Tra
i “cammei artistici” poco conosciuti in Roma, che pur rilucono nella loro
appartata dimensione, la Chiesa di S. Eligio de’Ferrari ne conferma l’aulica ed
eminente dignità.
La sua genesi si volge al 1453, quando papa
Niccolò V concede al sodalizio dei fabbri-ferrari, formato da un considerevole
numero di artigiani fabbri già costituitisi in Università, la zona dove sorgono due minuscole chiese in rovina,
dedicate una a S. Giacomo il Maggiore e l’altra a S. Martino di Tours, in
seguito titolate -1548, circa- ai Ss. Eligio, Giacomo e Martino. Tali edifici
cultuali sono restaurati e, successivamente, abbattuti per l’edificazione di un
unico tempio (1561-1562) con annesso ospedale, in cui l'assistenza sanitaria è rivolta ai membri, di tale “associazione”.
L’Università dunque intesa come corporazione di “arti e
mestieri”, vale a dire un insieme di persone associate, che, tutelando i propri
specifici interessi, producono oggetti, arnesi e così via, per essere
prontamente utilizzati.
Il forte substrato religioso vivido nella
Roma di quell’epoca, favorito dal suo particolare potere governante, permea
altresì tale corporazione che ottiene, da papa Gregorio XIII, il riconoscimento
di Pia Società e, quindi, di Confraternita (1575). In essa si formano, in breve
tempo, altri similari sodalizi tanto da essere elevata, in seguito, ad Arciconfraternita.
Innalzata perciò la nuova chiesa, il suo
interno viene abbigliato di ornamentazioni, che subiscono sostanziosi
interventi tra il 1639 e il 1640, quando il presbiterio è oggetto di interventi
architettonici -diretti soprattutto da
Giovanni Battista Mola- che distruggono gli affreschi realizzati,
nel 1563, da Girolamo Siciolante, detto da (o il) Sermoneta (1521-1575).
Questi lavori di trasformazione edificatoria, di tale spazio, risparmiano
soltanto la pala dell’altare maggiore, dipinta dal medesimo pittore intorno al
1564, raffigurante la Vergine col Bambino
in trono con S. Giacomo il Maggiore e i Ss. Eligio e Martino di Tours vescovi.
Si colloca, questo dipinto (olio
su tavola), nell’ambito della sua attività pittorica dedicata alle ancone, così
preminente dagli anni Sessanta del XVI secolo, come, ad esempio, mostrano la Decapitazione di S. Caterina d’Alessandria (1567,
circa) nella Cappella Cesi (la prima della navata sinistra) della Basilica di
S. Maria Maggiore, e la Crocifissione (1573, circa) nella
Cappella Massimo (la terza della navata estrema destra) della Basilica di S.
Giovanni in Laterano.
Imponente rappresentazione, questa di S.
Eligio de’Ferrari, eseguita
con colori vivaci, apparentemente semplificata rispetto alla
pala absidale eseguita, a Bologna, in S. Martino Maggiore (1548), cui la
struttura generale appare originarsi, con un linguaggio che, pur palesandosi maggiormente
incline al carattere devozionale, possiede sostanza di summa felicissima, aderente
ai principi dettati dal Concilio di Trento (1545-1563) e perciò propri della
Controriforma. Culto espresso in tale pittura che, adornandolo sapientemente,
lo interpreta con brillante mano.
La cifra stilistica del
Sermoneta s’impernia sulla consistente saldezza delle figure e sulla
distribuzione dei volumi dell'impianto compositivo. Una sua perspicace “attitudine
classicista” pronuncia un accorto apprendimento del linguaggio plastico –
soprattutto della scuola emiliana – esposto nelle pale d'altare realizzate alla
fine del Quattrocento.
Della sua opera bolognese ne
riprende il solido assetto architettonico, ripartito su due piani, confermando
accenni michelangioleschi mediati per mezzo di un personale disegno, che ben
scandisce i caratteri volumici dei personaggi, raffigurati all’interno di uno
spazio creato quale diretto rapporto, coerente, con la visione dell’insieme
dipinto. Pittura a tratti monumentale e lievemente scultoria, rigorosa ma, nel
contempo, attentamente ponderata e abile nello svincolarsi, in gran parte, dalla
esile e astratta “temperatura espressiva” di molte opere uniformi, con monotona
pallidezza figurativa, ai dettami controriformistici.
Poetica classicheggiante,
come già osservato, stesa, dal “nostro” pittore, con un’accezione di morbide
gradazioni cromatiche e di capace, seppur contenuta, spazialità, come
efficacemente dimostra, al centro del quadro, il “coro” dei quattro piccoli
cherubini, tra un’aperta verde cortina dai bordi aurati. Il volto, assorto,
della Vergine esprime una dolcezza disgiunta da qualsiasi affettata solennità,
mentre il Bambino sembra condurre, con calibrata vivacità, le movenze plastiche
degli angeli.
La compattezza del dipinto è alquanto
mantenuta nella parte inferiore, avvertendone una certa difficoltà di
impostazione per un’algida magniloquenza che vi affiora, sebbene non in modo
continuato. I Santi sono disposti ritti, ai piedi del soglio della Vergine col
Bambino, eccetto S. Eligio, inginocchiato (al centro) col suo pregiato
abbigliamento vescovile, implorante l’aiuto divino; atteggiamento di colma
umiltà, lui, il Santo patrono degli artigiani dei metalli (oltre che degli
orefici e argentieri) cui la Chiesa è dedicata, è mostrato dimesso e
supplicante in stretta osmosi con il piegato povero personaggio, il mendicante
– il “povero di Amiens” cui S. Martino ha donato la metà del suo mantello –
scarsamente vestito e rivolto, ovviamente, allo stesso S. Martino (posto sulla
destra), anch’egli vescovo, come attestano le sue ricche vesti.
Se l’imponenza di tali figure,
sottostanti, può apparire declamatorio, il linguaggio dell’opera intende risaltare
in tal modo, con ottima efficacia, la preminenza, in questo caso, della virtù teologale
della carità, sentita quale vero e concreto sentimento, sopra il quale
troneggia, per l’appunto, la Vergine col Bambino. Maestoso è pure il
personaggio ritratto a sinistra, S. Giacomo il Maggiore, nella caratteristica
severa posa con i suoi attributi più consueti, il Vangelo e il bordone stilizzato
(il bastone dei pellegrini). La scena quindi rappresenta i tre Santi ai quali
la storia cultuale del luogo è unita.
Nonostante una parziale staticità ingessa
questi personaggi, la raffigurazione nell’insieme attesta una brillante gamma
cromatica e un notevole linguaggio plastico, ove, inconfutabilmente, ogni elemento è definito
con nobili pose e con arguto ritmo, esplicita maestria di armoniche
incastonature dipinte nell’organismo delle opere eseguite dal Siciolante. Reale
sensibilità pittorica, benché si riveli pregna di abili preziosità figurative, la
quale media acutamente con il pressante obbligo narrativo, richiesto dalla
committenza religiosa scaturita dalla Controriforma.
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