Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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martedì 1 giugno 2021

Gian Lorenzo Bernini nella pittura e il dipinto “S.Sebastiano” (attribuzione) quale opera esemplificativa

Gian Lorenzo Bernini (1598-1680), architetto di grandiose realizzazioni impresse di accenti caratteristicamente “barocchi”, pregni di movimento e di suggestiva fastosità, ma altresì capace di dar forma, attraverso la sua sensibilità, a sistemi edificatori che, nella configurazione planimetrica – e molto spesso prospettica- rivisitano canoni cinquecenteschi, tuttavia da questi il suo vigoroso temperamento, in determinate “fabbriche”, si discosta modellando plurime fonti, da dove le sue opere si ergono con accezione interamente nuova.

Bernini scultore che, magnificamente, slega il marmo dall’incagliare del tardo “Manierismo”, superandone l’impaludato modellato, plasmando un nuovo verso scultorio, foggiando moti che, liberamente, effondono le loro dimensioni nello spazio, scandendo sublimi effetti d’immediate azioni, vitali e leggiadre in e da quanto rappresentato. Abilità creativa che penetra in atti fisici, per risolverli in stati psicologici; fulminee pose, di personaggi, sconfessanti la rigidezza marmorea, che egli   trasforma in carne con sostanza di levità; aligero moto delle figure e dei corpi nella forma che apre, quanto scolpito, tra sparse chiome e membra permeate di luce, trasfondendo, a quanto raffigurato, aura pittorica. Sculture permeate ora da un’espansiva e vigorosa vitalità, ora -in muliebri personaggi-da un sensuale palpito intonante compiuta grazia; culminanti mistici rapimenti in un vibrare di celesti strali in illuminanti misteriosi chiarori, che riverberano gemiti di stupefacente sacralità, in una sinfonia di superlativa tensione spirituale. Magnifica è la resa delle figure sprigionanti quell’intensa luminosità, esaltata dalla formidabile cura dei tessuti delle vesti, i quali intensificano l’agente forza di tutta la superficie della scena, esponendone il plasmare superlativo -del marmo- con commovente moto, avvolto dalla bellezza fiammeggiata da un divino bagliore diffuso.

Bernini artista” universale”, realizzatore anche di spettacolosi effimeri apparati decorativi, oltre ad essere autore di commedie -ideate per una ristretta platea- allestite con rimarchevole minuziosità, colme di efficaci insolite arguzie sceniche, effetti che tramutano la finzione teatrale in realtà conducendo, gli spettatori, in un universo stupefacente.

Bernini nell’estro pittorico ma sottomesso, per la mole dei lavori commissionati, alla sua arte architettonica e scultoria, determinandone un’evidente minore presenza nell’insieme delle opere compiute. Eppure, la tavolozza berniniana, mostra un particolare pregiato dinamismo, che declama, per lo più, l’abbandono di qualunque atteggiamento enfatico, manifestando un altro spontaneo sentire; cifra stilistica che pur non rinuncia a trasmettere un evocativo ed equilibrato vigore, altresì denso di forza spirituale.

L’arte pittorica berniniana si colloca nella creazione architettonica e scultoria, come si dimostra nelle testimonianze biografiche, considerate indubbie sin dalla loro diffusione e, sino ad oggi, definitive.

La prima, cronologicamente pubblicata (1682) appena due anni dopo il decesso dell’artista, si snoda già dal titolo “Vita del Cavaliere Gio: Lorenzo Bernino Scultore, Architetto, Pittore”, scritta da “Filippo Baldinucci Fiorentino”, dedicata alla “Sacra e Reale Maestà di Cristina di Svezia”. Volume in cui vi sono raccolte testimonianze dirette, espresse da suoi figli e da suoi stretti collaboratori, da altri artisti conoscitori di precise esperienze berniniane, oltre a quanto è derivato dalla consultazione di documenti conservati nell'archivio della Fabbrica di S. Pietro.

La seconda cronologica biografia -1713, ma elaborata molto prima- “Vita del Cavalier Gio. Lorenzo Bernino, descritta da Domenico Bernino suo figlio” comprende l’affettuosa, non edulcorata, netta descrizione di episodi ed effetti e mete del padre, definito:” alquanto aspro di natura anche nelle cose ben fatte, fisso nelle operazioni, ardente nell’ira”. Particolareggiata “biografia della vita” in molti passaggi tratta da una sorta di memoria personale, organizzata dal celeberrimo genitore, volta a rappresentare l’assolutezza della sua epoca, manifestata con la scultura, con l’architettura e, per l’appunto, con la pittura, arti palesate in nuove, universali forme in intima connessione tra loro.

