Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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mercoledì 6 marzo 2019

Luigi Rossi: Il Palazzo Incantato, superbo modello di “cantata profana” nell’artistico fervere della Roma seicentesca

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Nella Roma del XVII secolo, il “magistero” musicale non plasma soltanto, nell’alveo della cantata, composizioni di accenti sacri, benché queste siano copiosamente favorite. Un felice vortice di dialoghi, di echi vuole esprimere una forma esaltante un testo poetico, -spesso preso dai raggi sublimi, ad esempio, del Tasso, dell’Ariosto- che già i titoli manifestano introducendo a quel sentimento, dove strali efficaci saettano frementi affetti. Per questo suo peculiare verso, la “cantata profana”, inizialmente non richiede uno specifico termine, il quale viene accolto con l’appellativo, da camera, dall’ultimo ventennio del Seicento, quando il tessere, che la definisce in un crescendo superbo ed entusiasmante, ha già realizzato una copiosa maniera poetica, dove i periodi ritmici delle parole sono rimati con mescolanza mirabile di versi e di arie e di voci, in un’arricchita intelaiatura strumentale. Poemi comprendenti vivide raccolte di azioni eroiche, nobilmente amorose, che superano spesso il carattere fittizio di eventi per auliche feste, per essere effigiate nell’acuto affresco dell’arte.  
L’arte che, Giulio Rospigliosi (1600, futuro papa con il nome di Clemente IX dal 1667 al 1669), anche in questa peculiare forma teatrale –egli è altresì un formidabile librettista-, ne percepisce la missione universale, così intesa anche per l’irrefrenabile decadenza politica, rispetto alle epoche precedenti, del papato; in tale condizione perciò i pontefici –e i personaggi che ne abbracciano il medesimo volere- esplicitano ancor di più la loro forza di committenti e promotori delle più avanzate ricerche e soluzioni artistiche, mirate a esaltare la centralità religiosa e “civile” della Chiesa, sospingendo a ricolmare la “Città Eterna” con un fervido mosaico di pittori, scultori, architetti, musicisti, letterati, studiosi.
Il Rospigliosi, ecclesiastico di penetrante sentire, possiede quell’elevatezza culturale, quella fulgida profondità di gusto, così prominente da considerare, insieme con altri numerosi “illuminati”, l’arte come tangibilità di alti scopi, offrendo tutto il respiro del mirabilis, lo stupore che nutre lo straordinario, alla scena del Divino, luce dell’Assoluto. 
I fecondi e lunghi anni trascorsi sotto l’egida dei Barberi (1624-1644), famiglia di Urbano VIII (1623-1644), lo rivelano brillante curiale e vivido letterato, attivo partecipe della vita culturale e “laica” di Roma. Quella sua affabilità intensa “nel vivere” e quella sua fine disposizione “di trattare”, rappresentano il suo paradigma di autorevole ecclesiastico, meticoloso nel suo lavoro di Curia, svolto però con animo gentile, avvolto nella temperie culturale e positivamente “mondana”, propria della Roma di questo periodo. Il suo nome è conosciuto più in là dell’ambiente “barberiniano”, in virtù anche dei suoi componimenti poetici e dei primi felici libretti per opere musicali.
La sua laboriosità, il suo comportamento irreprensibile, la cordialità che effonde e la stima a lui manifestata dallo stesso particolare ambiente curiale, sono doti che gli permettono di attraversare, indenne, il pontificato di Innocenzo X (1644-1655), così avverso ai Barberini e al loro circolo. Questi suoi pregi caratteriali, confermati dall’eterogeneo ambiente romano, lo avvicinano al nuovo papa Alessandro VII (1655-1667), divenendone uno dei più suoi assidui collaboratori, soprattutto quale artefice e frequentatore di eventi letterari, tenuti sia alla presenza dello stesso pontefice, sia nei cenacoli culturali “dell’Urbe”, nel frattempo raggiunta da Cristina di Svezia (1655).
Eletto, il Rospigliosi, papa con il nome, come già detto, di Clemente IX, appare tuttavia minato da una salute cagionevole, che gli consente di “regnare” solo per un biennio, non tralasciando però di continuare la committenza -nel solco dei suoi ultimi predecessori- di magnifiche opere architettoniche, come l’ornamentazione scultoria di ponte S. Angelo, disegnata dal Bernini, al quale affida altresì il progetto della nuova tribuna della basilica di S. Maria Maggiore (in seguito completata, con sostanziali modifiche, da Carlo Rainaldi); ambedue i lavori però saranno terminati dopo la sua morte.             
