Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

Io Spiego

martedì 26 ottobre 2021

S. Maria in Publicolis: il simbolo cristologico nel suo prospetto

Di questo misconosciuto e quasi appartato spazio cultuale, oggetto di un mio studio, ne ho illustrato il monumento funebre -realizzato da Giovanni Battista Maini- di Antonio Publicola De Santacroce e Girolama Nari, con il post del 3 marzo 2018. Ne riprendo dunque l’introduzione utile al presente articolo.

La chiesa si erge nell’aerea limitrofa all’attuale largo di Torre Argentina e all’odierna via delle Botteghe Oscure, dove il Portico di Minucio si espandeva tutt’intorno a un’enorme piazza, al centro della quale si ergeva un tempio (non identificabile), costruito dal console Marco Minucio Rufo (Porticus Minucia Vetus) nel 110 a.C. (ma secondo alcuni studi tale ambiente sarebbe sorto invece intorno ai templi di largo di Torre Argentina). Dopo il grande incendio dell’80 d.C. che devastò l’intera zona, avvenne un’intensa attività edificatoria, che comprese altresì la costruzione del Porticus Minucia Frumentaria sotto l’imperio di Domiziano (81-96 d.C.), luogo deputato per la distribuzione gratuita del grano a favore del popolo.

La chiesa è menzionata sia nel cosiddetto catalogo Salisburgense, anteriore al 682, antico documento che cita i luoghi di culto della Roma cristiana, sia nel codice della biblioteca del monastero di Einsiedein (Svizzera) del secolo VIII, così come in un codice compilato durante il pontificato di Leone III (795 – 816). Inoltre, nella bolla di Urbano III (1185 – 1186), essa viene indicata quale luogo sussidiario di culto di S. Lorenzo in Damaso, “S. Maria in (o de) Publico”, espressione latina (mettere a disposizione del pubblico) che rimanda, probabilmente, al ricordo dell’antico Porticus Minucia Frumentaria.

Durante il XIII secolo la famiglia Santacroce ottiene, su questo luogo di culto, il giuspatronato, vale a dire il diritto di proteggerla e di mantenerla, dotandola di beni patrimoniali dai quali essa (e soprattutto chi la gestisce) ne trae rendite. Proprio per decisione dei Santacroce che, nel 1465, la chiesa è ampiamente restaurata.  

L’influenza di tale nobile famiglia romana – sin dal 1250 definita nei regesti delle famiglie dell’Urbe come “antiquissima” -, in questa area della Città, è così predominante da vantare la discendenza dal console Publio Valerio Levino (Publicola Valerius Laevinus), che nel 280 a. C. aveva con successo combattuto contro Pirro. Questa forte volontà di nobilitare maggiormente la propria origine, ricongiungendola all’antica Roma quale aulico lignaggio dei Valerii Publicolae, sospinge i Santacroce, intorno alla metà del XVI secolo, ad aggiungere, al loro cognome, l’altro di Publicola ed essendo anche i proprietari del vicino palazzo, imprimono altresì alla chiesa la nuova denominazione, che assume quindi l’appellativo -che permane - in publicolis”. Nel medesimo periodo, Pio IV, nel 1565 crea cardinale di “Sancta Ecclesia Catholica Apostolicae Romana” Prospero Santacroce, mentre Antonio, suo nipote, lo diviene nel 1629 e ancora Marcello, nipote di Antonio, ne è investito nel 1652, cui segue -1699-, in questo alto titolo di prelatura, Andrea il nipote di Marcello.

Nel 1643 ormai fatiscente e preannunciando una tremenda rovina, la chiesa subisce la demolizione per essere riedificata su committenza proprio di Marcello Santacroce -all’epoca ancora non cardinale- che ne affida l’esecuzione a Giovanni Antonio De Rossi.

Le trasformazioni avvenute anche nell’ambito ecclesiastico cittadino, dovuto altresì agli avvenimenti storici succedutesi (Repubblica Romana filofrancese 1798 – 1799; occupazione napoleonica 1809 – 1814), riguardano altresì S. Maria in Publicolis. Infatti, Leone XII, con l’enciclica Super universam del 1° novembre del 1824, compiendo la riforma della struttura delle parrocchie romane, già avviata da Pio VII, abroga nei confronti di questa chiesa la “cura delle anime”, attività religiosa che si esplicava nell’assistenza personale spirituale nelle differenti situazioni della vita pratica, attraverso la confessione, la cura devozionale, i colloqui e gli aiuti materiali. Questo impegno pastorale è perciò attribuito alle vicine parrocchie dei Ss. Biagio e Carlo ai Catinari, di S. Maria in Monticelli e di S. Maria in Campitelli.