Bernini pittore, tuttavia indefinibile per le sue particolari caratterizzazioni -che più avanti osserverò-, rispetto a quanto propone e concreta negli altri ambiti artistici, in cui effonde la “poetica barocca”. Poetica - come ho argomentato nel mio post “Il manifestarsi del Barocco” (5 maggio 2015) – intesa come estrema eterogeneità, esaltazione del singolare, acuta tensione verso la bellezza, effetto del “sempre nuovo”, del sorprendente.

Nella pittura, ciononostante l’attinente indefinibilità berniniana, il “sentimento barocco” nutrito dall’artista, quale immediata percezione interiore, è pienamente collimante con quel concepire di raffigurazioni, trascendenti, create da un’ispirazione realmente poetica. Essa pertanto non viene, nell’intimo, fattivamente separata dal suo universo, quando, nelle fabbriche monumentali dove egli si adopera, l’esecuzione pittorica viene affidata ad altri autori, ovvero -in loco- per la sua indiretta influenza, o per suoi specifici consigli, o per assegnata supervisione estrinsecata in quegli esaltanti “cantieri”. Suo esternato giudizio o, ancor meglio, suo espletante coordinamento che determina la compiutezza dell’intero repertorio espressivo, acceso dalle differenti “pratiche d’arte”, fuse in un insieme inscindibile nell’attuazione di quanto indicato nel progetto. Bernini quindi riesce a congiungere architettura, scultura e pittura, finalità che, il Baldinucci, nella biografia berniniana esplicita (confermata da quella successiva di Domenico Bernini):” E’ concetto molto universale ch’egli sia il primo, che abbia tentato di unire l’architettura colla scultura e pittura in tal modo, che di tutte si facesse un “bel composto”; il che egli fece con togliere alcune uniformità odiose di attitudini, rompendole talora senza violare le buone regole, ma senza obbligarsi a regola; ed era suo detto ordinario in tal proposito che chi non esce talvolta della regola non la passa mai; voleva però, che chi non era insieme pittore e scultore, a ciò non si cimentasse, ma si stesse fermo ne’ buoni precetti dell’arte”.  Tale intento diventa un sistema progettuale e un fondamento estetico, che s’invola verso la vibrante bellezza sublime, connotando l’opera berniniana.

Le regole -la loro pedissequa osservanza-, secondo questo principio, sono strumenti che sopperiscono alla penuria, alla mancanza di acuto estro e di faconda creatività. Adoperarle quindi per essere forzate, per realizzare quel “bel composto”, che dona corpo -riprendendo ancora un brano del su richiamato mio post-, con varietà e ricchezza dei materiali, a forme levitanti, irregolari e complesse, a chiare linee sinuose e schiuse, a grandiosità in movimento, ad artifici luministici, a scenografie di estrema e stupefacente ingegnosità, ad ambientazioni sfarzose, a maestosi e concitati contrasti chiaroscurali, a pittoriche vibrazioni esaltanti il pathos dei personaggi. In questo magmatico elevato spazio, il Bernini, si erge ad anima del “Barocco”. Sommo l’estro berniniano e tale sin dagli anni giovanili, così preminente nella temperie artistica romana; lirico afflato calorosamente accolto da papa Urbano VIII (1623-1644) -sulla scia dei predecessori Paolo V (1605-1621) e Gregorio XV (1621-1623) -, al secolo Maffeo Barberini, il quale nella porpora cardinalizia ne ha già apprezzato la marcata valenza. Infatti, ancora il Baldinucci registra che:” Già era stato assunto al Sommo Pontificato il Card. Maffeo Barberino, che fu Urbano VIIIQui larghissimo campo s’aperse alle fortune del Bernino, imperciocché quel gran Pontefice non appena asceso al Sacro Soglio, che egli il fece chiamare a se, ed accoltolo con dolci maniere, in sì fatta guisa gli ragionò: E’ gran fortuna la vostra, o Cavaliere, di veder Papa il Cardinal Maffeo Barberino, ma assai maggiore è la nostra, che il Cavaliere Bernino viva nel nostro Pontificatoegli aveva concepitodi far dipignere a lui tutta la Loggia della benedizione (progetto mai eseguito, antecedentemente già affidato, da Paolo V, a Giovanni Lanfranco e, successivamente assegnato, da Gregorio XV, a Giovanni Francesco Barbieri, il Guercino); il perché gli significò esser gusto suo, che egli s’ingegnasse d’applicar molto del suo tempo in studi di Architettura, e Pittura, a fine di congiugnere alle altre sue virtù (l’eccelsa perizia mostrata dai suoi gruppi scolpiti) eminenza anche quelle belle facoltàPer lo spazio di due anni continovi attese alla Pittura, voglio dire a far pratica di maneggiare il colore attesoché egli già le gran difficoltà del disegno co’ suoi grandissimi studi superare avesse. In questo stesso tempo, senza lasciar gli studi di Architettura, fece egli gran quantità di Quadri grandi, e piccoli, i quali oggi nelle celebri Gallerie di Roma, ed in altri degnissimi luoghi fanno pomposa mostra”. 