Un uomo di densa cultura, che, ritornando ai suoi inizi di compositore letterario in ambito “barberiniano”, manifesta efficacemente con la scrittura del S. Alessio (1632), musicato da Stefano Landi e scene realizzate da Pietro da Cortona, con il quale intrattiene uno scambievole rapporto di programmi artistici, idee che vedono protagonisti altresì Gian Lorenzo Bernini, Andrea Sacchi, Nicolas Poussin, Giacinto Gimignani suo protetto. Opera religiosa –inaugurante il teatro dei Barberini, colossale spazio contenente circa tremilacinquecento posti, edificato nel loro grandioso palazzo- ma cardine evolutivo della scuola, musicale, romana seicentesca, rappresentata con scenografie del Bernini.
L’arte dunque, quando è moto di vero ispirato animo, ha inarrestabile corso e accoglie, nel suo seno Luigi Rossi (1598, circa-1653) giunto a Roma nel 1620, circa, quale “musico virtuoso" del principe Marcantonio Borghese, nipote di papa Paolo V (1605-1621), mentre dal 1640, circa, è musicista dei Barberini, nel cui circolo conosce il Rospigliosi. In tale lasso temporale egli acquisisce palese notorietà, dovuta alla sua maestria attestata dall’attributo di “novello cigno”, eminente appellativo coniato per musicisti e per poeti. La sua dimora è frequentata da numerosi artisti di diverse espressioni e uno di questi è Salvator Rosa, pittore e poeta. Accadimento singolare, a questo proposito, riveste la visita del giovane Antoon van Dyck, che già dipinge (tra il 1622 e il 1623) il coetaneo Rossi, in azione di musicista, effigiandone una sorta di preannunciata gloria.
Di fama, invero, ne raccoglie molta, poiché il suo ricco e talentuoso repertorio lo eleva tra i più ispirati creatori, di musica, della prima metà del Seicento (non solo italiano).
Se pur il suo “registro” include inizialmente quelle “manère”, dal tessuto melodico orecchiabile, “simplificato” quasi popolareggiante, presto si evolve impiegando cantate quali pluripartite con sovrapposizioni di voci e strumenti, sino a quattordici sezioni, a rondò (caratterizzate del costante ritorno di una frase principale), su libera struttura astrofica (prive della risposta del coro, che perciò non ripete l’andamento ritmico delle strofe principali), con brevi componimenti lirici, con ordinata alternanza fra parti liriche (arie) e recitative, su ritmi cui il movimento si distende in battute di tre unità di tempo (ritmi ternari), ove s’innestano movimenti danzanti quali gighe (danze in tempo ternario di tono veloce), passacaglie (danze con variazioni) e ciaccone (danze in ritmo ternario moderato). Scale diatoniche (spediti passaggi sonori tra i gradi della scala musicale), sistemi tonali (suoni sistemati in rapporto con un punto focale, nominato tonica) poggiati su bassi continui (sezioni basse delle melodie, stese ininterrottamente per tutta la durata della composizione, che così organizza tutta l’esposizione armonica dell’accompagnamento), spesso costruiti quali bassi ostinati (frase melodica frequentemente unita a un’armonizzazione continuamente ripetuta con variazioni), elementi tutti eterogenei ma che formano le sorgenti delle sue arie vocali. Queste non disperdono le esperienze, che il Rossi ha acquisito dalla scuola napoletana (la spontaneità) e da quella fiorentina (la raffinatezza), fondendosi perciò in una straordinaria varietà di modelli e di vie espressive in differenti forme: arie, canzoni, canzonette (componimenti che rispetto alla canzone sono più brevi e con tono più leggero e andamento ritmico mosso), duetti e, per l’appunto, cantate. Un materiale quindi d’inesauribile estro musicale e di profonda eloquente efficacia, che sprigiona un insieme di giustapposizioni armoniche con, talvolta, un’ordinata alterazione dei suoni. Un fascinoso mosso lirismo assegnato, particolarmente, alle voci acute e vivaci e chiare dei sopranisti.
