Cesi (la prima della navata sinistra) della Basilica di S. Maria Maggiore, e la  Crocifissione (1573, circa) nella Cappella Massimo (la terza della navata estrema destra) della Basilica di S. Giovanni in Laterano.
Imponente rappresentazione, questa di S. Eligio de’Ferrari, eseguita con colori vivaci, apparentemente semplificata rispetto alla pala absidale eseguita, a Bologna, in S. Martino Maggiore (1548), cui la struttura generale appare originarsi, con un linguaggio che, pur palesandosi maggiormente incline al carattere devozionale, possiede sostanza di summa felicissima, aderente ai principi dettati dal Concilio di Trento (1545-1563) e perciò propri della Controriforma. Culto espresso in tale pittura che, adornandolo sapientemente, lo interpreta con brillante mano.   
La cifra stilistica del Sermoneta s’impernia sulla consistente saldezza delle figure e sulla distribuzione dei volumi dell'impianto compositivo. Una sua perspicace “attitudine classicista” pronuncia un accorto apprendimento del linguaggio plastico – soprattutto della scuola emiliana – esposto nelle pale d'altare realizzate alla fine del Quattrocento.
Della sua opera bolognese ne riprende il solido assetto architettonico, ripartito su due piani, confermando accenni michelangioleschi mediati per mezzo di un personale disegno, che ben scandisce i caratteri volumici dei personaggi, raffigurati all’interno di uno spazio creato quale diretto rapporto, coerente, con la visione dell’insieme dipinto. Pittura a tratti monumentale e lievemente scultoria, rigorosa ma, nel contempo, attentamente ponderata e abile nello svincolarsi, in gran parte, dalla esile e astratta “temperatura espressiva” di molte opere uniformi, con monotona pallidezza figurativa, ai dettami controriformistici.  
Poetica classicheggiante, come già osservato, stesa, dal “nostro” pittore, con un’accezione di morbide gradazioni cromatiche e di capace, seppur contenuta, spazialità, come efficacemente dimostra, al centro del quadro, il “coro” dei quattro piccoli cherubini, tra un’aperta verde cortina dai bordi aurati. Il volto, assorto, della Vergine esprime una dolcezza disgiunta da qualsiasi affettata solennità, mentre il Bambino sembra condurre, con calibrata vivacità, le movenze plastiche degli angeli.
La compattezza del dipinto è alquanto mantenuta nella parte inferiore, avvertendone una certa difficoltà di impostazione per un’algida magniloquenza che vi affiora, sebbene non in modo continuato. I Santi sono disposti ritti, ai piedi del soglio della Vergine col Bambino, eccetto S. Eligio, inginocchiato (al centro) col suo pregiato abbigliamento vescovile, implorante l’aiuto divino; atteggiamento di colma umiltà, lui, il Santo patrono degli artigiani dei metalli (oltre che degli orefici e argentieri) cui la Chiesa è dedicata, è mostrato dimesso e supplicante in stretta osmosi con il piegato povero personaggio, il mendicante – il “povero di Amiens” cui S. Martino ha donato la metà del suo mantello – scarsamente vestito e rivolto, ovviamente, allo stesso S. Martino (posto sulla destra), anch’egli vescovo, come attestano le sue ricche vesti.
Se l’imponenza di tali figure, sottostanti, può apparire declamatorio, il linguaggio dell’opera intende risaltare in tal modo, con ottima efficacia, la preminenza, in questo caso, della virtù teologale della carità, sentita quale vero e concreto sentimento, sopra il quale troneggia, per l’appunto, la Vergine col Bambino. Maestoso è pure il personaggio ritratto a sinistra, S. Giacomo il Maggiore, nella caratteristica severa posa con i suoi attributi più consueti, il Vangelo e il bordone stilizzato (il bastone dei pellegrini). La scena quindi rappresenta i tre Santi ai quali la storia cultuale del luogo è unita.
Nonostante una parziale staticità ingessa questi personaggi, la raffigurazione nell’insieme attesta una brillante gamma cromatica e un notevole linguaggio plastico, ove, inconfutabilmente, ogni elemento è definito con nobili pose e con arguto ritmo, esplicita maestria di armoniche incastonature dipinte nell’organismo delle opere eseguite dal Siciolante. Reale sensibilità pittorica, benché si riveli pregna di abili preziosità figurative, la quale media acutamente con il pressante obbligo narrativo, richiesto dalla committenza religiosa scaturita dalla Controriforma.