Bernini nella pittura, che molto avverte nella sua intimità, come si legge in un altro tratto dello scritto: “ Conobbe egli fin da principio, che il suo forte era la Scultura, onde quantunque egli al dipignere si sentisse molto inclinato, con tutto ciò non vi si volle fermar del tutto; e ‘l suo dipignere, potiamo dire, che fu per mero divertimento; fece egli perciò sì gran progetti per quell’Arte; che si vedono di sua mano, oltre a quelli, che sono in pubblico sopra 150, quadri, molti de’ quali son posseduti dall’Eccellentissimi Cardinali (Francesco) Barberino, e (Flavio) Chigi (“cardinal nepote” di Alessandro VII), e da quella de’ suoi figliuoli”. La sua scultura senza pari, magnificata dai suoi contemporanei:” Non fu mai forse avanti a’ nostri e nel suo tempo, che con più facilità, e franchezza maneggiasse il marmo. Diede all’opere sue una tenerezza meravigliosa, dalla quale appresero poi molti grandi uomini, che hanno operato in Roma ne’ suoi tempi; e sebbene alcuni biasimavano i panneggiamenti delle sue Statue, come troppo ripiegati, e troppo trafitti, egli però stimava esser quello un pregio particolare del suo scarpello, il quale in tal modo mostrava aver vinta la gran difficultà di render, per così dire, il marmo pieghevole, e di sapere ad un certo modo accoppiare insieme la Pittura, e la Scultura, ed il non avere ciò fatto gli altri artefici, diceva dependere dal non esser dato loro il cuore di rendere i sassi così ubbidienti alla mano, quanto se fussero stati di pasta, o cera; questo però diceva egli non già con affetto di iattanza, o presunzione, ma per render conto di se stesso, e dell’opere sue”. Creatività immaginifica che, della scultura, ne reiventa concepimento nuovo e ardito in un’unitarietà organica; espressione d’illimitatezza, che oltrepassa la singola visione delle arti per “avverare” il culmine figurativo, che rende inviolabile, “sacra”, la straordinaria possanza espressiva di quella compenetrante unità, per la quale l’architettura si abbiglia di scultura e questa di pittura e viceversa. Così, superbo esempio- sottolineato nel mio post dedicato a François Duquesnoy (22 ottobre 2015) -, virtuosamente e poderosamente esclamano, nella Basilica papale di S. Pietro, i voluminosi piloni “sollevanti” la cupola michelangiolesca, con il loro corpo disserrato dalle logge, che incoronano gli altari dedicati a santi personaggi e le grandi nicchie esaltate dalle statue (cui il S. Longino è direttamente scolpito dal Bernini) combinanti una coralità, che definisce lo spazio centripeto della navata centrale intorno al baldacchino, mentre questo, monumentale e complesso (sì berniniano, però tanto deve alla creatività del Borromini), assume una sacrale poderosità idiomatica, che trasmette, all’osservatore, un vibrante convincimento di assistere a un evento, che supera le possibilità dell’umana azione, coinvolgimento da una grandezza scenica sospingente l’animo tra quelle rifulgenze. Da essi si apre ancor più la superficie immensa dove l’emozione, che travalica facoltà intellettive, rimane presa dalla magnificenza conclusiva dell’edificio, rappresentato dalla fastosa Cathedra Petri, capace di trasformare in commovente -nel proprio significato dell’etimo, dal latino “mettere in movimento” -, energia un multiforme apparato monumentale e celebrativo.