Celebrità che elargisce, al Rossi, un cospicuo patrimonio, una considerevole collezione di dipinti, di preziosi manoscritti e di pregiati strumenti musicali; raccolte confermanti la temperie culturale vissuta nella sua abitazione (come in precedenza si è accennato), in cui ricchezza e splendore artistico sono vissuti pienamente nel cuore della cultura musicale e letteraria di Roma. Difatti, questo artista, oltre a essere un magnifico compositore mostra virtuosismo all’organo, al clavicembalo, al liuto e al canto. Egli può essere definito, per tali caratteristiche, un instancabile rinnovatore e animatore e protagonista della cultura romana, sebbene sia in concorrenza con altre risonanti “personalità”, che felicemente affastellano il tessuto urbano della città, traboccante di arte nelle sue più alte forme e perciò anche di musica e di eventi teatrali. Il suo carattere artistico lo muove nella sperimentazione di nuove formule musicali, esplicitando un nuovo -più organico- modello di cantata (da camera), che ne afferma, l’eclatante, contributo compositivo esplicitato in circa duecento “lavori”, di cui molti per sola voce, ai quali se ne aggiungono più di cento, dall’incerta però attribuzione. Cantata che acquista, per mezzo delle composizioni create dal Rossi, una fisionomia eclettica e policroma, un singolare impulso melodico, cadenze accarezzate da sensualità, schietta effusione di note, varietà di nuove armonie, d’inusitati ritmi, di originali schemi, guardando, per come appare tale pluralità di lineamenti, alla coeva espressività “barocca” di argute combinazioni delle arti figurative.
Il Palazzo Incantato rappresenta il primo dei suoi lavori cui è legata, in modo così indissolubile, la genialità di Rossi in chiave operistica, con la quale percorre una nuova esperienza stilistica. Il calmo ma, in parecchie sezioni, inedito assetto musicale slega l’aria e la melodia, dando a esse un insolito andamento, sorta di “chiaro” collocato dinanzi allo “scuro” del declamato (dove la voce legge un testo senza alcun accento melodico) e del recitativo (la voce sebbene sia intonata sulle note e accompagnata musicalmente, non è inserita nella melodia in sé conclusa, seguendo invece le cadenze e le modulazioni del discorso recitato), con il sostegno di un raffinato e composito linguaggio armonico, eseguito con elegante sensibilità.
L’Orfeo, del 1647, rappresenta la sua seconda esperienza in ambito di vigorosa “sperimentazione”, sfarzosamente allestita al Palais Royal di Parigi, residenza della regina madre Anna d’Austria (vedova di Luigi XIII), dei suoi figli (all’epoca bambini) Luigi XIV e Filippo duca d’Angiò e del cardinale Giulio Raimondo Mazzarino. Lavoro musicale e teatrale della durata di sei ore, viene replicato sei volte, -sebbene il libretto, del poeta Francesco Buti, sia di scarsa caratura letteraria- decretando, nei confronti del compositore, il riconoscimento di elevato spessore artistico oltre le terre italiane. Episodio importante, nell’Europa “barocca”, indubbiamente pregno di superbi passaggi musicali, che stabilisce un’inedita visione teatrale incentrata su una nuova ispirazione lirica.         
Ritornando alla “temperie” romana, a quanto su di essa il papato incida, inarrestabilmente racchiuso in una situazione di debolezza politica, per vicende insite nell’evoluzione della storia, ne scorgiamo la sua vitale azione di “forte visibilità”, che soltanto la creatività artistica può rendere palese,  celebrandolo come autorità vivida e possente, nella gloria della centralità del Cattolicesimo,  mostrato indissolubilmente legato alla tradizione apostolica, trasmessa da Cristo stesso ai suoi primi discepoli. A quest’aspetto “declaratorio” i pontefici assommano quello di donare, alla propria famiglia, maggiore prestigio, creando in tal modo, nel corso dei decenni, differenti e plurimi “centri propulsivi” di mecenatismo. A Roma, dagli ultimi anni del XVI secolo, i principali nuclei familiari aristocratici svolgono perciò un’impegnativa attività, che promuove le arti e le lettere, profondendo larga liberalità ai diversi autori. Fervore volto a consolidare la propria immagine e il conseguente potere e i lavori teatrali ne sono una porzione cospicua, con le loro magnificenze e sontuosità espresse attraverso numerosissime feste.  
La celebrazione, di se stessi, muove il cardinale Antonio Barberini, nipote di Urbano VIII (1623-1644), a progettare una fastosa rappresentazione scenica, che alluda, nel suo significato allegorico, alla sontuosa dimora della sua famiglia, quale emblema di rilevante “dominio”. Notevole è la considerazione che il porporato, generoso mecenate, nutre per il Rossi, tanto da nominarlo “virtuoso da camera” e affidargli il suo desiderio teatrale, sostenendolo finanziariamente affinché, una volta compiuto, abbia forma di magniloquente dramma. Questo viene allestito, il 22 febbraio 1642, in occasione del carnevale, con testo di Giulio Rospigliosi, ispirato e tratto dall’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto: Il Palazzo Incantato overo La Guerriera Amante, indicato pure Il Palagio d’Atlante nei manoscritti, a noi giunti, della partitura.