Nel 1858 la famiglia Publicola Santacroce consegna la chiesa a S. Gaetano Errico (1791 – 1860), fondatore nel 1833 della Congregazione dei Missionari dei Sacri Cuori, cui lo scopo è imperniato sulla diffusione della devozione dei Sacri Cuori di Gesù e Maria. La Congregazione ancora oggi officia questo fascinoso tempio.

Il prospetto

 La facciata (v. immagine)è compiuta, come accennato, da Giovanni Antonio De Rossi (1616 – 1695) – già affiliato all'Accademia di S. Luca dal 1636-, che nei suoi lavori, pur avendo assimilato il linguaggio del Bernini, rielabora il verso architettonico del Borromini e, in minor misura, del Cortona, ma ne semplifica la complessa articolazione volumica e l’assetto delle superfici espresse in chiave barocca, conformando l’estensione dei suoi compositi progetti sia alle esigenze estetiche della facoltosa committenza, sia alla temperie culturale e artistica a lui contemporanea, innalzandosi a fondamentale collegamento tra l’espressione stilistica dell’ultimo Barocco e i primi vagiti del Settecento.

Il prospetto mostra due ordini: in basso semicolonne ioniche, in alto pilastri tuscanici, questi derivati dal sistema architettonico etrusco, il quale può essere definito una sorta di adattamento dell’ordine dorico. La campata centrale si presenta avanzata con leggero movimento. Nell’ordine inferiore un portale, tra semicolonne ioniche con due nicchie vuote, è sormontato da un timpano arcuato e spezzato; nella sezione superiore, dopo la fascia con l’epigrafe dedicatoria della chiesa e la data di edificazione -“DEI PARA ET VIRGINI IN PUBLICOLIS MDCXLIII” (A DIO SUBORDINATA QUALE TESTIMONE E VERGINE IN PUBBLICOLIS 1643)-, una luce (o finestrone) oblunga, - che però interrompe l’armonia delle linee e affievolisce il moto verticale della struttura – risalta il timpano triangolare tra i pilastri tuscanici e ancor più in alto la composizione è conclusa da un’ampia sezione architettonica curvilinea spezzata -nella medesima forma di quella inferiore- innalzata da mensole. Ai lati estremi si notano due pellicani (v. immagine).

 

Simbolo cristologico del pellicano

 

Nell’Antico Testamento tale animale costituisce un alimento impuro ed è dunque simbolo di desolazione, di abbandono, di solitudine. Infatti, nel Salmo 102 (versetto 6), l’uomo afflitto innalza al Signore il suo gemito:” Sono simile al pellicano nel deserto”. Per la cristianità il passo possiede sostanza profetica, alludendo al Cristo sia nel deserto sia abbandonato dai discepoli nell’Orto degli ulivi, poco prima di essere catturato. Questo simbolo della solitudine di Gesù Cristo è ripercorso da S. Agostino, correlandolo alla nascita del Messia:” si deve comprendere in quella espressione (il pellicano nella solitudine) il Cristo nato dalla Vergine … nato nella solitudine perché Egli solo è nato così”. Similmente S. Idefonso da Toledo (607 - 667) afferma:” Il pellicano di una solitudine senza pari, è naturalmente il Cristo della nascita verginale, messo al mondo da una matrice inviolata, Egli che, generato miracolosamente, è vissuto nella dimora di una verginale solitudine”. Come non citare, a questo proposito, il Fisiologo, testo di un anonimo alessandrino del II secolo, che commenta diffondendo con senso allusivo e riposto i temi dei testi sacri e gli insegnamenti del fiorente Cristianesimo, tramite gli esempi, il più delle volte fantasiosi, del regno animale. Questa opera quindi fissa la forma dell’acutissimo amore, nutrito dal pellicano, verso i suoi figli che -secondo l’idea espressa nel testo- quando sono “piccoli” disobbediscono talmente tanto da costringere, lo stesso pellicano genitore, a ucciderli (ma una variante indica l’uccisione per opera dei serpenti). Un’enorme compassione però sopraggiunge, tanto che per tre giorni la madre s’immerge nel pianto e dopo il terzo, essa, colpendosi ripetutamente il fianco con il becco, sparge il suo sangue sui “piccoli” morti, i quali in tal modo resuscitano. Similitudine di pregnante senso messianico, che, dall’alto fregio del prospetto, attesta l’amore salvifico di Gesù Cristo, unicità concepita nel seno della Vergine.








Immagini tratte da Google