Un aneddoto -si vuole narrato dallo stesso Bernini e raccolto dal Baldinucci- si propone di anticipare, anzi di vaticinare, la magistrale esecuzione di quell’incomparabile insieme architettonico-scultoreo, curioso episodio che, forse non fortuitamente, è legato ad Annibale Carracci, il pittore dell’armoniosa sintesi tra realtà sensibile, naturale e reinterpretazione del linguaggio classico: “ Viveasene il Fanciullo (Bernini) in questo tempo così innamorato dell’arte, che non solo tenea con essa sempre legati i suoi più intimi pensieri, ma il trattar con gli Artefici di maggior grido, riputava egli le sue maggior delizie. Avvenne un giorno, ch’è si trovò col celebratissimo Anibal Carracci, ed altri virtuosi della Basilica di S. Pietro, e già avean tutti sodisfatto alla lor divozione, quando nell’uscir di Chiesa quel gran Maestro, voltatosi verso la Tribuna, così parlò: Credete a me, che egli ha pure da venire, quando che sia, un qual che prodigioso ingegno, che in quel mezzo, e in quel fondo ha da far due gran moli proporzionate alla vastità di quello Tempio. Tanto bastò, e non più, per far sì, che il Bernino tutto ardesse per desiderio di condursi egli a tanto; e non potendo raffrenare gl’interni impulsi, col più vivo del cuore: o fussi pure io quello! E così senza punto avvedersene interpretò il vaticino di Anibale, che poi nella sua propria persona si avverò così appunto, come noi a suo tempo diremo, parlando delle sue mirabili opere, che egli per quei luoghi condusse”.      

Questo episodio è peraltro dubbio, per la cronologia inerente ai personaggi e allo stato dei lavori circa la stessa Basilica. Il Bernini è presente a Roma tra il 1605 e il 1606 (quindi tra i sette e gli otto anni di età), periodo durante il quale, il Carracci, cade in depressione per gravemente ammalarsi tanto che, la maggior parte dei suoi lavori, sono eseguiti da aiuti, talvolta da suoi disegni; lo stato di salute peggiora conducendolo rapidamente alla morte nel 1609, quando Gian Lorenzo ha raggiunto gli undici anni di età. Secondo lo stesso Baldinucci e Domenico Bernini, egli avrebbe realizzato alcune opere in marmo proprio dall’età di otto anni, come avvalorerebbero recenti studi, cui ne mantengo remore. Inoltre, relativamente ai coevi lavori nella Fabbrica di S. Pietro e dunque al suo stato reale dell’epoca, il pontefice, Paolo V, dispone la definitiva distruzione dell'antica struttura basilicale, che si avvia all’inizio della primavera del 1606, indicendo contemporaneamente un bando circa il mutamento dell’impianto, da croce greca -come disegnato da Michelangelo- a croce latina, altresì su il non trascurabile parere della Curia, che considera l’edificio, in tal modo sviluppato, conforme alla tradizione cattolica e alle relative cerimonie liturgiche. Carlo Maderno, con la collaborazione di Carlo Fontana, fratello maggiore di Domenico, è chiamato ad affrontare una delle imprese più ardue del Seicento; i relativi lavori iniziano nella primavera del 1607, interessando le navate dalla metà dell’anno successivo, mentre già è in costruzione la facciata. Questo complessivo scenario appare escludere l’evento -dal timbro decisamente laudatorio- prima narrato, ma racchiude un coerente significato interpretativo: la concezione di una distinguibile forma unitaria, scaturita dal fondersi delle arti -delle quali, la pittura, è personificata dal Carracci-, come verità incardinata sull’immaginazione, come incitamento ed impeto dell’anima. Non accessorio a tale “vedere” si staglia quindi il riferimento al Carracci, stabilendo il rapporto tra l’oggetto della peculiare visione e il concreto contenuto dell’espressione pittorica, cui l’artista bolognese ne rappresenta un vertice, che avrà loquacità sino al primo Ottocento.