Le cronache dell’epoca riferiscono circa il caloroso successo tributato dal pubblico che, per quanto si deduce, non rivela alcuna noia, malgrado l’enorme durata dello spettacolo. In esso si erge la magnificenza delle scenografie (che, secondo alcune notizie, per un breve periodo avrebbero visto la mano del Bernini) concretate sotto la direzione di Andrea Sacchi -già impiegato altresì come architetto per creare scene di altre rappresentazioni, svolte nel teatro dei Barberini, nonché per apparati effimeri-, i policromi disegni pittorici di Filippo Gagliardi, la ricchezza dei costumi, i fascinosi cambi di scena, lo sfavillio dei balletti, la decorata grandezza dei meccanismi scenici, la piacevole ed elevata essenza della musica. Questo florilegio di sublime bellezza rapisce gli spettatori, sostanziando lo scopo primario di glorificare lo splendore dei Barberini. Spettacolo dalle dimensioni mai prima posto in scena a Roma, dal quale definitivamente risalta la valenza creativa del Rossi. L’unicità- allora- di questo evento è testimoniato dall’esasperata ressa dei meno abbienti, per assicurarsi un posto, scaturendone addirittura furibonde colluttazioni tra le persone.
La monumentale rappresentazione, sebbene sia enormemente lodata, è assalita anche da qualche critica, derivata da “convinzioni istituzionali” (l’esposizione dell’argomento trattato); oltre a ciò, secondo alcuni, il lavoro, nel suo complesso, appare “lagrimoso”, quindi ostentatamente di tono patetico e sospiroso. Non giova neppure la rivalità fra i cantanti e le difficoltà inerenti alla messinscena, poiché qualche “macchina teatrale” –dovute alla “mano tecnica” di Apollonio Guidoni, già assistente del Bernini in un precedente apparato effimero- si rivela difettosa, guastando, in alcuni momenti, il dramma.
Imponente spettacolo, cui il costo ammonta, secondo alcune fonti, a ottomila scudi, rilevante somma finanziaria, in parte necessaria per concretare le scene e i costumi, richiedenti squadre costituite da numerosi operai e sarti.
La trama si snoda tra un prologo comprendente una sinfonia -introduzione strumentale legata alla vocalità e alla drammaticità dell’opera, che subito segue sulla scena-, tre atti, i quali, complessivamente, si svolgono attraverso quaranta diverse scene, interpretate da diciotto dei più acclamati cantanti di Roma (cito i sopranisti Marcantonio Pasqualini e Loreto Vittori, il contralto Mario Savioni; uomini, per il divieto alle donne di recitare e cantare in pubblico), i quali danno volto e voce a ventiquattro personaggi; essi sono per la maggior parte cantori della Cappella Pontificia. La sontuosità e la “vastità” di questo evento, memorabile e costosissimo, sono manifestate dalla sua durata complessiva che occupa sette ore, tra parti vocali solistiche, cori, balletti, mutamenti di scena.
L’argomento del dramma sviluppa un turbinio di bagliori, accenni arguti, rimandi sottintesi, espansioni di contrastati sentimenti. Vicenda tratta dal corto brano –inerente al mago Atlante- del poema dell’Ariosto, il quale in questo lavoro invece costituisce il soggetto così lungamente espresso in versi e in musica.  
Nel prologo dibattono la pittura, la poesia, la musica e la magia (concepita come capacità di produrre effetti) su chi tra esse, sublimi arti, sia la più elevata. L’esito scaturisce dalle vicende narrate nei seguenti tre atti dell’opera, incardinati sul valore dimostrato dal paladino Ruggiero. Nei labirintici e magni spazi del Palazzo Incantato voluto dal mago Atlante, per un oscuro incantesimo vagano, dame e cavalieri, alla tormentata ricerca di amori perduti. Nomi che si susseguono, incalzanti, dall’Orlando Furioso  (già presenti nell’antecedente poema Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo): Angelica, Astolfo, Orlando, Bradamante, Ferraù, Marfisa, Sacripante. Un coro di spiriti commenta i fallaci cimenti amorosi, mentre avviluppati accadimenti dettano l’agire dei personaggi -tra i quali si muove Atlante con avversi scopi nei loro confronti- sino a quando la virtù, la forza dell’amore, prevale sulla magia, che delle arti è la sola sconfitta, svanendo nel nulla e quindi dalla vista delle dame e dei cavalieri, così ricongiunti con i rispettivi amanti.