Ritornando a quanto indica il Baldinucci, riguardo ai “due anni continovi attese alla Pittura”, alcuni attuali studi -con i quali concordo- sono tradotti come fase non strettamente legata a un addestramento, acquisente sicura e abile tecnica pittorica, bensì concretante la volontà, espressa da Urbano VIII, di indirizzare, anche in quest’arte, il già famoso Bernini, coerentemente con il suo ponteficale proposito volto a combinare, visivamente, una globale lettura della rinnovata spiritualità, attraverso temi esaltanti il trionfo della Chiesa. Questa finalità, del pontefice, appare quale razionale motivo della speculare realizzazione di due santi, affidata al “nostro” Gian Lorenzo - Ss. Andrea e Tommaso, sua dipinta opera tra le più compiute - e ad Andrea Sacchi - Ss. Antonio Abate e Francesco d'Assisi- ambedue eseguiti nel medesimo anno, 1627- entrambi oggi conservati presso la londinese National Gallery- successivamente compresi nella collezione di Francesco Barberini, cardinal nepote dello stesso Urbano VIII; essi costituiscono un confronto pittorico tra i due artisti. Maestri d’arte già acclamati e protagonisti di riguardevoli commissioni pubbliche -soprattutto il Bernini protagonista massimo in S. Pietro, cui due anni più tardi ne sarà “,’l’Architetto” -, i due dipinti possono essere individuati, in merito a questo argomento, quali lavori di una medesima committenza, rifiutando perciò la “spessa” tesi di un’ideata forte influenza del Sacchi sullo stesso Bernini, se non addirittura di una discepolanza del secondo verso il primo.   

Ho accennato al cardinale Francesco Barberini (1597-1679), uomo di fine erudizione e perciò di sottile pensiero che distinguono il suo agire; quando non volto alla politica, commissiona e protegge il “fare arte”. Amante di studi letterari esterna poliedrici interessi culturali e passione per le scienze, cosmo magnificato dalla sua ricchissima libreria, che si accompagna con la consistente raccolta di dipinti e con l’insieme di antiche preziosità. Un’abbondante varietà di piante rare definisce il suo giardino e una sorta di, personale, spazio espositivo è dedicato alle scienze naturali. Figura quindi caratteristica di questa feconda epoca, che approfondisce la conoscenza del Bernini durante i lavori edificatori, da lui voluti, circa la residenza della famiglia e avviati nel 1626, sotto la direzione del Maderno e con la fattiva opera sia del Borromini sia del “nostro” Gian Lorenzo: palazzo Barberini. Sarà proprio il Bernini che, in stretto rapporto confidenziale, consiglierà al porporato l’acquisizione di alcuni dipinti.   

Quanto sinora articolato introduce nella definizione dei, peculiarissimi, modi pittorici berniniani, che colgono versi, dell'arte di dipingere a lui contemporanei, trasfigurandoli in cifra straordinariamente propria. Si alternano, in un fondo monocromatico, toni caldi e tenui o limpidi e frenati, che la tavolozza del Bernini, dalla scala uniforme, vi fa emergere un’ampissima pluralità di modellati plastici contrasti. Sceglie quindi un linguaggio “sperimentale”, organizzandovi intensi ritmi, che pervengono a una, consonante, distruzione dei volumi assegnati alle figure per quanto attiva la sola struttura cromatica. Della scuola veneta ne riprende, rimodulandola, la preziosità del colore in un’accentuata libera stesura, che elargisce consistenza al soggetto ritratto. Visivamente disgiunto, in questa precipua creatività plastica, da quella “temeraria sostanza” del “bel composto”, Bernini vi sancisce la sua primigenia idea dell’arte, intesa quale bellezza espressa nella proporzione immaginata dal disegno, principio teorico fondamentale, cui l’assenza determina il naufragio rappresentato dalla soverchiante fantasticheria, ove si smarrisce l’originaria verità, naturale perché divina secondo il concetto espresso nell’antichità. Idealità delle forme che scaturiscono dal nitido disegnato progetto e dalla saldezza compositiva, pieni elementi caratteristici della maturità di Annibale Carracci, indubbiamente sorgente di alcuni specifici tratti stesi dal Bernini pittore, non a caso citato nel non fortuito aneddoto già ripreso. Infatti, nella cifra stilistica, del pittore bolognese, il lirismo abbraccia un’equilibrata monumentalità, dispiegando cadenza timbrica nella fluidezza delle forme, lievemente cinte dal tenue alone dello sfumato.

Il Bernini dunque ne vibra, in personalissima chiave, una contestura sobria, talvolta essenziale, in un accordo timbrico echeggiante la tenerezza incarnata, dall’originalissimo classicismo carraccesco, in diverse raffigurazioni. Studio diretto della natura, combinando il concentrato intelletto con l’essenza dello stile, così il Carracci influenza il Bernini, il quale ne alleggerisce i giochi chiaroscurali, imprimendo -in differenti lavori- ai raffigurati un tagliente dinamismo.

Il “nostro artista universale” ancora acuisce, di alcune invenzioni del Carracci, l’assenza di qualsiasi riferimento a ciò che circonda i personaggi rappresentati: nessun attributo ambientale, spaziale e simili viene descritto nelle opere pittoriche eseguite. Ne discende che l’interiorità, la psicologia delle figure viene rivelata dai soli volti e dunque ancor più è tratteggiata una realtà che diviene verità poetica, per merito della quale allontana, il Bernini, la sua pittura dalla mera derivazione. Le medesime vesti appaiono, generalmente, effetti di colore, di liquida luce riflessa, che sembrano slegarsi da precise trame tessute.

Nel decifrare la pregnante determinazione pittorica berniniana, sorge un’ulteriore ascendenza interpretativa critica, che ne rintraccia altri elementi nel caravaggismo, o meglio quanto in esso la liricità regola l’estrinsecazione dell’esistenza, avvicinandosi a una quasi dotta rappresentazione del vivere, non separato dal sentimento. In tele di autori, compresi in tale forza pittorica, perciò vi è traslato un luminismo accurato, attenuante un esasperato naturalismo, confermando nondimeno solido vigore compositivo e forte tensione emotiva con nitidezza di segno e, in vivace contrasto chiaroscurale, con repentini intensi accordi cromatici.

Se il “nostro” Gian Lorenzo, quale pittore, s’impadronisce di tutti i su citati versanti, la sua geniale prestezza li sopravanza attraverso il suo rapido virtuosismo, per generare una metaforica visione del tempo, stretto alla caducità dell’umana esistenza, che soltanto il sentire poetico -nei suoi ritratti vivo, quale scopo, come in quelli degli apicali “maestri” -, riesce a essere affermazione di respiro esistente nella realtà. 

Sorprendente accentuazione d’immediati moti che, dell’artificiosità ritrattistica, si distingue l’insito impossessamento della natura attraverso l’arte, divenendo la condizione di ciò che si manifesta reale.

La raffigurazione di volti pertanto materializza la verità dei soggetti effigiati, come un mostrarne la spinta del sentimento altrimenti celato. Ebbene la rappresentazione assume elativa efficacia, di un concetto astratto, muovendosi, dal tocco del Carracci e dal ritmo di certo caravaggismo, nella mimesi d’intimo soffio emanato dall’anima o nel carattere esposto del personaggio. Con immediate, asciutte pennellate -il più delle volte non curate nei minimi particolari-, il Bernini disfa l’intendimento dell’icona ideata quale finzione, incidendo in essa incorporea ma reale volontà psichica. Carattere questo derivato dall’azione poetica nel modo anche del recitar cantando, ossia la parte declamata della composizione vocale, il recitativo sorto nella seconda metà del Cinquecento e in auge nel Seicento.

Temperie che può definirsi, parafrasando il futuro Vivaldi, “cimento nell’invenzione” in un contesto totalizzante; invenzione attivata dall’esperienza plastica ma pregna di razionale improvvisazione, che raggiunge la capacità di vivere del raffigurato ora composto, ora fremente. Urto d’interiorità che non mira a destare artificiosamente clamore, ma che riceve possa, come fatto cenno, dalla poesia e nel musicale suo magnificamento, poggiandovi saldamente visualità pittorica, traendo a sé lo sguardo dello spettatore, in un’entità a cui l’effigiato appartiene e che prende e forte tiene il medesimo osservatore. 

Dai busti marmorei eseguiti ne prende lo studio del sembiante, dunque l’espressione del volto, che nella pittura ne estremizza il superamento dell’effetto lezioso -quando non realmente provato- del premente nobilitare la raffigurazione, pertanto vincolata ad attribuire comunque, alla figura, lodi ed osannate virtù. Sperimentazione berniniana pura che avanza, con destrezza, tra le manifestazioni della natura, consolidando una rinnovata eloquenza di viva impressione. Emozione che percepisce forme riunendo, in un “tutto” unico e omogeneo, il respiro dell’anima e il getto dell’umana volontà, pingendo la rivelata autentica subitaneità, sciente di quanto la tecnica, soprattutto in questo lido, gli permette di inseguire ed afferrare la vitalità della diretta conoscenza della fortezza, generatrice di tutte l’essenze.