Secondo uno scritto, Allegoria dell’Opera (datato 1662), essa “asconde sotto favolose sembianze quei sentimenti morali, ch’ella si propone d’insegnar dilettando”. L’edificio, ove si svolge la sceneggiatura, dunque raffigura quella brama di felicità, a cui l’umanità affannosamente si volge per abbrancarla, senza riuscirvi. In Atlante -il mago e gigante- si cela il mondo, che, con inganno, blandisce gli uomini per mezzo dell’illusorietà agitante nei sensi, poiché immagini, della circonfusa realtà non osservata nella sua effettiva dimensione, appaiono colossali rispetto alla loro vera consistenza. Gli stessi cavalieri erranti, che rappresentano il principio attivo delle facoltà dell’intelletto, della volontà e del sentimento, possono smarrirsi nel labirinto della colpa, del peccato. Bradamante, intrepida guerriera e donna grandemente innamorata, con la sua irrefrenabile tenacia, descrive la ragione vittoriosa sull’oscura frode che minaccia l’anima.
Si è osservato in precedenza il motivo originario, per cui è stato creato questo dramma; attraverso i particolari gesti, gli artifici e il giganteo consegnato alle figure delle similitudini, si effonde la munificenza dei Barberini, che troneggia la copiosa meraviglia, dove lo slancio degli affetti –che nel linguaggio poetico indicano la vastità dei sentimenti-, non è scevro di sciolta voluttuosità, verso cui un tetro ammonimento però chiama a sé tutti i respiri, volgendoli a quell’inevitabile lido, dalle scure onde che gettano l’uomo nella morte. Vanitas alludenti alla caducità di ogni bellezza e alla transitorietà della condizione umana, ma proprio nella vaghezza che l’esistenza può declamare le sue più eminenti strofe.
Il Rossi impronta a questa opera (come in altri suoi lavori) improvvisi acceleramenti armonici e ritmici al basso continuo (divenendo basso ostinato), unendo soavi melodie utilizzando il canto fiorito, vale a dire con frazionamento dei suoni, manifestante l’espressiva liricità, che scandisce, in alcuni passaggi, una schietta passione, attestando il trionfo della cantata nelle rappresentazioni musicali-teatrali. La struttura dell’armonia più complessa, dalla quale derivano i “pezzi chiusi” (musicalmente autonomi rispetto alla composizione), a scapito dei recitativi, si appalesa nel successivo –più maturo- Orfeo, ciononostante nel Palazzo Incantato la melodia si svela in incisive e riuscite dissonanze, di frazioni sonore anticipanti passaggi seguenti, di vivaci rallentamenti, di accordi sovrapposti, di note salienti e discendenti; intensa esposizione i cui le voci dei numerosi cori (molti dei quali strettamente uniti agli accordi armonici e perciò privi di ornamentazioni) ripetutamente si snodano all’unisono e sporadicamente in chiave contrappuntistica, questa voluta da quel canone, già sviluppato nel XV secolo, dove l’impostazione di una voce è imitata, in prefissati intervalli di altezza e di tempo, dalle altre.
Arte, che Luigi Rossi ascolta nel soffio etereo dell’ispirazione, tentando di valicare, almeno nella sua intima percezione, i ristretti segmenti che, la nobile e facoltosa committenza, tratteggia con la sua autocelebrazione.     

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Riporto di seguito, in ordine cronologico, i precedenti post di argomento musicale sinora pubblicati.

·         Mozart a Roma (27 novembre 2014)
·      Alessandro Scarlatti: il clima musicale della Roma barocca; l’oratorio; “Il martirio di S. Cecilia” (9 dicembre 2014)
·        Handel nello splendido vivore artistico di Roma (6 febbraio 2015)
·    Arcangelo Corelli, il paradigma musicale dell’ambiente aristocratico e artistico romano (18 luglio 2015)
·     Il Grand Tour a Roma di Felix Mendelssohn-Bartholdy (20 giugno 2016; attualmente sesto post dei più letti)
·      Giacomo Carissimi nella definizione dell’oratorio (25 settembre 2017)