Ritorna una frase del Baldinucci:” ‘l suo dipignere, potiamo dire, che fu per mero divertimento”; divertimento nella sua accezione etimologica, scaturita dal latino “divertere: volgere altrove”, integralmente plausibile per la pittura berniniana, che altronde è volta, vastità di completo libero arbitrio e di esperimentazione plastica. Eliminando ogni accento metaforico o simbolico, appalesa, nell’apparire del raffigurato, l’accidentalità di un improvviso senso, fomento d’interiorità.

Non deve però essere sottaciuta che il producimento dei dipinti del Bernini sia, in buona misura, destinata, almeno inizialmente, a una propria “esposizione domestica, familiare”, utile pur quale indagine psicologica, incarnata in soggetti raffigurati, in cui il pensiero, contrariamente alla relativa positura, è attivo, spesso fremente come poi gigantesca nel bel composto, ove le membra scolpite magnificano l’impareggiabile resa dei personaggi, nell’intensa luminosità di quegli ambienti palpitanti, fluttuanti in arditezze architettoniche e plastiche, tra le vesti, ondose per la tensione pervadente tutte le superfici, aperte, dal prodigioso trattamento del marmo, con commovente moto della bellezza, illuminata da un divino biancore, disceso dall’alto cielo della creatività sublime, divenendo sostanza tangibile separata da qualsiasi metrica temporale.       

Tra le opere pinte riunite nella mostra, “Bernini” svoltasi tra novembre 2017 e febbraio 2018, presso la Galleria Borghese, un’assoluta novità mai prima esposta, suscitando enorme interesse: S. Sebastiano (segue immagine; le immagini sono tratte da Google). Dipinto proveniente da una collezione privata romana, originariamente inclusa in quella del cardinale Francesco Barberini, In esso sono tratteggiate, con efficacia e vivacità, le essenziali linee della originale liricità pittorica berniniana.


Opera inedita, cui la data di esecuzione rimane incerta (a mio giudizio collocabile entro la prima metà degli anni Trenta del Seicento), cui l’attribuzione al “nostro” artista si appalesa tesi condividibile, in virtù di quanto attualmente è verificabile, altresì rilevando la citazione compresa in un inventario del 1649, inerente alla collezione dell’alto prelato Barberini:” Quadro con … mezza figura ignuda S. Sebastiano alto palmi cinque e mezzo e largo quattro di mano del Cavalier Bernino”, opera già considerata perduta. Oltre a ciò, sul retro della tela, è apposto un sigillo cardinalizio Barberini, che ne attesta la paternità a Francesco.

Diffusi appaiono i caratteri insiti nella tavolozza berniniana, che in tale lavoro accolgono lineamenti singolari, confermandone la varianza dell’attività creativa stesa con piglio estemporaneo, perciò rara e insolita. Il dipinto richiama, velatamente e parzialmente, un sentire derivato dal “Sansone in catene” (1594, circa) di Annibale Carracci (segue immagine), conservato nella stessa Galleria Borghese, ma da questo differisce, tra l’altro, per la liquefazione del tono cromatico non steso quindi come massa compatta.



Percezione del lavoro caraccesco insita pur nel pittorico precedente,
David, (segue immagine) eseguito -come maggiormente si reputa- nel 1624 (Galleria Nazionale di Arte Antica, Palazzo Barberini), che sembra anticipare, nell’impostazione e nel procedimento tecnico, il successivo S. Sebastiano. Invero, il personaggio biblico, seppur ritratto a mezza figura, comprende elementi e finalità tipici del Bernini. Rispetto al dipinto del martire cristiano, vi si evidenzia un’accentuazione di energia palesata dal soggetto, ma il tono è modulato con la stessa repentinità, dimostrandone l’impostazione sperimentale, altresì per l’indefinita compiutezza, che però non impedisce di rilevare quanto vi sia la profonda ricerca di dar foggia, espressivamente, all’affetto. Il collegamento al David scultorio (Galleria Borghese) avviene per la conformità del tema (segue immagine) e per la quasi simultaneità delle due opere. Infatti, il “marmo” terminato nel 1624, per il cardinale Pietro Sforza Pallavicino, può far sorgere l’ipotesi che, la pittura, abbia avuto natura di studio plastico ugualmente ai fini dell’esecuzione scultoria. Il marmoreo volto -raffigurante lo stesso Bernini, come certifica il Baldinucci- riproduce una prontezza avulsa da qualsivoglia esitanza, enorme empito rafforzato dalla torsione del corpo presto a scagliare il sasso, impetuosità cui il dipinto parimenti è imbevuto.       




Nel S. Sebastiano vi campeggia la lievità della capellatura, pressoché aeriforme e contrapposta alla poderosa energia dell’incarnato fisico, completandosi nell’abbreviata rattezza del panneggio, dal retro speculare alla scompigliata capigliatura. Pieghe di un tessuto che s’indurisce e, quasi indistinto dalla retrostante superficie, sembra convertirsi in autonoma e figurativa scultura, ma, come un prodigio della dynamis -la forza- metamorfosa la staticità in una serrata dinamicità, sebbene scarna, pertanto omogenea al generale tono della pittura. Tessuto che nell’indefinitezza è mirabolante effettuazione del fine contrasto tra la figura -troneggiante al centro della tela- e il fondo, non modificando il complessivo insieme cromatico (segue immagine).


La rappresentazione è condotta in guisa sottile, mancante perciò della pletora di frecce -ne contiene solo una appena accennata- infitte nella carne e nessun fiotto sanguigno scivola sopra le membra. Il protagonista tuttavia è profondato in un’atmosfera convulsa sebbene attutita dalla campitura, dagli sfumati effetti, vicinissima alla, cupa, saturazione coloristica dei suoi capelli e della stoffa stringente i suoi fianchi. La liquida espressione del volto, intensificata dagli accigliati occhi, effonde un’aerea veemenza, un eroico ardore distante da ogni cenno ieratico; energia erompente nel culmine dell’azione piena di fervore, sicché colma di bollore, calore, indi ideogramma iconologico del Bernini che appare, con plastica esclamazione, nei suoi lavori scultorei. Frutto del suo levato ingegno, che compie la pienezza della monumentalità, verosimigliante allo svolgersi della natura, percepita quale principio vivo e operante. Da ciò il dipinto abbatte un’azione imprigionata nel disegno statico, ed esattamente col ridotto colore fruttifica la visibilità del palpito introspettivo, compiuto dall’intelletto del martire. Grandezza nei modi e negli scopi interpretati, dalla sua arte, quando maggiormente enfatizza l’origine passionale -inattesa- delle figure, asserita dall’impeto del santo, rinforzatosi, per lineamento diviso in più parti, con l’obliqua positura, infondendo allo sguardo dell’osservatore, di quello stato emozionale, una spinta spirituale. Immaterialità espressa da quella corporeità quasi nuda, librata sulla torsione fisica, regolandone intensità e timbro con ombreggiatura sulla tesa chiaroscurata pelle, secondo la cifra del Bernini abile nel mantenere, ai suoi eroici soggetti, la concreta morbidezza carnale della loro raggiante rigogliosa età, ossia la giovinezza.

Immensa qualità pittorica in un’omologia alquanto monocroma eppure così capace d’impostare impalpabili sfumature, che rendono dettagliata vita alla raffigurazione, con imprescindibile massiva sostanza monumentale, la quale proferisce impressione di volumetrica grandezza, quale integrità morale, del “campione” cristiano.   

La forma a “mezza figura” ne indica, in modo evidente, un’irrisolta compiutezza -voluta-, che, malgrado ciò, distribuisce porzione di adeguata imponenza alla scena, come se un’improvvisa incompletezza, esente dalla frammentarietà, custodisse con gagliardia la totale ampiezza emotiva. L’asciuttezza della “mano” e la scioltezza della pennellata arrivano alla dimensione e foggia, del personaggio, attraverso l’esclusiva stesura cromatica come un’addensata morbidezza in un vaporoso atto. Questo S. Sebastiano si staglia eroe evocando un moto sculturale e oratorio, risolto in verso poetico e al tempo stesso corporeo, in narrativa schiusa teatralità con traboccante sentimento, in un’energica pietas: la disposizione dell’animo ad avvertire devozione verso Dio. Opera conseguentemente penetrata da un complesso d’intenzioni, tese a favorire interiori sensazioni volte al culto, secondo il progetto religioso barberino.

In tale lavoro -come in altri berniniani- la pittura viene sostanziata dallo scultore, certificando la raziocinante ipotesi identificativa del suo autore, poiché l’unione tra plastica eroicità e raffinatezza che, dall’astratta materia, viene tramutata in carne, appartiene al Bernini, nella sua totalità anzi nella sua universalità artistica.